Percorso: Home 9 Rubriche 9 GALASSIA FREUD 9 Gennaio 2015 II – Paura, illusione, speranza

Gennaio 2015 II – Paura, illusione, speranza

19 Gen 15

A cura di Luca Ribolini

VIOLENZA E FOLLIA: PREVENIRE SI PUÒ 
di Silvia Vegetti Finzi, corriere.it, 8 gennaio 2014

Raramente, forse mai, si è assistito, come in quello che viene chiamato «l’agguato con l’acido», a un simile intreccio di criminalità e di follia. Sembra che i familiari coinvolti nel dramma, stando alle loro dichiarazioni, siano stati colti all’improvviso da una rivelazione che nulla lasciava presagire. Per i genitori di Martina Levato, studentessa alla Bocconi, la figlia era avviata a un brillante futuro professionale. Eppure il suo tentativo di suicidio, nei mesi scorsi, denunciava un profondo malessere, una pulsione di morte rivolta verso se stessa ma disponibile, come è accaduto, ad essere proiettata sugli altri. La vittima designata è stato un amico, un ex, colpevole di averla posta di fronte all’intreccio inestricabile di una relazione perversa.
 
Per continuare:
http://archiviostorico.corriere.it/2015/gennaio/08/violenza_follia_prevenire_puo_co_0_20150108_7221abb6-9700-11e4-b5fb-ab1df7571544.shtml

IL PENSIERO LUNGO DI IDA DOMINIJANNI 
di Filippo Veltri, lametino.it, 9 gennaio 2015

A lungo restia all’idea di dare al suo pensiero la forma di un libro, la calabrese Ida Dominijanni ha scelto finalmente di farlo sfidando deliberatamente il contro-tempo e scrivendo perciò un testo felicemente e orgogliosamente inattuale senza perciò essere intempestivo. Il libro di Ida Dominijanni, Il trucco. Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi (Ediesse, 2014), presentato in Calabria alcuni giorni fa, parla tanto di ciò che ci capita oggi almeno quanto di ciò che vuol dire parlarne. E parlare di noi – e cioè di politica; e cioè di corpi e parole – vuol dire (anche) parlare di Silvio Berlusconi. Autobiografia della nazione e delle peripezie del potere e del godimento, emblema del “sesso-valuta” e monogramma del post-patriarcato, il berlusconismo è l’indice di un terremoto simbolico che non smette di agitare la scena della politica e del desiderio.
 
Per continuare:
http://www.lametino.it/Filippo-Veltri/Il-pensiero-lungo-di-Ida-Dominijanni.html 

IL RITORNO DEL BLASFEMO 
di Jacques-Alain Miller, Le point, 10 gennaio 2015*

Si dice: “Sono dei barbari”. Senza dubbio. Tuttavia questo terrorismo non è affatto cieco, ha gli occhi aperti, è mirato. Non è neppure muto. Grida: “Abbiamo vendicato il profeta Maometto!”. Alla fine del secolo scorso ci si immaginava che nozioni come blasfemo, sacrilego, profanazione, non fossero che vestigia del passato. Non è così. Dobbiamo constatare che l'era della scienza non ha fatto svanire il senso del sacro; che il sacro non è un arcaismo. Senza dubbio non è niente di reale. È un fatto di discorso, una finzione, ma è quella che fa tenere insieme le insegne di una comunità, la chiave di volta del suo ordine simbolico. Il sacro esige riverenza e rispetto. Se mancano, è il caos. Così Socrate è invitato a bere la cicuta. Da quando vi sono degli uomini che parlano, in nessun luogo è mai stato lecito dire tutto.

