Questa non è una recensione. E' solo una riflessione a briglia sciolta, che prende lo spunto da quello che definirei UN LIBRO-MONDO: il grande libro di VINCENZO TRIONE, Effetto città (Bompiani 2014, pagg. 829), scritto coniugando erudizione e passione, scelta di gusto e sfida concettuale, torsione barocca e invenzione rizomatica. L'incipit mette in scena quella che definirei, con Kant e con Deleuze, una sintesi disgiuntiva: quella che Foucault, in uno dei suoi Corsi, definiva connessione degli eterogenei. Connessione, co-appartenenza, di due polarità distinte, se non contrapposte, ma comunque intrecciate: da un lato l'esplosione della metropoli, dell' "informe urbano contemporaneo" (p.19), dall'altro lato un'opposizione a tutto questo, rappresentata da Pier Paolo Pasolini, un testimone "audacemente antimoderno, che dice di sè (in Poesia in forma di prosa, 1964): "Io sono una forza del Passato. / Solo nella tradizione è il mio amore". Un testimone, un pensatore civile, antiprogressista e antilluminista, come sottolinea Trione, intimamente animato da un "timido e sgraziato furore reazionario" (Pasolini recensisce Pasolini, 1971), che lo porta a denunciare, con fremente indignazione, la rottura della relazione armonica tra forma della città e natura circostante. Nel docufilm LA FORMA DELLA CITTA' (andato in onda, per 15 minuti, il 7 febbraio 1974 sul secondo canale della RAI), Pasolini mette in scena, con rara potenza iconica, questa rottura. "Vorrei precisare – scrive – che la forma della città si manifesta, […] si svela, se confrontata con un fondale naturale. Per esempio, la forma della città di ORTE appare in quanto tale perchè è sulla cima di questo colle bruno, divorato dall'autunno, con questa bruma azzurra davanti, e contro il cielo grigio. […] Si pone il problema di rispettare il confine naturale tra la forma della città e la natura circostante". Un rispetto violato da una speculazione edilizia selvaggia che ha deturpato ed offeso la forma urbis originaria. Nel momento stesso in cui valorizza l'elevatezza poetica della denuncia pasoliniana, Vincenzo Trione cerca di mettere a fuoco movenze dell'arte e del pensiero capaci di restituirci la rottura tragica prodotta dall'esplosione metropolitana: "Un crocevia da cui partono simultaneamente tante strade in ogni direzione. Un campo segnato dalla circolazione e dalla moltiplicazione di presenze, che trasmette entusiamo e ansia, fascino e spavento. E costringe a un'erranza mai conclusa" (p. 21). Nel suo dilatarsi incontrollato e imprevedibile, la metropoli si rivela come spazio smontabile, reversibile e rovesciabile, "che si sottrae a ogni tipo di gerarchia" (p. 20), poichè, come afferma Umberto Eco, "non vi sono posizioni certe , ma solo linee di connessione. La città di oggi è una città-lista, una città-eccetera", scandita da una sconvolgente perdita del centro, già evidenziata, a proposito di Berlino, da Walter Benjamin. La metropoli, in quanto labirinto illimitato e proliferante, può essere studiata e compresa, suggerisce l'autore, entro l'orizzonte dei visual studies: "un campo disciplinare eclettico, frequentato da studiosi provenienti da saperi differenti". E aggiunge: il loro principale intento consiste nel considerare tutte le immagini e tutte le forme di esperienza visiva come parti integranti del tessuto della cultura e della società" (p. 24). Il metodo, l'approccio di questo grande libro poliedrico, che sembra quasi mimare la forma poliedrica e labirintica dell'esplosione metropolitana, viene presentato e sintetizzato da questo passaggio (p.25), che vale la pena leggere con attenzione:
— E' nato, così, un percorso pluricentrico, che prova a simulare la moltiplicazione dei punti di vista propria delle metropoli contemporanee. Una topologia della modernità segnata da contrade luminose e da corrispondenze segrete. Una cartografia nella quale sono state accostate grammatiche diverse […]. L'obiettivo: […] salvaguardare la specificità delle varie discipline e, insieme, "metterle in moto"; condurle al di là dei loro recinti protettivi; renderle "mutanti"; rifigurarle, ricollocarle; aprirle a dialogo con altre discipline; spingerle verso territori ancora inesplorati. —
Questa l'ispirazione metodologica del libro di Trione. Questa, al tempo stesso, la prospettiva epistemologica del nostro lavoro.
