Lezione, lettura, leggere: provengono dalla radice indoeuropea “leg” che ci riporta alle parole: “raccolto”, “raccogliere”. Poche volte come in questo caso l’etimo ci aiuta a comprendere (direi, anzi: a raccogliere) l’essenza del processo cui queste parole alludono.
Un processo interno da parte del docente che implica un movimento d’immersione dentro di sé – e più propriamente all’interno di tutto il proprio sapere accumulato lungo il tragitto della propria vita professionale ed umana – alla ricerca di materiale adatto ad illustrare l’argomento che ‘oggi’ è all’ordine del giorno della propria classe. Materiale che poi attraverso artifici didattici – anch’essi accumulati e fatti propri in base all’esperienza – emergerà e sarà messo in parola secondo modalità espressive adatte ad avvincere la propria ‘udienza attuale’, cioè la classe ch’egli ha ora di fronte a sé. E in un secondo tempo condurrà ciascuno dei discenti a operare, di rimbalzo, un identico processo d’immersione e di elaborazione personale.
Un processo interno quindi che apre la strada ad un processo interpersonale e dialogico; ad una specie di ping pong in cui al raccolto del docente seguirà di rimbalzo quello di ciascuno dei discenti. I quali, per proporre al docente la propria personale lettura del materiale da lui proposto loro in precedenza, devono compiere lo stesso movimento interiore: immergersi dentro di sé, trovare i propri argomenti, coniugarli con quelli proposti dal docente, e porgere al docente la propria personale elaborazione così come si conviene. Cioè attraverso le modalità espressive tipiche della scuola, e apprese in precedenza.
Certo il materiale immagazzinato da un soggetto in età evolutiva è meno ampio di quello del docente. E tanto più povero, quanto più piccolo ed inesperto è il discente. E’ su questa asimmetria di saperi che si basa in ultima istanza l’asimmetria di poteri presente in classe, con tutti gli equivoci e le storture che su questo secondo aspetto dell’asimmetria poi possono innestarsi nei docenti. Resta però la natura dialogica e circolare del processo il cui trait d’union è l’ascolto: prima quello dei discenti nei confronti della parola del docente; poi quello di quest’ultimo di fronte alla restituzione che questi ultimi contestualmente fanno a partire da una elaborazione di ciò che hanno in precedenza da lui ascoltato. E qui veniamo alla seconda importantissima componente che è alla base della lezione: l’ascolto.
Ascolto, da aus\còlere: che significa sentire, ma anche coltivare con l’orecchio[1]. Quindi un sentire attento; capace di congiungere e, direi, di fissare ciò che viene da fuori con quello che c’è già dentro. Un sentire sorretto dalla motivazione dei discenti, ma anche – e su questo raramente si fa caso – da quella del docente che, se demotivato, al massimo passerà freddamente una specie di minestra precotta: solitamente quella proposta dai libri di testo. Una minestra poi spesso ritenuta e fatta propria dai discenti solo per disciplina, e perciò più adatta a conformarli che a formarli.
Laddove il dato della conformazione non è un male in assoluto. Infatti in una società statica la conformazione della generazione che emerge rispetto a quella che declina è alla base del rapporto intergenerazionale: basta pensare al rapporto fra il vecchio maestro e i suoi allievi nella bottega artigiana per rendersene conto.
La nostra però è una società dinamica, in cui il rapporto mai perfettamente sovrapponibile fra le generazioni è il sale del cambiamento[2]. Ed in questo caso, affinché le esigenze di stabilizzazione del mondo delle vecchie generazioni non siano in totale discrasia con quelle dei giovani, occorre che la formazione abbia come fondamento la trasformazione, più che la conformazione.
Questa è la sfida di fronte alla quale in una società dinamica si trovano tutti i formatori, ed in special modo i genitori ed i docenti cioè coloro a cui viene demandato il compito di presiedere ai riti di passaggio odierni.
Statica o dinamica che sia però in ogni società tende a definire i propri luoghi della formazione come palestre (ginnasi!) in cui sia i docenti che i discenti si dispongano gli uni verso gli altri in una posizione che – come traspare dall’etimo delle due parole ‘docente’ e ‘discente’, che è lo stesso! viene dal lemma indoeuropeo “dek”, e significa “ricevere mentalmente”- ci riporta alla reciprocità di uno scambio, in cui il momento della ricezione del materiale che proviene dall’altro polo della formazione implica sempre un sentire attivo e capace di rielaborazione personale ottenuto – come dicevamo prima – in base alla coniugazione di ciò che viene da fuori con ciò che è già dentro.