Eccetto in psicoanalisi, esperienza molto speciale, esplosiva, che non è che al proprio esordio. Eccetto negli Stati Uniti, dove, però, la libertà di parola garantita dalla Costituzione è limitata da un particolare senso della decenza. Per questo la grande maggioranza della stampa si astiene dal riprodurre le caricature di Maometto, per riguardo verso la “grande sofferenza” dei musulmani. Stesso principio per il “politicamente corretto”. L'affetto doloroso segnala che la libido è qui in gioco. Se il sacro non è reale, il godimento che vi si condensa lo è. Il sacro mobilizza estasi e furori. Per esso si uccide e si muore. Uno psicoanalista sa a che cosa ci si espone quando si solletica “l'impossibile-da-sopportare” altrui (Lacan). Per questo Baudelaire cita Bossuet, “Il Saggio ride solo tremando”, e assegna al comico un'origine diabolica. Ora, quale fu il principale operatore dei Lumi se non il riso? Maistre parla del “ghigno” di Voltaire, Musset del suo “orrido sorriso”. Le dottrine della tradizione non furono rifiutate, nota Leo Strauss, bensì scacciate tramite il riso.
Charlie Hebdo era tra noi come il testimone residuale di questa derisione fondatrice. Cabu, Charb, Tignoux, Wolinski, non erano destinati ad essere accostati al cavaliere de La Barre. Dal 1825, nessuno ha mai tentato, da noi, di ripristinare una legge sul blasfemo. Com'è accaduto che siano morti da martiri della libertà di stampa? Il fatto è che universi di discorso un tempo separati e impermeabili, ormai comunicano. Sono anzi intrecciati, dacché il sacro dell'uno e il “niente di sacro” dell'altro sono agli antipodi. Salvo poter riavvolgere il film dei tempi moderni, deportando ovunque gli allogeni, la questione – questione di vita o di morte – sarà di sapere se il gusto per la risata, il diritto di ridicolizzare, l'irriverenza iconoclasta, siano altrettanto essenziali al nostro modo di godere di quanto lo sia la sottomissione all'Uno nella tradizione islamica.
Per quel che riguarda il dibattito giuridico, esso ė complesso e agita ora l'insieme delle democrazie occidentali (vedi, a questo proposito, il dossier pubblicato tre mesi fa dall'Università della California, Profane: Sacrilegious Expression in a Multicultural World). Ogni anno, dal 1999, si negozia all'ONU su questo argomento, per iniziativa dell'Organizzazione della Cooperazione islamica. In Germania, Austria, Irlanda, delle leggi proscrivono gli attacchi al sacro. Il Regno Unito ha atteso il 2008 per cessare di proteggere la Chiesa anglicana dal blasfemo. La Francia si distingue per il rigore della sua dottrina laica. Per quanto tempo ancora? Questo non è scritto. Eh, Francia! Il tuo caffè se ne va. Che cosa vuoi veramente? Conflitto o compromesso?
 
Testo reperito sulla pagina Facebook dell'Istituto Freudiano del 12 gennaio 2015 
https://www.facebook.com/istituto.freudiano.3?fref=ts e anche qui:
http://www.artelier.org/il-ritorno-del-blasfemo/

Per il testo originale:
http://www.lacanquotidien.fr/blog/wp-content/uploads/2015/01/LQ-452.pdf

STALIN BATTE LENIN A SCACCHI 
di Giorgio Dell’Arti, altrimondi.gazzetta.it, 11 gennaio 2015