Gli ambienti sono saturi di
Gli ambienti sono saturi di pensiero o (come dice Sartori) ormai di post-pensiero? Il sistema di tabù insegnatoci dalla famiglia (tangenziale risposta alle domande di Maddalena) e replicato in ogni istituzione/organizzazione va molto più in là degli ovvi tabù dell’incesto. C’è una restrizione delle modalità sensorie di comunicazione tra gli individui limitata all’audio-visuale (l’Homo videns di Sartori appunto o i frenetici informatissimi idioti di Ferrarotti), e poi ci sono dei tabù molto pronunciati contro componenti di una famiglia che si toccano, si odorano e si gustano l’un l’altro. I bambini possono giocare in modo vivace con i loro genitori, ma vengono tracciati dei confini di demarcazione ben precisi intorno alle zone erogene di entrambe le parti. Nella mente dei componenti di una famiglia le manifestazioni di affetto fra i rappresentanti dei due sessi vengono relegate rapidamente in una zona di “pericolosa” sessualità. Sopra ogni altro c’è il tabù della tenerezza (che impedisce in ultima analisi una reale intimità). In una famiglia è senz’altro possibile trovare della tenerezza, ma questa non può venire espressa a meno che non sia formalizzata sino al punto da non esistere quasi più. Forse, se ci potessimo rendere conto di come la gente sia morta “da viva”, potremmo essere disposti, spinti dalla presa di coscienza della DISPERANZA dilagante (come la definisce Mario Guaraní Galzigna), a rischiare di più. Altrimenti a mio umile avviso lo stato ecnoide del cittadino obbediente e ben educato (se la città di oggi è una città-lista il cittadino è forse anche meno di una persona-lista e come dice Marcolino Di Palma senza spazio – interiore che produce e proietta sovente le fattezze di quello esteriore -non c’è spazio per creatività, spontaneità, autenticità e unicità) non è tanto differente da quello paranoide (estremo opposto di un continuum che passa alla noia attraverso varie metanoie). In entrambi (e non solo) si è così estraniati da se stessi che mi chiedo: c’è un “io” che possa concepire un “noi” o vedere veramente “l’altro”? Ho il sospetto che il passaggio dalla alienazione alla EGOITÀ è quindi alla NOITÀ sia sì un salto di scala, un salto quantico, che per definizione presuppone tra l’altro che siano disponibili livelli di energia e consapevolezza (mi si consentano questi termini) non sempre disponibili all’individuo, quando scarico di fotoni e di pensiero.
Propongo qui una
Propongo qui una nota-commento pubblicata di recente su L’ORDINE DEL DISCORSO (Facebook) da GLORIA MASSUCCI, che prende lo spunto dal libro di Trione: — E che dire delle città che con i loro labirinti, con il gomitoli delle loro strade, con la curvatura che danno all’orizzonte, disegnano i meandri e gli anfratti delle nostre anime? Quella forma urbis, quella organizzazione degli spazi ora strutturati, ora dispersi in una misera serialità non sono forse il disegno e la mappatura delle nostre insicurezze o delle nostre certezze? Venne il tempo in cui i nostri antenati abbandonarono la natura naturans e si fecero costruttori di città: costruirono case, delimitarono percorsi, eressero mura, elevarono torri..stabilirono gerarchie degli spazi, impressero nei quartieri e nelle case l’immagine dell’ordine sociale, la rappresentazione fisica e tangibile del potere, di chi lo esercitava e di chi lo subiva. La cinta di mura esterne delimitava i confini tra la paura e la sicurezza, persino sulle porte delle città potremmo dire tanto. C’erano poi i muri interni alla città, gli steccati che rappresentavano invece le barriere e i pregiudizi, le cicatrici e i fossati scavati negli animi. L’ordine quindi contro il caos, la sfera umana civile, ordinata, rassicurante, contro il disordine delle forze oscure della natura ( o dell’inconscio collettivo?). Il processo di soggettivazione passava anche attraverso il porsi di un ‘io’ contro un ‘voi’, o di un ‘noi’ contro un ‘loro’. La rivoluzione industriale fece esplodere le contraddizioni di un ordine che non reggeva più alla prova dei tempi: la produzione di beni si spostò dalle strade antiche e dalle botteghe artigiane verso i non luoghi delle periferie operaie, dove lo sfruttamento e la brutalità dei rapporti di produzione celebravano lo smarrimento e la perdita di identità. L’espandersi orizzontale e seriale della megalopoli moderna frantuma ulteriormente e moltiplica la nostra percezione dello spazio e del tempo, rimescola continuamente le carte in gioco, mette a dura prova la nostra egoità all’interno di una noità destituita di fondamento. Dice bene Maddalena Mapelli: ‘perchè abbiamo paura di perdere il centro? E perché,sempre, tendiamo a ricreare, nel disordine, l’ordine?’ Pensare ad altre città possibili, vivere con un pensiero antagonista può allargare i confini del nostro mondo. Cito a questo proposito Calvino che ne ‘Le città invisibili’ immagina che Marco Polo, viaggiatore visionario, descriva città impossibili a Kublai Kan, imperatore melanconico che teme di perdere il suo sterminato potere sul mondo. Nella bella postfazione al libro, Pasolini nota che a forza di narrare ciò che nessun uomo ha mai potuto vedere o immaginare, Calvino è diventato come un giovane vecchio che, seduto su un muretto, ha visto passare davanti a sé tutta la vita possibile, la vita del cosmo e in questo modo non vede più il futuro solo come il futuro della sua vita, perché davanti ai suoi occhi il tempo si è allargato immensamente e sono saltate tutte le proporzioni del reale, della razionalità e della morale.—