di Corrado Bagnoli, ilsussidiario.net, 23 ottobre 2014
Non si affannino i legislatori, gli imprenditori, i sindacalisti e le corporazioni; non si sprechino pagine e pagine di questionari o pdf di proclami in rete: se mai questa scuola italiana, tirata per la giacchetta ogni santo giorno da tutte le parti, potrà davvero riuscire a salvarsi, sarà solo grazie a un insegnante.
Un insegnante con la sua voce, il suo corpo, la sua presenza. Lo diceva già Daniel Pennac nel suo Diario di scuola: “una sola certezza, la presenza dei miei allievi dipende strettamente dalla mia, dal mio essere presente all’intera classe e a ogni individuo in particolare, dalla mia presenza alla mia materia, dalla mia presenza fisica, intellettuale e mentale, per i cinquantacinque minuti in cui durerà la mia lezione”.
Massimo Recalcati, psicanalista lacaniano, ne L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento (Einaudi, 2014) dice esattamente che questa è l’unica chance per la scuola. Anzi, dice di più: un’ora di lezione può cambiare la vita. La sua, per esempio, è cambiata così. A leggerlo dalle ultime pagine, quello di Recalcati è uno straordinario libro d’amore e di passione per alcuni insegnanti, e in particolare per un’insegnante di lettere che l’autore ha avuto la fortuna di incontrare all’Istituto agrario di Quarto Oggiaro. Giulia Terzaghi, così si chiamava l’insegnante, è stata “un fuoco più caldo, più profondo, più forte che ho portato da allora in me e che ho custodito come un’eredità”, dice lo psicanalista. L’incontro con Giulia ha modificato per sempre il cammino della sua vita, cioè, per dirla con le parole di Recalcati, ha prodotto un “soggetto, un desiderio singolare, una passione che può orientare la vita…
Per continuare:
http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2014/10/23/SCUOLA-Chi-puo-salvarla-dai-nemici-del-desiderio-/546064
SE LA SCUOLA GUARDA A TELEMACO. Lo sguardo innamorato di Massimo Recalcati sul mondo dell’istruzione e sull’insegnamento nel suo ultimo libro “L’ora di lezione”
di Paolo Randazzo, europaquotidiano.it, 23 ottobre 2014
Ci sono libri la cui densità concettuale rapisce il lettore e lo induce a ripensare la propria esperienza di vita alla luce di quanto vi ha scoperto. Così è L’ora di lezione (Einaudi), l’ultimo saggio di Massimo Recalcati che, in appena centocinquanta pagine, esprime un’idea forte della sostanza e della pratica educativa dell’insegnamento scolastico che, magari non è particolarmente nuova né originale, ma ha il grandissimo pregio d’essere esposta con un entusiasmo davvero contagioso.
Lo sguardo dello studioso (Recalcati è uno psicanalista lacaniano) è uno sguardo innamorato ed è rivolto alla scuola, alla scuola pubblica in particolare, alla vicenda storico-culturale che, negli ultimi decenni, l’ha condotta a trasformarsi da testimone ed esecutrice autoritaria di una visione del mondo gerarchica, correttiva, definita e organica (l’autore la definisce “Scuola-Edipo”) a luogo in cui il principio del piacere e del desiderio individuale ha trionfato sulla frustrazione del “dover” essere e, con questo principio, si è imposta ad ogni livello la trasformazione dell’educazione scolastica in mera proposizione e attivazione di conoscenze da poter spendere nel mercato del lavoro (per identificarla l’autore la chiama “scuola-Narciso”).
Un modello scolastico, quest’ultimo, che appare devastante per la pratica dell’insegnamento perché in esso è totalmente spezzata, a vantaggio degli alunni – ma ovviamente si tratta di un falso e debolissimo vantaggio –, l’alleanza educativa tra famiglie, scuola e società. La soluzione di continuità tra questi due modelli di interpretazione del senso e della presenza della scuola pubblica è identificata senza troppe difficoltà nel moto di liberazione del desiderio che s’è avuto nel ’68.
Da qui Recalcati prende quindi l’abbrivio per individuare e proporre un terzo modello (la Scuola-Telemaco) che ha già innervato le migliori esperienze educative della nostra cultura (l’“ora di lezione” che ha cambiato la vita di moltissimi) e che, se assimilato, potrebbe fornire un nuovo orizzonte ideale, operativo e solido, alla scuola e, nella scuola, alla figura dell’insegnante-educatore.
In questo modello di educazione scolastica l’insegnante non è soltanto, e forse nemmeno primariamente, colui che possiede un patrimonio di conoscenze da trasferire agli alunni e una metodologia didattica (più o meno tradizionale o più o meno aggiornata), ma semmai è colui che, consapevole che soltanto nel rapporto “erotico” col sapere si gioca la partita di una educazione efficace, trova la forza interiore, l’entusiasmo e la preparazione disciplinare (sì, anche la preparazione, giacché essa va sempre tenuta viva ed aggiornata) per mettere in autonomo cammino i discenti (come Telemaco, appunto, che decide autonomamente di mettersi i viaggio alla ricerca del padre e della sua identità), per risvegliare in essi la consapevolezza che non si conosce mai abbastanza e che, socraticamente, l’unico vero sapere è il sapere di non sapere.
La notazione socratica non è casuale dato che Recalcati trova l’archetipo di questa sua tesi proprio nel Simposio platonico, nel passo in cui Socrate rifiuta di apparire lui stesso ad Agatone il diretto portatore del sapere (eromenos) ma rimanda piuttosto il discepolo ad una ricerca che non può esser mai conclusa data la natura statutariamente erotica e atopica del sapere e, più ancora, del desiderio di sapere.
E tuttavia è già in questo archetipo filosofico che può riscontrarsi quella che appare la maggiore fragilità di questo libro, il nodo che evoca implicitamente ma non scioglie e, forse, il campo vasto in cui potrebbe avventurarsi nel prossimo saggio: ovvero, come è possibile creare figure di docenti che sappiano autonomamente interpretare questo stile fecondo di insegnamento? C’è ancora un interesse e/o un dovere dello stato nel creare questo tipo di educatori? Attraverso quali mezzi e percorsi?
E, una volta formatosi un tipo di educatore del genere, come tener viva questa sua coinvolgente passione per l’insegnamento? Come monitorarla e, se del caso, valorizzarla? A quale incrocio di studio, storia, cultura, complessione personale, contesto socio-politico si verifica la possibilità che una persona diventi capace di essere un educatore e un maestro, prima e oltre che un semplice insegnante?
Sono domande cruciali che, oggi più che mai, non possono essere eluse dagli intellettuali italiani che si cimentano con tali problematiche, anzi occorrerebbe un approfondimento autentico, sistematico e non episodico e superficiale di questi temi, e però il modo con cui le questioni scolastiche sono state affrontate in questi anni e sono tuttora riproposte – è triste dirlo – di certo non lascia ben sperare.
http://www.europaquotidiano.it/2014/10/23/se-la-scuola-guarda-a-telemaco
NON È IL GENE (DEL NOBEL) A FARE IL GENIO. L’esperimento fallito
di Luigi Ballerini, avvenire.it, 24 ottobre 2014
Potrebbe sembrare un esperimento scientifico, o forse ancor di più la trama di un film di fantascienza, ma non sono né l’uno né l’altra.