Tredici Il compositore austriaco Arnold Schönberg, terrorizzato dal numero 13, non lo usava neanche come numero di pagina. Nato il 13 settembre 1874, morì il 13 luglio del 1951. 1913 Nei primi mesi del 1913, a Vienna, era possibile incontrare Stalin, Hitler e Tito.
Scacchi Stalin batteva regolarmente Lenin agli scacchi.
Bicicletta Lenin non riuscì mai ad insegnare a Stalin ad andare in bicicletta.
Acqua Albert Schweitzer, già laureato in Filosofia e Teologia, studiava con un secchio d’acqua fredda sotto la scrivania: quando temeva di addormentarsi, si sfilava i calzini, immergeva i piedi nell’acqua gelata e continuava a leggere.
Musil Robert Musil dedicava particolare cura alle scarpe, faceva un’ora al giorno di sollevamento pesi e flessioni, annotava ogni sigaretta fumata e tutti i rapporti sessuali con la moglie.
Figli Klimt dipingeva indossando solo un largo camice. Alla sua morte si presentarono quattordici sue modelle chiedendo un riconoscimento di paternità per i rispettivi figli.
Madre Bertold Brecht continuò a infilarsi nel letto della madre fino ai quindici anni.
Pigiama Il pittore Oskar Kokoschka era così ossessionato dalla sua amante Alma, vedova di Gustav Mahler, da indossare tutti i giorni il suo pigiama rosso fuoco.
Freud Freud, dopo la morte di Gustav Mahler, scrisse al suo curatore testamentario per incassare il compenso di una chiacchierata fatta passeggiando con il compositore.
Compensi Compenso di Freud per ogni seduta psicoanalitica: 100 corone.
Pony «Portate subito il paziente al traumatologico e il cavallo dal professor Freud» (Arthur Schnitzler quando si vide arrivare in ambulatorio il figlio di un ricco industriale che era stato morso al pene da un pony).
Mano Franz Kafka chiese la mano di Felice Bauer con una lettera lunga venti pagine. Un passo: «Perderesti Berlino, l’ufficio che ti piace, le amiche, i piccoli divertimenti, la speranza di sposare un uomo sano, allegro, buono, di avere figli sani. Acquisteresti un uomo malato, debole, poco socievole, taciturno, malinconico, rigido, quasi disperato».
Giardiniere Per cercare di curare la propria nevrastenia, Kafka decise di andare a lavorare come giardiniere, ma scappò appena seppe che il figlio del proprietario, da cui aveva ereditato l’incarico, s’era ucciso per malinconia.
Bronchite Dal diario di Bertolt Brecht: «Stamattina è venuto il dottor Müller. Bronchite secca. Malattia interessante. Un raffreddore possono prenderlo tutti».
Paure Paure del filosofo tedesco Oswald Spengler: dei parenti, dei dialetti, delle donne che si spogliano, dell’entrare nei negozi, eccetera
Tende Per poter scrivere senza distrazioni, Marcel Proust si fece rivestire con fogli di sughero lo studio in Boulevard Haussmann 102, a Parigi, e fece montare tre strati di tende alle finestre.
Proust «La vita è troppo breve e Proust troppo lungo» (Anatole France).
Giornata Giornata tipo di Thomas Mann: sveglia alle otto, colazione alle otto e mezzo e alle nove inizio del lavoro. A mezzogiorno pausa per radersi, poi passeggiata e pranzo con i figli. Riposo dalle quattro alle cinque del pomeriggio, poi tè. Cena alle sette.
Paga «La grande guerra in Europa, da sempre una minaccia, non scoppierà mai. I banchieri non sborseranno il denaro necessario al conflitto, l’industria non lo alimenterà, mentre gli statisti non possono farlo. Non ci sarà nessuna grande guerra” (David Starr Jordan, presidente della Stanford University, nel 1913).
 
Notizie tratte da: Florian Illies, 1913. L’anno prima della tempesta, Marsilio, Venezia. Pagg. 304, € 19,50.
http://altrimondi.gazzetta.it/2015/01/11/stalin-batte-lenin-a-scacchi/                   

CHARLIE HEBDO: MI FA PAURA L’’INTELLIGENCE’, PREFERISCO LA ‘STUPIDENCE’ 
di Luciano Casolari, ilfattoquotidiano.it, 11 gennaio 2014

In tutta questa terribile vicenda, che interroga ognuno di noi nell’intimo provocando sgomento, terrore e timore per il futuro, fortunatamente ci sono alcuni aspetti che offrono uno sprazzo di sereno in un cielo tempestoso. Provo ad elencarli: i terroristi sbagliano indirizzo e devono chiedere dov’è il loro obbiettivo, uno dei due perde una scarpa, poi perde la carta d’identità, fanno un maldestro incidente, non si accorgono della presenza nella tipografia del proprietario dentro uno scatolone. L’altro terrorista sbaglia ad agganciare il telefono per cui permette la localizzazione e la conoscenza di quello che sta succedendo. Sul versante dei poliziotti possiamo elencare la sottovalutazione dell’informativa attuata il giorno prima dai servizi segreti tunisini, le teste di cuoio che scivolano sul prato, l’errore nel posizionare gli esplosivi. Tutti questi elementi manifestano in modo inequivocabile che, pur in una situazione drammatica, i protagonisti mantengono la loro umanità. Sono impacciati, pasticcioni, insomma esseri viventi complessi e non pure macchine da guerra. Capiamo da questi particolari che tutte le esercitazioni e gli addestramenti non hanno intaccato completamente la loro essenza emotiva profonda.
Come psicoanalista posso ipotizzare che i terroristi vivessero un conflitto interiore. Una parte cosciente che li portava alla decisione di uccidere ma, accanto, una componente inconscia che sapeva che uccidere è male. Sulle scene del crimine capita, quasi immancabilmente, che l’assassino lasci, “appositamente per essere ritrovata”, una traccia che permetta agli inquirenti di rintracciarlo. Il senso di colpa inconscio lavora per indurre l’uomo, che sa di commettere un atto malvagio, a ricercare l’espiazione di una pena. Il bisogno inconscio di essere bloccato nella propria furia distruttiva mette in atto una serie di “dimenticanze, atti mancati, sbadataggini” che sabotano in parte le intenzioni coscienti.
Soprattutto questi elementi di faciloneria, incapacità e balordaggine finalmente inducono in noi il senso del ridicolo. Nella profonda sofferenza complessiva di questa vicenda ci fanno sorridere i terroristi pasticcioni e le teste di cuoio maldestre. I giornalisti del giornale satirico avrebbero certo riso e disegnato una vignetta su questi comportamenti. L’ironia è l’antidoto più importante e psicologicamente efficace nei confronti del fanatismo e di tutti coloro che si prendono troppo sul serio. A proposito di costoro mi paiono veramente patetici i vari esponenti dell’“intelligence” intervistati nelle varie trasmissioni di intrattenimento. Il buon Dio ci guardi da costoro! Preferisco decisamente la “stupidence” e spero che, se mai ci sarà un terrorista nostrano, come nella migliore commedia all’italiana, un giorno scorderà la bomba e l’altro giorno l’innesco.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/01/11/charlie-hebdo-mi-fa-paura-lintelligence-preferisco-la-stupidence/1330020/ 