Un processo interno da parte del docente che implica un movimento d’immersione dentro di sé – e più propriamente all’interno di tutto il proprio sapere accumulato lungo il tragitto della propria vita professionale ed umana – alla ricerca di materiale adatto ad illustrare l’argomento che ‘oggi’ è all’ordine del giorno della propria classe. Materiale che poi attraverso artifici didattici – anch’essi accumulati e fatti propri in base all’esperienza – emergerà e sarà messo in parola secondo modalità espressive adatte ad avvincere la propria ‘udienza attuale’, cioè la classe ch’egli ha ora di fronte a sé. E in un secondo tempo condurrà ciascuno dei discenti a operare, di rimbalzo, un identico processo d’immersione e di elaborazione personale.
Un processo interno quindi che apre la strada ad un processo interpersonale e dialogico; ad una specie di ping pong in cui al raccolto del docente seguirà di rimbalzo quello di ciascuno dei discenti. I quali, per proporre al docente la propria personale lettura del materiale da lui proposto loro in precedenza, devono compiere lo stesso movimento interiore: immergersi dentro di sé, trovare i propri argomenti, coniugarli con quelli proposti dal docente, e porgere al docente la propria personale elaborazione così come si conviene. Cioè attraverso le modalità espressive tipiche della scuola, e apprese in precedenza.
Certo il materiale immagazzinato da un soggetto in età evolutiva è meno ampio di quello del docente. E tanto più povero, quanto più piccolo ed inesperto è il discente. E’ su questa asimmetria di saperi che si basa in ultima istanza l’asimmetria di poteri presente in classe, con tutti gli equivoci e le storture che su questo secondo aspetto dell’asimmetria poi possono innestarsi nei docenti. Resta però la natura dialogica e circolare del processo il cui trait d’union è l’ascolto: prima quello dei discenti nei confronti della parola del docente; poi quello di quest’ultimo di fronte alla restituzione che questi ultimi contestualmente fanno a partire da una elaborazione di ciò che hanno in precedenza da lui ascoltato. E qui veniamo alla seconda importantissima componente che è alla base della lezione: l’ascolto.
Ascolto, da aus\còlere: che significa sentire, ma anche coltivare con l’orecchio[1]. Quindi un sentire attento; capace di congiungere e, direi, di fissare ciò che viene da fuori con quello che c’è già dentro. Un sentire sorretto dalla motivazione dei discenti, ma anche – e su questo raramente si fa caso – da quella del docente che, se demotivato, al massimo passerà freddamente una specie di minestra precotta: solitamente quella proposta dai libri di testo. Una minestra poi spesso ritenuta e fatta propria dai discenti solo per disciplina, e perciò più adatta a conformarli che a formarli.
Laddove il dato della conformazione non è un male in assoluto. Infatti in una società statica la conformazione della generazione che emerge rispetto a quella che declina è alla base del rapporto intergenerazionale: basta pensare al rapporto fra il vecchio maestro e i suoi allievi nella bottega artigiana per rendersene conto.
La nostra però è una società dinamica, in cui il rapporto mai perfettamente sovrapponibile fra le generazioni è il sale del cambiamento[2]. Ed in questo caso, affinché le esigenze di stabilizzazione del mondo delle vecchie generazioni non siano in totale discrasia con quelle dei giovani, occorre che la formazione abbia come fondamento la trasformazione, più che la conformazione.
Questa è la sfida di fronte alla quale in una società dinamica si trovano tutti i formatori, ed in special modo i genitori ed i docenti cioè coloro a cui viene demandato il compito di presiedere ai riti di passaggio odierni.
Statica o dinamica che sia però in ogni società tende a definire i propri luoghi della formazione come palestre (ginnasi!) in cui sia i docenti che i discenti si dispongano gli uni verso gli altri in una posizione che – come traspare dall’etimo delle due parole ‘docente’ e ‘discente’, che è lo stesso! viene dal lemma indoeuropeo “dek”, e significa “ricevere mentalmente”- ci riporta alla reciprocità di uno scambio, in cui il momento della ricezione del materiale che proviene dall’altro polo della formazione implica sempre un sentire attivo e capace di rielaborazione personale ottenuto – come dicevamo prima – in base alla coniugazione di ciò che viene da fuori con ciò che è già dentro.
Vedremo in uno dei prossimi post a quali trasformazioni va incontro la lezione nel passaggio dalla scuola di Edipo a quella di Narciso.
[1] Fra l’altro “còlere” è alla radice anche della parola “cultura”: e non v’è chi non veda il nesso che in ogni società contemporanea c’è fra scuola e cultura, come aspetto rilevante del più ampio rapporto che c’è fra processo formativo e appartenenza culturale.
[2] in cui trans\ire è sempre un po’ tradire, ci diceva Diego Napolitani.
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