Davvero nel 1980 e fino al 1999 una persona di nome Robert K. Graham ha costituito in America quella che dalla stampa è stata definita la Nobel Prize sperm bank, una banca del seme da soli donatori ‘geni’. I donatori – reclutati nei Campus universitari più prestigiosi tra studenti dal Quoziente Intellettivo fuori scala, campioni olimpici e professori con i massimi riconoscimenti nel loro campo – erano tutti maschi bianchi con alte qualità già dimostrate sul campo. Le dichiarazioni di Graham non lasciavano dubbi quanto alla sua visione sull’umanità. «Migliore è il patrimonio genetico, migliori saranno gli individui che ne deriveranno. Più povero il patrimonio genetico, più inutili e nocivi saranno gli individui che ne deriveranno». Proprio così,
inutili e nocivi.
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http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/NON-IL-GENE-A-FARE-IL-GENIO-.aspx
ŽIŽEK CI SPIEGA COS’È UN EVENTO TRA TSUNAMI E GANGNAM STYLE
di Giulia Basso, ilpiccolo.gelocal.it, 24 ottobre 2014
Gli hanno affibbiato l’epiteto di “Elvis della filosofia” e dicono che “più che un filosofo è un fenomeno”. Lui non si scompone, tira dritto per la sua strada e con il suo mix postmoderno, che affianca i classici del pensiero filosofico e religioso ai prodotti più brutali della cultura di massa, continua ad appassionare alla filosofia anche chi dalla filosofia si è sempre, volontariamente, tenuto distante.
Ciò che colpisce sempre e inesorabilmente del “fenomeno” Žižek è la sua straordinaria capacità di costruire ragionamenti serrati e logicamente ineccepibili saltando dal cinema alla storia, dalla politica ai cantanti pop, in un viaggio volto a dimostrare che no, nonostante Hawking abbia decretato trionfalmente che “la filosofia è morta”, la filosofia è viva e gode pure di ottima salute. Ed è un viaggio anche il suo ultimo saggio, “Evento” (Utet, 14 euro), che fin dal titolo annuncia la sfida.
Per continuare:
http://ilpiccolo.gelocal.it/tempo-libero/2014/10/24/news/i-ek-ci-spiega-cos-e-un-evento-tra-tsunami-e-gangnam-style-1.10178225
DI NATALE CELEBRA FREUD A TERAMO
di Redazione, ilcentro.gelocal.it, 24 ottobre 2014
Scritti inediti che raccontano un lato privato della vita di Sigmund Freud, il padre della psicanalisi, sono stati riscoperti e pubblicati da Tonino Di Natale nel libro “Vetraia. Stralci di vita”. Il volume è stato presentato a Teramo dallo stesso autore che ha raccontato le ultime notizie sulla presenza del figlio di Freud, Martin, a Teramo. Di Natale ha proiettato e illustrato nei dettagli attraverso il materiale reperito negli archivi di Vienna, Washington e Londra.
Per continuare:
http://ricerca.gelocal.it/ilcentro/archivio/ilcentro/2014/10/24/TE_18_05.html
LATENZA
di Remo Ceserani, leparoleelecose.it, 23 ottobre 2014
La parola latenza (dal latino “lătēre”, stare nascosto, imparentato con il greco “lethe”, oblivio, e con lontane radici indoeuropee) è presente in tutte le lingue occidentali (è invece specificamente italiana la parola latitanza, dal latino latitare; forse perché siamo un paese di banditi e fuorilegge?).
Il primo a lanciare la parola sul piano culturale è stato, nel 1904, Sigmund Freud, prendendola dal linguaggio medico (latenza di una malattia) per indicare, in psicoanalisi, il periodo che va dai cinque anni alle prime manifestazioni della pubertà, contrassegnato da una desessualizzazione delle relazioni oggettuali e dalla nascita di sentimenti come il pudore e la repulsione e di aspirazioni etiche ed estetiche, conseguenti a un blocco dell’evoluzione sessuale del soggetto. Da allora la parola ha esteso il suo campo di applicazioni: nel 1909 l’antropologo francese Anton Van Gennep ha distinto, nei riti di passaggio delle società primitive, tre fasi: la separazione o «morte» della precedente condizione, il momento di «latenza» e l’aggregazione o «seconda nascita». Nel 1951 il sociologo americano Talcott Parson, fondatore della scuola struttural-funzionalista, nel libro Il sistema sociale, ha chiamato latenza una delle quattro funzioni nei sistemi sociali del cosiddetto AGIL: accanto alla funzione adattiva, quella del raggiungimento dei fini, quella dell’integrazione, la funzione del mantenimento del modello latente. In anni recenti il termine si è esteso ad altre discipline: in fisiologia sperimentale, tempo di latenza è lo spazio di tempo che intercorre fra l’applicazione di uno stimolo e la manifestazione della corrispondente reazione; in informatica, latenza di risposta viene chiamato il tempo impiegato da un’informazione per passare da un’unità all’altra di un sistema, in particolare da un sensore al relativo elaboratore.
Siamo, con un concetto come latenza, in atmosfera post-strutturalista: al posto della logica binaria (significante/significato, soggetto/oggetto, memoria/oblio, rimozione/affioramento, repressione/liberazione, materializzazione/sublimazione, ecc.) c’è la logica ternaria (che risale alla semiotica di Peirce): nella dualità memoria/oblio o presenza/assenza si inserisce il terzo elemento: la latenza.
È abbastanza nuova l’utilizzazione del concetto di latenza nella teoria della storia (in convergenza con teorie della filosofia e della letteratura). Si tratta di tentativi di muovere oltre le storie della cultura, le storie della mentalità care ai francesi delle «Annales» o agli inglesi di «Past and Present», le storie quantitative e statistiche.