I FONDAMENTALISTI E GLI ULTIMI UOMINI* 
di Slavoj Žižek, leparoleelecose.it, 12 gennaio 2015

Questo intervento è uscito su «The New Statesman». Ringraziamo l’autore per averci concesso di pubblicarne la traduzione italiana. Il titolo è redazionale
Ora, mentre siamo tutti sotto choc dopo la furia omicida negli uffici di Charlie Hebdo, è il momento giusto per trovare il coraggio di pensare. Dovremmo, com’è ovvio, condannare senza ambiguità gli omicidi come un attacco alla sostanza stessa delle nostre libertà e farlo senza riserve nascoste (del tipo «comunque Charlie Hebdo provocava e umiliava troppo i Musulmani»). Ma questo pathos di solidarietà universale non è abbastanza. Dobbiamo pensare più a fondo.
Pensare più a fondo non ha nulla a che fare con la relativizzazione a buon mercato del crimine (il mantra «chi siamo noi occidentali, perpetratori di massacri terribili nel Terzo Mondo, per condannare atti simili»). Ha ancora meno a che fare con la paura patologica di molta sinistra liberal occidentale: rendersi colpevole di islamofobia. Per questa falsa sinistra ogni critica verso l’Islam è espressione di islamofobia occidentale: Salman Rushdie fu accusato di aver provocato inutilmente i Musulmani e quindi di essere responsabile, almeno in parte, della fatwa che lo ha condannato a morte, eccetera. Il risultato di una simile posizione è quello che ci può aspettare in questi casi: più la sinistra liberal occidentale esprime la propria colpevolezza, più viene accusata dai fondamentalisti di ipocrisia che nasconde odio per l’Islam. Questa costellazione riproduce perfettamente il paradosso del Super-io: più obbedisci a ciò che l’Altro ti chiede, più sei colpevole. Più tolleri l’Islam, più la pressione su di te è destinata a crescere.
Ecco perché trovo insufficienti i richiami alla moderazione sulla falsariga dell’appello di Simon Jenkins («The Guardian», 7 gennaio), secondo il quale il nostro compito è quello di «non reagire eccessivamente, di non pubblicizzare eccessivamente le conseguenze dell’accaduto. È invece quello di trattare ogni evento come un episodio di orrore passeggero». L’attacco a Charlie Hebdo non è stato un mero «episodio di orrore passeggero»: seguiva un preciso piano religioso e politico e, come tale, era parte di uno schema molto più ampio. Certo: non dobbiamo reagire eccessivamente se per questo si intende soccombere a una cieca islamofobia – dovremmo però analizzare questo piano in modo spregiudicato.
Non abbiamo bisogno di demonizzare i terroristi trasformandoli in fanatici eroi suicidi, ma di sfatare questo mito demoniaco. Molto tempo fa, Friedrich Nietzsche comprese che la cultura occidentale stava andando verso l’Ultimo Uomo, una creatura apatica senza grandi passioni o impegni. Incapace di sognare e stanco della vita, l’Ultimo Uomo non prende rischi; cerca solo comfort e sicurezza, tolleranza verso gli altri: «Un piccolo veleno di tanto in tanto: è quello che ci vuole per fare sogni piacevoli. E più veleno alla fine, per una morte piacevole. Hanno i loro piccoli piaceri diurni e i loro piccoli piaceri notturni, ma hanno riguardo per la propria salute. ‘Abbiamo scoperto la felicità’ – dicono gli Ultimi Uomini, e strizzano l’occhio». Può in effetti sembrare che lo iato tra il Primo Mondo permissivo e la reazione fondamentalista corra sempre di più lungo la linea divisoria fra chi conduce una vita lunga, soddisfacente e piena di ricchezza materiale e culturale, e chi invece dedica la propria esistenza a una qualche Causa trascendente. Non è forse questa l’antitesi fra ciò che Nietzsche chiama nichilismo «passivo» e «attivo»? Noi in Occidente siamo gli Ultimi Uomini nietzschiani, immersi in stupidi piaceri quotidiani, mentre i musulmani radicali sono pronti a rischiare tutto, impegnati nella lotta fino all’autodistruzione. La seconda venuta di William Butler Yeats sembra rendere a pieno la nostra situazione attuale: «I migliori sono privi di ogni convinzione, mentre i peggiori sono pieni di appassionata intensità». È un’eccellente descrizione della frattura tra i liberali anemici e i fondamentalisti appassionati: “i migliori” non hanno più la capacità di impegnarsi interamente; “i peggiori” si impegnano in un fanatismo razzista, religioso, sessista.