Do due esempi interessanti: uno dal campo degli studi storici, l’altro da quello degli studi letterari. La carriera dell’olandese Eelco Runia è esemplare: egli ha studiato storia e psicologica all’Università di Leida e ha ricevuto un dottorato nel 1995 con una tesi molto premiata, intitolata Die pathologie van de veldslag. Geschiedenis en geschiedschrijving in Tolstoj’s Oorlog en vrede (Patologia della battaglia. Storia e storiografia in Guerra e pace di Tolstoj). Dal 1999 ha lavorato, nelle vesti di psicologo e psicoanalista, come istruttore/supervisore di studenti di medicina. In quegli anni ha pubblicato un secondo libro in olandese, Waterloo Verdun Auschwitz: De liquidatie van het verleden(Waterloo Verdun Auschwitz: La liquidazione del passato), in cui cercava di rispondere alle domande: perché dopo 50, 60 anni l’olocausto rimane «un passato che non riesce a passare», e che funzione svolgono consciamente o inconsciamente gli storici, i romanzieri, i pittori, i curatori di museo, i registi di film nel processo di superamento di eventi traumatici? «Si tratta di una risposta specifica a una tribolazione specifica (colpa, umiliazione, perdita di disinvoltura, senso di discontinuità, esperienza della contingenza) oppure si tratta di un tipo immutabile di lavoro onirico (Trauerarbeit)?». Runia ha pubblicato anche (2003) un romanzo che ha suscitato scalpore: Inkomend vuur (Fuoco incipiente) sulla disastrosa missione dei caschi blu olandesi a Srebenica nel 1993. Un secondo romanzo, anch’esso in olandese, è stato pubblicato nel 2008: Breukylag (linea di faglia): ha la forma di un blog e si presenta come «un esperimento per capire come la ‘realtà’ deve essere seppellita in un testo per tenerla in vita». All’inizio del 2003 è diventato uno storico e un teorico della storia a pieno regime, come ricercatore nell’Università di Groningen, come frequente visitatore in università americane e partecipante a progetti e colloqui internazionali, come autore di numerosi articoli in rivista, saggi in volumi collettivi, curatore di volumi e libri suoi, in olandese e in inglese. Tra i più significativi i saggi Presence, in «History and Theory» del 2006; Burying the dead, creating the past, in «History & Theory» del 2007; Inventing the new from the old – from White’s ‘tropics’ to Vico’s topics, in «Rethinking History» del 2010; Ein Kurzschluss in der Lustmaschine: Lenin, Geschichte und Evolution (Un cortocircuito nella macchina del piacere: Lenin, storia ed evoluzione), in Latenz. Blinde Passagiere in den Geistenwisseschaften (Latenza. Passeggeri clandestini nelle scienze umane), a cura di H. U. Gumbrecht e F. Klinger, Göttingen 2011; e il libro più recente Moved by the Past. Discontinuity and Historical Mutation, New York 2014, in cui si sforza di collegare fra loro storia degli eventi, storia delle idee e storia dell’evoluzione («gli esseri umani sono animali che hanno preso l’evoluzione nelle proprie mani») e sostiene la tesi che è ormai tempo di riconnettere una filosofia della storia di tipo critico con una di tipo sostanziale: «non dobbiamo sollevarci sopra le cose che si sono svolte nel passato, ma piuttosto prendere la strada bassa e cercare di entrare in contatto con quelle che possiamo chiamare lebowels(viscere) della storia […], e tener conto che entrare in contatto con la storia, con quella che io chiamo la presenza della storia, è molto più difficile che osservarla a distanza, da una prospettiva lunga».
Negli scritti di Runia il significato della parola presenza è molto vicino a quello della parola latenza. Si tratta di una presenza latente. Nel saggio del 2007 egli introduce, per spiegare il suo concetto di presenza latente, l’immagine del passeggero clandestino su un transatlantico (stowaway in inglese), e naturalmente subito la nostra enciclopedia culturale ci ha consegnato la locandina di un film musicale di successo del 1936: Stowaway, in italiano Cin Cin, diretto da William Seiter, con Shirley Temple nei panni di una piccola orfana, imbarcata clandestinamente su un bastimento diretto a Shanghai, che incontra sulla nave un ricco playboy e risolve i problemi propri e di lui, spingendolo a crearsi una famiglia, che finirà per adottarla).
Runia ricorda che per trent’anni ormai, a partire dal famoso libro di Hayden White, Meta-history, la ricerca sul nostro passato ha vissuto sotto l’egida delle teorie della rappresentazione e della narrazione, ma che quelle teorie hanno perso vigore, di fronte a fenomeni come i luoghi della memoria, i traumi dei grandi eventi, le problematiche del ricordo. Secondo lui i difetti della storia narrata e rappresentata derivano dal fatto che essa è guidata soltanto dai processi di «trasferimento del significato». Alla metastoria egli contrappone la «presenza» della storia (il modo «non rappresentato in cui il passato è presente nel presente»). Ci vuole (e qui recupera Vico) una visione «topica» della storia e una visione «metonimica» della storia (mentre la metastoria, come trasferimento di significato, privilegia la figura della metafora). Detto in termini più semplici: la nuova storia auspicata da Runia punta alla concretezza, alla densità (nel senso in cui l’antropologo Clifford Geertz usava un termine come thick description: descrizione densa), alla profondità e stratificazione dei significati anziché al loro allineamento orizzontale nella narrazione, quasi alla presenza fisica (pur se latente) della storia. «La realtà storica viaggia nel bastimento storiografico non come passeggero pagante ma come clandestino. La metonimia, come un passeggero clandestino, come ciò che è assente o inconsapevolmente presente sul piano del tempo, funziona essa stessa come metafora della discontinuità, o piuttosto, dell’intreccio fra continuità e discontinuità».
Non credo che sia necessario rievocare qui in dettaglio la carriera di Hans Ulrich Gumbrecht (Sepp, per amici, colleghi e studenti); alcuni dei suoi libri sono tradotti anche in italiano. Si tratta di un filologo romanzo che ha fatto studi in Italia e Spagna, è stato allievo di Jauss e ultimo rappresentante della cosiddetta «Scuola di Costanza», promotrice della critica della ricezione; si è poi trasferito in America, come professore a Stanford, ha ripudiato l’eredità di Jauss e ha allargato di molto i suoi interessi e ambiti di studio: verso gli studi culturali, verso il recupero della storia della filologia, verso l’ermeneutica e contro l’ermeneutica, verso il recupero della filosofia di Heidegger, verso l’esistenzialismo di tradizione francese. Ha anche vissuto una trasformazione ideologica: dal ribellismo di sinistra giovanile a un certo conservatorismo in età matura. Fra i suoi libri più noti: In 1926: Living at the edge of time (Cambridge 1997); Corpo e forma: letteratura, estetica, non-ermeneutica (Milano 2001);Production of presence: what meaning cannot convey (Stanford 2004); Stimmungen Lesen: über eine verdekte Wirklichkeit der Literatur (Leggere le Stimmungen: su una realtà nascosta della letteratura) (Monaco 2011). Spesso in questi libri si è soffermato su concetti come «presenza», «latenza» o l’introducibile tedesco «Stimmung» (atmosfera, clima, sentimento vago di una percezione). In un libro come 1926 ha cercato di ritrovare il clima di un’intera epoca storica, scegliendo un anno su cui concentrarsi. Quando la Harvard University Press ha commissionato a David E. Wellbery e Judith Ryan una nuova storia della letteratura tedesca (2004), Gumbrecht, che ha lavorato come consulente, ha incoraggiato gli autori a organizzare il libro sulla base di date significative, «presenze» simili a quelle che lui stesso aveva messo in opera con il libro sull’anno 1926.
Ora, nel libro più recente, intitolato nell’edizione americana After 1945. Latency as origin of the present (Stanford 2013; edizione tedesca: Nach 1945: Latenz und Ursprung der Gegenwart, Berlin 2012), ha fatto una mossa anche più ardita: ha cercato di ricostruire la Stimmung, soprattutto in Germania, degli anni immediatamente successivi alla guerra, mescolando ricordi autobiografici, evocazione di fatti storici, testimonianze letterarie, tutti sotto il segno di una presenza clandestina, di una clamorosa latenza, fatta di buchi neri e imbarazzi del ricordo. Per esempio: egli, nato nel 1948 in una famiglia medio-borghese e simpatizzante del nazismo, ricorda i canti di Natale sotto l’albero nella casa di campagna del nonno nell’immediato dopoguerra, la visione di un carro armato americano che per sbaglio ha ridotto in poltiglia un’automobile tedesca con i suoi passeggeri, l’album della nonna da cui sono state strappate (lasciando dei vuoti latenti) alcune fotografie (imbarazzanti?) dell’anteguerra. Oppure: ha recuperato la prima pagina del giornale di Monaco, la «Süddeutsche Zeitung», del 15 giugno 1948, con la notizia della riforma della moneta del paese sotto l’occupazione alleata; riletto criticamente la lettera di Heidegger del 1947 sull’umanesimo scritta in risposta al filosofo francese Jean Beufrer sotto l’impressione di lettura del saggio di Sartre L’existentialisme est un humanisme; ricordato che in quell’anno l’assunzione media di calorie di un cittadino tedesco era passata da 3000 a 900, il numero medio di divorzi da 8.9 per mille nel 1939 a 18 nel 1948.
Le citazioni del Godot di Beckett si allineano accanto al Dottor Živago di Pasternak, quelle del dramma di Sartre Huis closaccanto a al dramma di Wolfgang Borchert Draussen vor der Tür (Fuori, davanti alla porta), il Rapporto Kinsey accanto al trattato di Sartre L’être et le néant, Don Camillo e Peppone di Guareschi accanto al film Some like it hot con la Monroe, i verbali del processo di Norimberga accanto al romanzo Studenti di Jurij Trifonov, il grosso libro di Curtius sulla tradizione latino-medievale accanto alle Ceneri di Gramsci di Pasolini. Il ricordo di aver seguito, alla radio, nel 1964, il trionfo del pugile Cassius Clay divenuto Muhammed Ali si allinea con quello di una visita, nel 1966, al sito dove si stava costruendo la nuova capitale Brasilia nel paese sudamericano, il ricordo degli anni di impegno politico rivoluzionario e di un arresto durante una manifestazione contro la guerra del Vietnam si allinea con il ricordo della disistima provata a Costanza verso il suo maestro Hans Robert Jauss e, qualche anno dopo, la scoperta che dietro le tante dichiarazioni di fede democratica di Jauss, che a lui giovane assistente suonavano false, si celava una precedente esperienza di ufficiale delle SS.
A un certo puto capita fra le mani di Sepp Gumbrecht la fotografia di una famiglia portoghese, che lui descrive in dettaglio: in piedi da un lato una madre bellissima, sorridente, dall’altro lato un padre dall’aspetto goffo e perturbante, e in mezzo, su una sedia, una bambina di circa tre anni, vestita alla moda, carina, quasi angelica, ma con una fisionomia che fa pensare che da grande il suo viso assomiglierà piuttosto a quello del padre: Gumbrecht sospetta che ci sia una storia latente nella foto, di quelle che non si possono inventare: un vero dramma, complicato, forse doloroso, forse la storia di un difetto fisico, di un tradimento, addirittura forse di un delitto.
Gli episodi autobiografici, i ricordi collettivi, i testi offrono gli spunti per una riflessione su una particolare Stimmung, una qualità confusa e labirintica dell’atmosfera culturale degli anni del dopoguerra: «Le immagini nella pubblicità del dopoguerra di lame di rasoio sulle guance di bambini, di mariti violenti, di nonni agitati ci toccano sulla nostra pelle e svegliano al tempo stesso sentimenti di malessere interiore, che non sappiamo come esprimere. Nel doppio significato di contatti fisici superficiali e sentimenti che non sappiamo controllare, le Stimmungen formano una parte oggettiva delle situazioni e dei periodi storici. Come tali – vale a dire, come condizioni di una “sensibilità oggettiva” – essi costituiscono una dimensione centrale, anche se largamente trascurata, di ciò che può rendere per noi presente il passato – un immediato e intuitivo presente». La conclusione, di questo intellettuale che è nato subito dopo la fine della guerra, e ha vissuto l’intreccio di ricordi, dimenticanze e latenze proprio di quel periodo, è abbastanza sconsolata: «L’incapacità di trovare un rapporto stabile con il passato che abbiamo ereditato è stata, credo, la storia delle nostre vite, e non ci rimane abbastanza futuro per liberarci da questo destino. Penso che l’unico scopo più o meno realistico stia […] nel descrivere il decennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale per capire come la Stimmungdella latenza emerse, si diffuse e, forse, si trasformò con il passare del tempo».
http://www.leparoleelecose.it/?p=16488
MISOGINIA, NON STIAMO ZITTE!
di Marina Valcarenghi, ilfattoquotidiano.it, 25 ottobre 2014
“Una donna può studiare ma non può esprimere un pensiero originale” affermò un mio paziente senza nemmeno paura di essere strangolato: doveva sembrargli un concetto ovvio. A un recente convegno di psicoanalisi un rappresentante istituzionale della categoria ha aderito a questa scuola di pensiero osservando come il costante aumento delle donne psicologhe ridurrà inevitabilmente la nostra materia all’ “accudimento”, al sostegno e all’orientamento, a scapito della ricerca e della dimensione scientifica.
Fantastico esempio di come la misoginia abbia cambiato forma adattandosi al presente. Nessuno borbotta più: “taset se no te moeret” come a Milano o “che la piasa, che la tasa e che la staga in casa” come nel nord est, ma si constata non senza amarezza l’inevitabile degrado delle professioni intellettuali nella misura in cui finiscono in mani femminili.
A quel convegno ero fra gli oratori e non potevo attaccarlo subito, ma nella discussione successiva ai nostri interventi, nessuna donna dalla platea sollevò obiezioni. E anche io – presa da scoramento – decisi di tacere. E me ne voglio per questo. Dovremmo reagire ogni volta, invece, anche quando ci sembra tutto troppo stupido perché ne valga la pena. Avrei dovuto dire a quel collega che la misoginia è una patologia pericolosa ma che impegnandosi si può guarire, avrei dovuto chiedergli quale contributo avesse offerto lui alla ricerca e avrei anche dovuto proporgli di vergognarsi per la sua ignoranza del lavoro scientifico e teorico delle donne nella nostra professione.
Non deve passare che le donne avvocato si occupano di diritto di famiglia, le donne medico di pediatria e ginecologia e le psicologhe di orientamento e sostegno e se invece fanno i chirurghi d’urgenza, le penaliste, le giuriste o se fanno teoria nella psicoanalisi non sono credibili e si fa finta di niente.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/10/25/misoginia-non-stiamo-zitte/1171281
LO PSICOLOGO: SELFIE SINTOMO DI NARCISISMO DILAGANTE, MALE ANCHE SOCIALE
di Redazione, adnkronos.com, 27 ottobre 2014
Il selfie, l’autoscatto reso facile da smartphone e tablet, è una tentazione a cui pochi sfuggono e che non sempre è innocua. E’ anche infatti un sintomo di narcisismo, ‘male’ psicologico dilagante, secondo gli esperti, che ha effetti negativi sulle relazioni personali ma è anche un problema sociale, perché “i comportamenti narcisistici degli adulti – avvertono gli specialisti – minano le relazioni fra le persone, danneggiando l’efficienza di aziende e istituzioni”.
“Lo schermo dello smartphone è la versione moderna del lago di Narciso, una superfice piatta, senza spessore, in cui ci si specchia. Con il selfie l’immagine viene rinviata su diversi canali e poi torna indietro: resta una continua ricerca della propria immagine”, spiega all’Adnkronos Salute Paolo Chiari, segretario scientifico del Centro milanese di psicanalisi, che al tema a dedicato un incontro a Milano, nei giorni scorsi, in occasione dei 100 anni dalla pubblicazione di ‘Introduzione al narcisismo’ di Freud. Il narcisismo, continua l’esperto, “è la ricerca di un sé grandioso che ha bisogno di essere visto e ammirato, ma che nasconde carenze”.