Ma i terroristi fondamentalisti corrispondono veramente a questa descrizione? Ciò di cui sono privi è un tratto che si ritrova facilmente in tutti i fondamentalisti veri, dai buddisti tibetani agli Amish americani: l’assenza di risentimento e invidia, la profonda indifferenza verso lo stile di vita dei non-credenti. Se i cosiddetti fondamentalisti di oggi davvero credessero di aver trovato la loro via per la Verità, perché dovrebbero sentirsi minacciati dai non-credenti, perché dovrebbero invidiarli? Quando un buddista incontra un edonista occidentale, a malapena lo condanna: si limita a notare con benevolenza che la ricerca di felicità dell’edonista si sconfigge da sola. A differenza dei veri fondamentalisti, i terroristi pseudo-fondamentalisti sono profondamente turbati, intrigati, affascinati dalla vita peccaminosa dei non-credenti. È facile intuire che, combattendo l’altro peccaminoso, combattano in realtà la loro stessa tentazione.
È qui che la diagnosi di Yeats non è all’altezza della situazione attuale: l’intensità passionale dei terroristi testimonia una mancanza di vera convinzione. Quanto dev’essere fragile la fede di un musulmano se si sente minacciata da una stupida caricatura in un settimanale di satira? Il terrore fondamentalista non si fonda sulla certezza della propria superiorità e sul desiderio di salvaguardare l’identità religiosa e culturale dall’assalto della civiltà consumistica globale. Il problema dei fondamentalisti non è che noi li consideriamo inferiori, ma che loro stessi si sentono segretamente tali. Ecco perché le nostre rassicurazioni condiscendenti e politicamente corrette li rendono solo più furiosi, e nutrono il loro risentimento. Il problema non è la differenza culturale (il loro sforzo di preservare la propria identità), ma praticamente l’opposto: i fondamentalisti sono già come noi; segretamente hanno già introiettato i nostri parametri, alla luce dei quali misurano se stessi.
Paradossalmente, quello che manca ai fondamentalisti è proprio una dose di vera convinzione ‘razzista’: la certezza della propria superiorità. Le recenti vicissitudini del fondamentalismo islamico confermano la vecchia intuizione di Benjamin per cui «ogni ascesa del fascismo reca testimonianza di una rivoluzione fallita»: l’ascesa del fascismo rappresenta il fallimento della sinistra, ma al tempo stesso è la prova che c’era un potenziale rivoluzionario, il malcontento, che la sinistra non è stata capace di mobilitare. La stessa cosa vale per il cosiddetto ‘fascismo islamico’ di oggi? L’ascesa dell’islamismo radicale non è il correlativo esatto della scomparsa della sinistra laica nei paesi musulmani? Quando, nella primavera del 2009, i Talebani conquistarono la valle dello Swat in Pakistan, il «New York Times» scrisse che avevano organizzato «una rivolta di classe che sfrutta divisioni profonde fra un piccolo gruppo di latifondisti ricchi e i loro affittuari senza terra». Se, «approfittando delle condizioni difficili dei contadini», i Talebani stavano «sollevando l’allarme sulle condizioni sociali del Pakistan, che rimane largamente feudale», che cosa impedisce ai democratici liberal in Pakistan, così come negli Stati Uniti, di approfittare allo stesso modo di questa situazione e provare ad aiutare i contadini senza terra? La triste conseguenza di tutto questo è che le forze feudali in Pakistan sono le «alleate naturali» della democrazia liberale…
Che dire dei valori fondamentali del liberalismo: la libertà, l’uguaglianza, eccetera? Il paradosso è che il liberalismo stesso non è abbastanza forte per proteggerli dall’attacco fondamentalista. Il fondamentalismo è una reazione (una reazione falsa, mistificante, com’è ovvio) a un difetto vero del liberalismo, e per questo viene generato di continuo dal liberalismo. Lasciato a se stesso, il liberalismo si indebolirà lentamente da solo: la sola cosa che può salvare i suoi valori fondamentali è una sinistra rinnovata. Per far sopravvivere la sua eredità-chiave, il liberalismo ha bisogno dell’aiuto fraterno della sinistra radicale. È questo l’unico modo per sconfiggere il fondamentalismo, per togliergli il terreno da sotto i piedi.
Pensare in risposta agli assassinii di Parigi significa abbandonare la soddisfazione autocompiaciuta del permissivismo liberale e accettare che il conflitto fra il permissivismo liberale e il fondamentalismo è, in ultima analisi, un falso conflitto – un circolo vizioso fra due poli che si generano e si presuppongono l’uno con l’altro. Ciò che Max Horkheimer disse del fascismo e del capitalismo negli anni Trenta – quelli che non vogliono parlare in modo critico del capitalismo dovrebbero tacere anche sul fascismo – dovrebbe essere applicato anche al fondamentalismo di oggi: quelli che non vogliono parlare in modo critico della democrazia liberale dovrebbero tacere anche sul fondamentalismo religioso.
http://www.leparoleelecose.it/?p=17394#more-17394
 