Il selfie, attraverso l’uso dell’immagine, aggiunge Chiari, “testimonia un esserci che non è realmente sentito: insomma una conferma di esistere che viene rimbalzata attraverso dei mezzi, apparentemente di ‘comunicazione’, ma che in realtà restano in superficie e non permettono di creare vere relazioni”. Si tratta di una condizione “molto adolescenziale, comprensibile in questa epoca della vita, in cui è necessario rompere con l’immagine di sé trasmessa dai genitori e in cui si cerca una nuova identità. Il problema è che oggi riguarda molto anche gli adulti. Siamo una società di adolescenti”. Con tutti i rischi e i problemi che ne derivano: “Ci sono disastri personali, legati, all’incapacità di costruire relazioni, e sociali perché al narcisista manca la capacità di cooperare, di stare e lavorare insieme. Ha bisogno solo di primeggiare”.
Chi è affetto da narcisismo – spiegano gli esperti del Centro milanese di psicanalisi – infligge la sofferenza agli altri (si approfitta del prossimo, non è capace di empatia e affettivamente ha una modalità ‘predatoria’) e a se stesso, perché è guidato da una valutazione di sé non realistica (si sente ‘speciale’, unico, eccezionale, sopra ogni norma), da ideali e ambizioni impossibili oppure da vergogna odio e invidia perché non riesce a raggiungere i livelli che ha immaginato.
All’origine delle sofferenze dei pazienti, seguendo la lezione di Freud e la metafora di Narciso, da un lato vi è la continua e cieca ricerca della perfezione, con un’attenzione maniacale della propria immagine sociale, che non lascia spazio per le relazioni stabili e la cura dell’altro. Dall’altro, indicano gli studi sul funzionamento dei gruppi – per esempio nei team di lavoro di aziende e istituzioni – c’è l’impossibilità di costruire relazioni collaborative e un’esasperata rincorsa alla posizione del vincente, che pregiudica sia la realizzazione professionale individuale che l’efficienza e la produttività del collettivo.
http://www.adnkronos.com/salute/medicina/2014/10/27/psicologo-selfie-sintomo-narcisismo-dilagante-male-anche-sociale_cXlOAXdhhmGgGQyJDOqNqM.html
PSICOANALISI IN ROSSO, UNA FICTION
di Pietro Barbetta, doppiozero.com, 28 ottobre 2014
Ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è puramentecasuale. Con questi due elegantiavverbi, si apriva la fiction. Dove ci si illudeva che l’immaginario superasse la realtà, fosse più crudo, duro, straordinario. Invece il reale supera ogni tipo d’immaginazione, mortifica la speranza. Quando Allen Ginsberg fu accusato da William Buckley di avere composto opere oscene, rispose che l’oscenità non sta nella letteratura, ma nel reale: la guerra per esempio, l’abuso, la violenza maschile.
Davanti a me c’è un libro, Psicoanalisi in rosso. L’autrice, Giorgia Walsh, è uno pseudonimo. Giorgia Walsh mette in forma letteraria le testimonianze di una donna abusata da uno psicoanalista. Racconta l’abuso terapeutico in una piccola città. Nella piccola città si pratica l’omertà, per pudore, convenienza, carriera, buoni sentimenti, ipocrisia, codardia; e si pratica il pettegolezzo per vanità, sadismo, narcisismo. Per condividere i buoni sentimenti, la mentalità. Nella grande città le molestie, le malversazioni, gli abusi sono ratificati, insabbiati: sistemi di prescrizione, condono, disattenzione, lungaggine.
Si racconta del dottor Sembiante. Abuso sessuale spacciato per interesse clinico, uno psicoanalista giudicato, condannato, poi protetto e salvato dalla società di appartenenza, la XYZ. Queste società, non a torto, sono state sovente accomunate a Chiese. La XYZ, di cui si scrive nel romanzo, prende atto degli abusi, ma, anziché espellere il perpetratore, gli permette di dare le dimissioni. Si racconta anche di un Ordine Professionale che archivia il caso. Una brutta storia italiana.
Non che non ci siano, nella storia delle società psicoanalitiche e psicoterapeutiche, di ogni ordine e grado, scandali e nefandezze. Membri che esprimono dissenso resi silenti per anni. L’elenco è lungo. Membri di questa o quella società attaccati, spesso espulsi per avere espresso disaccordo rispetto alle posizioni dominanti, o per avere introdotto nuove pratiche terapeutiche, o per avere aderito a posizioni politiche di imbarazzante dissenso in epoche oscure della storia. Per una di queste società, la prima, si trova un lungo saggio storico di Riccardo Steiner su The International Journal of Psychoanalysis, scritto nel 2011. Per il resto, invidie, gelosie, arrampicature sociali e, viceversa, persone ignorate, sistematicamente evitate, non invitate. Non conosco società di psicoterapia dove ciò non sia accaduto. I terapeuti, gli analisti, non sono una casta moralmente superiore; al contrario, chi sta ai vertici spesso fa trasparire il sospetto di essere amico di chi conta, molte di queste società esercitano il potere senza trasparenza.
Qui però – nel romanzo, perché bisogna sempre ricordare che si tratta di una fiction – la questione è più complicata, si tratta di un abuso sessuale, abuso durante la cura; non ci sono dubbi. Possibile che sia più facile espellere uno psicoanalista perché inventa nuove teorie e nuove pratiche cliniche – condivisibili o meno – che espellere uno che, magari, non ha nulla da dire, si accoda al mainstream, ma, sotto la protezione della sua ortodossia, commette abusi con le persone di cui dovrebbe prendersi cura? Almeno così si suppone. Uno psicoanalista, uno psicoterapeuta, non dovrebbe prendersi cura delle persone che incontra nel suo lavoro? No? Si tratta di un’eresia? Di una castroneria? Questo soggetto supposto sapere, ha il compito di perpetrare questa supposizione fino all’abuso? Oppure, al contrario, ha il compito di dissolvere questa supposizione durante la pratica clinica?
Subito scatta la ritorsione diagnostica. Non è l’abusatore; ovvero, sì, avrà commesso una bagatella, ma questa tizia che insiste è ossessiva, maniacale, persecutoria, istrionica. Solo chi ha visto Changeling e pensa che la donna impersonata da Angelina Jolie fosse davvero psicotica, oppure chi ha visto Magdalene e pensa che le suore irlandesi avessero ragione, può pensare, dopo avere lettoPsicoanalisi in rosso, che l’anonima donna abbia deformato la realtà: solo una mentalità omertosa, coperta di buoni sentimenti diagnostici, potrebbe ragionare così. Tuttavia, come noto, la mafia è un prodotto tipico italiano, come il risotto, come lo facciamo noi a nessuno riesce, e ci si adegua. Sopratutto nella grande città del Nord. Ecco, in due parole, la storia, che sembra proprio una storia vera. Assolutamente vera. Questo è straordinario! È straordinario che la fiction, una volta tanto, sia così straordinariamente Reale. Perché, come noto, si tratta di una fiction, una vera e propria fiction…
Non intendo rubare il pathos della lettura, dura, difficile, lapidaria, impietosa – qui la pietà davvero non è possibile. Invero qualche rivelazione preliminare va fatta: Giorgia Walsh scrive nel nome di un’anonima donna che le chiede di rivelare gli abusi subiti da uno psicoanalista, nel testo il dottor Sembiante, presso cui è stata inviata da uno psichiatra, il dottor Urìbil. In breve il Sembiante, anziché curare la paziente, la irretisce, la seduce e – che parole usare per farsi capire senza urtare la sensibilità del lettore? – la scopa.
La storia è orribile in un supposto dialetto di una supposta grande città del Nord: urìbil. Situazioni di questo tipo accadono. Chi svolge il lavoro clinico con onestà e coscienza ha avuto occasione di incontrare donne abusate da chi svolge questo lavoro senza tenerezza, senza coscienza, urlando, aggredendo. Il nostro, come ebbe modo di osservare Kohut, è un lavoro dove il narcisismo è letale e la formazione terapeutica dovrebbe insegnarcelo, cosa che, forse, non accade più. La questione, per un terapeuta, non è quanti anni è stato in analisi. Non è questione di quantità. La questione è, semmai, se durante le sue analisi ha capito i limiti del suo insano desiderio di guarigione, i limiti della sua professione, i limiti del suo operare. È molto più complicato. Si tratta di accorgersi quando la risonanza, il contro-transfert, il co-transfert (chiamatelo come volete e forse sarebbe ora di piantarla di fare i difficili con le definizioni, lo stile non è purificazione linguistica) va al di là del principio del piacere. Si tratta di imparare a fermarsi prima, oppure di cambiare mestiere; magari facendo altro si guadagna di più.
Manca qualcosa alla formazione degli psichiatri, degli psicologi, degli psicoterapeuti, degli psicoanalisti. Questo qualcosa è qualcosa che manca alla cultura contemporanea: il senso del limite, il senso della tenerezza, il senso del rispetto, la coniugazione tra i codici affettivi materni e il senso del rispetto paterno. Forse castrazione è una parola grossa, ma al dottor Sembiante si dovrebbe proprio castrare la possibilità di svolgere ancora la professione, in primo luogo per amore della psicoanalisi.
La cosa interessante di questa fiction – e ci tengo ancora una volta a segnalare che si tratta di una fiction – è che: né la società XYZ, né l’Ordine Professionale in carica, hanno avuto la volontà di agire. “Impedimenti dirimenti” diceva don Abbondio. Ecco, il romanzo di Giorgia Walsh è come I promessi sposi, solo un romanzo. I soprusi di Don Rodrigo non erano tipici dei signorotti durante la dominazione spagnola; no, era solo fiction.
Per vedere le illustrazioni collegate al pezzo, vai al link:
http://www.doppiozero.com/rubriche/336/202010/psicoanalisi-rosso-una-fiction
GURU MULTISUSO
“L’ora di lezione” di Massimo Recalcati, psicopedagogo alla moda “aperto alle aperture”
di Alfonso Berardinelli, Il Foglio, 29 ottobre 2014
Qualche mese fa mi era successo di vedere, nell’imperdibile trasmissione di Fabio Fazio, lo psicoanalista Massimo Recalcati, ora diventato una specie di pedagogo nazionale, un guru “a tutto campo”, nonché critico letterario sulle pagine di Repubblica. L’impressione che mi fece quella sera fu pessima. Parlava, con sguardo serio e fronte corrucciata, della necessità, per salvare la scuola, di trasformare ogni oggetto di conoscenza in “corpo erotico”. Pensai subito che i libri (molti, vedo) scritti da un tipo tale non li avrei mai aperti. Non immaginavo di aver avuto a che fare, così di sfuggita, con un intellettuale destinato al successo, di quelli su cui si buttano avidamente i grandi giornali e le grandi case editrici con la certezza di fare un buon affare.
In effetti con il suo libro “L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento” (Einaudi, 156 pagine, 14 euro) Recalcati ha conquistato la vetta dei libri più venduti. Se voglio capire in che società culturale vivo e se voglio assecondare per un momento il desiderio di “essere come tutti”, devo fare un piccolo sforzo. Mi unisco perciò alle migliaia di insegnanti italiani che se ne stanno lì a ruminare le pagine di quel libro. Penso a loro, che con volto serio e fronte corrucciata, staranno a leggere frasi come queste: “Se il nostro tempo è il tempo della dissoluzione della potenza della tradizione, se è il tempo dove il padre è evaporato, nessun insegnante può vivere di rendita”. O anche: “Lo stesso accade nelle famiglie dove l’autorità della parola del padre non si trasmette più come un dato di natura, ma deve essere ogni volta riconquistata dai piedi”. O ancora: “Un’ora di lezione non è robetta” oggi che “le famiglie appaiono come turaccioli sulle onde di una società che ha smarrito…” e via di seguito.
Per continuare:
http://95.110.252.214/VoloData/GetData/Default.ashx?param=ZG9jaGFzaD03NUFGMEM2RDU1MjUyODMwQUNCODJDNEFBQ0Q3QkI4RUE4NUY0QzNEQkU2QzYxMzE3MEQ0RDNGMjY3RjIwMEY2JnR5cGU9UERG
“DESTINAZIONE MINORI”, DOVE È PRATICATO IL DIRITTO ALL’ASCOLTO DEI RAGAZZI IN DIFFICOLTÀ. L’impegno di Destinazione minori un’associazione che a Roma è impegnata nella salvaguardia di ragazzi privati da fondamentali diritti. Uno staff di professionisti preparati al confronto con giovani fino ai 25 anni
di Marta Rizzo, repubblica.it, 30 ottobre 2014
Destinazione minori, a Roma, si occupa faticosamente ma fattivamente dei malesseri minorili, perché composta da medici, psicologi e professionisti del settore. In particolare, lavora su adozioni, affidamenti e tutela dei giovani che vivono traumi familiari come violenze, abusi o più semplicemente separazioni dei genitori. L’associazione ha un calendario organizzato di incontri per far crescere il proprio lavoro e per coinvolgere la società con campagne e discussioni de visu o tramite social network.
Per continuare:
http://www.repubblica.it/solidarieta/volontariato/2014/10/30/news/adozioni-99332462
CASTORIADIS, IL RIBELLE CHE ISPIRÒ I LIBERALI FRANCESI. Filosofo radicale, psicanalista, economista: una biografia in Francia rivaluta un pensatore influente e misconosciuto
di Massimiliano Panarari, lastampa.it, 31 ottobre 2014
Cornélius Castoriadis, chi era costui? A riscoprire una delle più interessanti (e misconosciute) figure di intellettuale del secondo Novecento (anche se lui per primo rigettava l’etichetta di intellò) ci pensa la sua prima biografia appena uscita in Francia. E anche il fatto che sia stato necessario attendere tanto tempo, persino nel Paese dove l’originale (e per certi tratti visionario) filosofo dell’«immaginario sociale» e del «fare pensante» ha vissuto e scritto, prima dell’uscita di un volume che ne ricostruisse integralmente esistenza e pensiero molto ci dice della sua «irregolarità».
A colmare tale lacuna, e a raccontare quanto, al di là delle apparenze, questo eccentrico pensatore di origini greche sia stato importante per la scena culturale transalpina, ci pensa nel suoCastoriadis. Une vie (La Découverte, pp. 532, euro 24) lo storico delle idee François Dosse.
Castoriadis (1922-1997) fu filosofo e psicanalista (disciplina che esercitò anche professionalmente), lavorò come economista al segretariato internazionale dell’Ocse ed ebbe (alla fine) riconoscimenti accademici rilevanti (negli anni Ottanta divenne directeur d’études all’École des Hautes Études di Parigi), ricevendo gli apprezzamenti di protagonisti importanti del mondo scena culturale come Edgar Morin (che lo definiva un «titano dello spirito») e Pierre Vidal-Naquet (che lo considerava un «genio»).
Ma rimase sempre marginale perché troppo «fuori dalle righe»: quindi una sorta di eminenza grigia (o, meglio, rossissima) della sinistra eterodossa, la cui influenza fu sotterranea e carsica, e assai meno evidente di quella dei filosofi-star della French Theory (da Foucault a Derrida, passando per Lacan). E che, però, si rivelò durevole e, soprattutto, trasversale, arrivando a toccare intellettuali politicamente molto distanti dalla matrice delle sue concezioni. Che era quella del socialismo di sinistra novecentesco e del filone dell’autogestione e delle repubbliche dei consigli, ovvero quel peculiare intreccio di marxismo libertario e anarchismo che aveva messo al centro della propria teoria e (difficoltosissima) prassi una certa nozione di autonomia, nella quale il pensiero di Castoriadis troverà il proprio fulcro.
Ed era precisamente quella che gli attirò appunto l’interesse, a partire dagli anni Ottanta, della pattuglia di intellettuali liberali (e social-liberali) che avrebbero riorientato la battaglia delle idee in Francia, da François Furet a Pierre Nora, da Bernard Manin a Marcel Gauchet, da Jacques Julliard a Luc Ferry e Alain Renaut. E, in primis, del filosofo politico Claude Lefort che ebbe nel corso degli anni una «conversione» liberaleggiante e con cui Castoriadis aveva condiviso una giovanile militanza trotzkista e fondato, nel 1947, la rivista Socialisme ou barbarie, alla quale questo libro attribuisce una rilevanza addirittura superiore, nella preparazione del clima intellettuale del Sessantotto, a quella del situazionismo.
Il testo di Dosse si incarica innanzitutto di ricostruire le ragioni di questo mancato riconoscimento pubblico in seno a una nazione che ai suoi intellettuali «impegnati» ha sempre eretto monumenti (trasformandoli pure in merce di esportazione). E di svelare il «mistero» di un pensatore che, pur essendosi collocato su prospettive politiche assai lontane, entrò tuttavia in sintonia profonda e venne riconosciuto come riferimento a cui guardare proprio dagli artefici della revanche del liberalismo.
La ragione – secondo lo studioso – consiste nella ricollocazione al centro del dibattito (e delle discipline) di quella filosofia politica (seppur, in qualche modo, rivisitata e contaminata) che il «Sessantotto pensiero» e il post-strutturalismo avevano emarginato. Nonché, la critica serrata e intransigente (da sinistra) di Castoriadis al socialismo reale e al totalitarismo comunista, che si affiancò a quella dei nouveaux philosophes e della deuxième gauche e circolò moltissimo tra gli esponenti della rinnovata cultura politica liberale, cementando, a suo modo, una «comunità di pensiero».
D’altronde, la stessa idea di rivoluzione, così centrale nelle sue teorizzazioni, nulla ha a che fare con la violenza politica, ma costituisce l’accelerazione di quel progetto di «auto-trasformazione esplicita» delle istituzioni da parte della società (e, dunque, in nome dell’autonomia) che, a ben guardare e mutatis mutandis, non poteva dispiacere al gruppo di intellettuali che avrebbe contribuito all’affermazione del neoliberalismo in Francia.
Sliding doors, per così dire. Ben differenti da quelle, molto solide e tanto tipiche di un certo gusto architettonico, dell’appartamento di Castoriadis a rue de l’Alboni, nel XVI arrondissement della capitale, che, a inizio anni Settanta, Bernardo Bertolucci trasformò in set ambientandovi il suo celeberrimo Ultimo tango a Parigi.
http://www.lastampa.it/2014/10/31/cultura/castoriadis-il-ribelle-che-ispir-i-liberali-francesi-gvp1fvRwmgh19i5xYOVhLK/pagina.html
ŽIŽEK IN PANTOFOLE TRA MARX E IL PORNO. Il filosofo di Lubiana ha completato una rilettura lacaniana di Hegel Non guadagna quanto Negri, fa vacanze a Dubai e parla un italiano «triviale»
di Luca Mastrantonio, Il Corriere della Sera – La Lettura, 26 ottobre 2014
Quando Slavoj Žižek ci accoglie davanti casa sua, tra la stazione e la clinica universitaria di Lubiana, ride già sotto i baffi. Sciorina notizie precise sul nostro albergo, giocando al poliziotto informato sui fatti: «Dormito bene? Lì ci lavora Luka, parente della mia prima ex moglie. Lui ha chiamato lei e lei ha chiamato me. Ho ancora un ottimo rapporto». Con i genitori, invece, non doveva essere dei migliori. Non si è occupato del loro funerale, non li va a trovare al cimitero. È legatissimo ai figli, due, frutto di quattro matrimoni: «Io scrivo qui», indica una poltrona in un angolo della sala, spalle al balcone, «mentre lei guarda la tv». Sugli scaffali mostra un paio di stivali di pelle: «Lei è un po’ feticista», sorride, «e anch’io», aggiunge prendendo in mano i mini-busti di Marx e Lenin. Gira in ciabatte e pantaloncini, con una maglietta che gli dà l’aria da ragazzo di 65 anni. È di Melville press, nera: «Dicono che è da fascista! Io rispondo con un motto di Mussolini, “Cari amici soldati, i tempi della pace sono passati”».
Mentre sistema tende e lampade per le luci dell’intervista video, sembra chiaro che il ritorno da Marx a Hegel, attraverso la psicoanalisi di Lacan, suggerito da Žižek nel secondo volume di Meno di niente (Ponte alle Grazie) è materialismo dialettico in versione Cabaret Voltaire. A fine intervista, dopo aver scattato il suo primo selfie — controvoglia, perché «odio me stesso e le foto, rubano l’anima» — e sfoggiato barzellette italiane apprese da Giorgio Agamben sul rapporto tra colori del vino e caratteristiche falliche (rosso/grosso, bianco/stanco), ci esorta a manipolare le sue risposte: «I giornalisti bravi», spiega, «ti fanno dire, con parole tue, quello che non pensi». Ma il problema sono le domande: rispetto alle sue risposte fluviali, suonano fuori tema. Perché non sembri un dialogo tra sordi, vanno ricalibrate. Lo scampanare invadente della chiesa vicina («pazzesco!», impreca) dà l’assoluzione.
Cosa significa dirsi marxisti oggi?
«Io sono uno di sinistra e bla bla bla… ma qui ho avuto problemi con i sindacati. Sono nelle mani di lavoratori, come quelli statali, che difendono i propri privilegi, e non i diritti dei poveri: precari, giovani, disoccupati. E se li tocchi dicono che sei un neoliberale, ma chiedere che il sistema sia più equo non è un’idea di destra. È triste: oggi è un privilegio essere uno sfruttato con un impiego permanente».
Sono classi sociali senza coscienza?
«Ecco perché tornare a Hegel, senza la teleologia proletaria di Marx. Per lui, fallita la rivoluzione francese, non bisognava perderne gli ideali. La situazione è simile: oggi, falliti comunismo e socialdemocrazia, con il capitalismo in crisi permanente, dobbiamo trovare una strada».
Come? Qual è il suo Stato ideale?
«Sogno un super-Stato contro le derive di finanza e biogenetica…».
Hegel vide in Napoleone lo spirito dei tempi. Chi lo incarna oggi?
«Lee Kuan Yew, padre di Singapore, lì il capitalismo è efficiente. Per Deng Xiaoping era il modello per la Cina. È il futuro».
Lei riscrive l’idealismo di Hegel con Lacan. “Meno di niente” è un libro di «self help» psicoanalitico?
«Sì. Ma per capire meglio il mondo, non per vivere meglio. La mia filosofia è scary, spiazzante, distrugge le illusioni. Non credo alla conoscenza di se stessi: la psicoanalisi mi ha salvato la vita, quando dopo una delusione amorosa volevo uccidermi, perché mi ha aiutato a dilatare il desiderio di autodistruzione attraverso il rapporto burocratico con l’analista».
Lei è un’icona antiliberista globale. Avesse vinto l’Urss, chi sarebbe oggi ?
«L’Urss non poteva vincere, non sarebbe riuscita a integrare la rivoluzione digitale. Comunque, e dico una cosa orribile, al liceo scelsi, oltre all’inglese, non il tedesco o il francese, ma il russo: per parlare la lingua dei vincitori. Da dissidente e poi candidato nel 1990 ho combattuto il comunismo, ma gli devo molto: se negli anni Settanta non mi avessero assunto all’Istituto di Sociologia dell’Università di ricerche di Lubiana, che mi permette tuttora di fare quello che voglio, sarei diventato uno stupido locale professore di filosofia».
Quanto guadagna?
«Non lo dico, in genere, per questioni fiscali. Però il netto è 2 mila euro mensili qui all’Istituto, poi altrettanti a Londra, e 10-15 mila euro annui negli Usa, per i talk . Dai libri arriva poco, si diventa ricchi con 100 mila copie: Toni Negri con Impero mi ha detto che ci è riuscito. Io no, e controllo i miei libri in classifica su Amazon».
Lei si riconosce come brand filosofico, icona antiliberista di successo?
«Io icona? Comunque ambigua. Mi odiano, mi danno del fascista di sinistra, dello stalinista, mi accusano di plagi. Accetto però il rischio di venire frainteso con le mie dichiarazioni problematiche».
Per esempio?
«Quando ho scritto, nel libro Violenza, che Hitler non fu abbastanza violento nei cambiamenti sociali. E sa dove mi hanno capito? In Israele. Quello sì che è un Paese aperto al dissenso. Io infatti sono per il boicottaggio dei prodotti commerciali, ma contesto anche gli amici che dicono che non bisogna andare in Israele. Sbagliato. Soprattutto in Europa, poi ti trovi alle manifestazioni antisemite coi nazisti».
Quali sono i progetti per il futuro?
«Mi piacerebbe fare un libro su personaggi da rivalutare, come Cesare Borgia o Galeazzo Ciano: l’Albania fascista con lui visse un’età d’oro. Ma devo fare lavori seri, come Trouble in Paradise , che racconta la crisi con il film di Lubitsch; ogni libro può essere l’ultimo, sono malato di cuore, per il diabete, e perché sono un workaholic ».
Ha uno stile di vita vizioso?
«Gli psichiatri che vedono il tic di toccarmi il naso pensano al crack, ma è nervosismo! Sono l’unico della mia generazione a non essersi drogato. Non fumo né bevo, per non farmi sorprendere dal nemico: sono uno stalinista! Controllo l’alimentazione, dormo 9 ore… sa qual è il mio lusso?».
No.
«Una volta all’anno vado col mio figlio adolescente, o mia moglie, ma separatamente, a Dubai, nell’hotel… curvo (al Burj al-Arab, ndr ). Trovo offerte speciali, da mille dollari a notte. E lì, non faccio nulla: vado al cinema, faccio shopping, scrivo mentre mio figlio gioca al computer. Pura decadenza. E sa cos’è per me la felicità?».
No.
«A 18 anni una volta mi chiama una voce che aveva sbagliato numero: chiede di Maria, e da me non c’era nessuna Maria. Ho sentito la tentazione di dire no, mi spiace, Maria ha avuto un attacco di cuore. Certo. Non l’ho fatto; ma l’idea di causare una catastrofe da una posizione totalmente invisibile, be’ questa è libertà… E poi mi piacerebbe vivere in Islanda, è quasi come essere l’ultimo uomo sulla terra».
Che rapporto ha con le donne?
«Sono eticamente rigido in amore. Sto con una donna solo se siamo liberi entrambi. A Lubiana è facile sapere con chi sono stato: in genere poi la sposo; quattro volte su dieci è successo. Mi piacciono le cattive ragazze, su di loro puoi fare affidamento nei momenti difficili. Quelle buone vanno solo in Paradiso, quelle cattive dappertutto, come dice il proverbio tedesco».
Cosa pensa del porno?
«Non credo sia una rivoluzione, un progresso, ma nemmeno una semplice mercificazione della donna; in genere è lei a rompere una delle basiche convenzioni del cinema: guarda in camera, è presente, non è solo oggetto, ma soggetto attivo».
Cosa ne pensa del fenomeno virale delle mamme sexy, le Milf?
«Un regalo inconsapevole del femminismo. Prima la donna poteva essere solo madre o prostituta. La mia preferita è Stefania Sandrelli, ma forse la prima donna materna sexy è Isabella Rossellini in Blue Velvet di David Lynch».
Cosa le piace del cinema italiano?
«Peplum, spaghetti western e commedie sexy. La mia preferita è Conviene far bene l’amore di Campanile (1975). In un futuro prossimo, alla crisi dei carburanti si risponde con una specie di teoria di Wilhelm Reich: non disperdere l’energia prodotta dai rapporti sessuali. Ma la condizione è che non ci siano sentimenti, e la Chiesa cattolica si adegua: condanna l’amore come peccato. Lo Stato attraverso i lavoratori controlla la produzione di energia umana, come in uno Stato socialista».
Ma è un sogno o un incubo?
«Entrambi. Oggi il sesso è un dovere. Un osceno dovere del nostro superego».
*Segnalato da fondfranceschi.it
http://www.fondfranceschi.it/cogito-ergo-sum/zizek-in-pantofole-tra-marx-e-il-porno-1
VIDEO
Slavoj Žižek, un marxista contro i sindacati Intervista a Žižek di Luca Mastrantonio, video.corriere.it, 25 ottobre 2014
Bisio psicanalista in crisi nel suo ultimo film: «Mai stato in analisi in vita mia».
Il comico intervistato, con Caterina Guzzanti, a margine della presentazione di «Confusi e felici» a Roma
di Redazione, agr – video.corriere.it, 27 ottobre 2014
http://video.corriere.it/bisio-psicanalista-crisi-suo-ultimo-film-mai-stato-analisi-vita-mia/fd87c610-5df6-11e4-8541-750bc6d4f0d9
Claudio Bisio psicanalista disperato in “Confusi e felici”
di Emiliana Costa, leggo.it, 28 ottobre 2014
http://m.leggo.it/video/claudio_bisio_psicanalista_disperato_in_confusi_e_felici_il_nuovo_film_di_massimiliano_bruno_45210.shtml
(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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