*Il pezzo è apparso il 9 gennaio in un diverso formato su repubblica.it:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/01/09/il-vero-complesso-di-inferiorita-dei-fondamentalisti-fragili-e-confusi16.html?ref=search 

L'ILLUSIONE LIRICA 
di Jacques-Alain Millerlepoint.fr, 12 gennaio 2015*

Parigi, mattina dell'11 gennaio 2015
Chi l’avrebbe creduto? Chi l’avrebbe detto? La Francia in piedi come un solo uomo, o una sola donna. La Francia divenuta o ridivenuta una. La Repubblica, coraggiosa, intrepida, che ha scelto la resistenza. Finiti gli auto-rimproveri! I Francesi improvvisamente usciti dalla loro depressione, dalle loro divisioni e anche, a sentire un accademico, tornati a essere "i soldati dell'anno II". I Francesi che nuovamente suscitano l’ammirazione del mondo. Il presidente Hollande, ciondolando la testa, accoglie con la sua aria da prima comunione i pochi uomini che hanno nelle loro mani i destini del pianeta. Perché precipitarsi così a Parigi? Si direbbe che vengano per rigenerarsi, ravvivare il loro potere, legittimarlo, lustrarlo. Un pianeta stesso quasi unito, unanime, percorso da uno stesso brivido, che forma come una sola folla, in preda a una pandemia emotiva senza precedenti, se non, forse, il Giorno della Vittoria che mise fine alla Prima Guerra mondiale, la Liberazione di Parigi l’8 maggio 1945.
La Francia, l’umanità, sembrano non essere più delle astrazioni, sembrano prendere carne, incarnarsi sotto i nostri occhi, nei nostri cuori, nei nostri corpi. Noi avremmo dunque conosciuto ciò: “l’illusione lirica”. Impossibile orientarvisi senza Freud e la sua Psicologia delle masse, o anche la sua dottrina della cura. L’evento fa rottura; riconfigura il soggetto, o piuttosto lo fa emergere in una forma inedita. Tuttavia le Borse, finora, non si sono mosse, a differenza dell’11 settembre. Ora, è lì ciò che funge oggi da prova del reale. Finché esse non avranno registrato la scossa, si resta nell’immaginario.
Tutto è stato messo in movimento da tre uomini, non uno di più, che hanno dato la vita in nome del Profeta. Tuttavia, non si è raggiunto questo entusiasmo universale in suo nome, ma in quello di Charlie che sorge al posto. Charlie! Un settimanale che prima che la sua redazione fosse sterminata era già, in mancanza di lettori, all’agonia. Il residuo, lo scarto, di un’epoca dello spirito da tempo superata. È lì che verifichiamo ciò che insegna la psicoanalisi, la potenza che racchiude la funzione del resto. Charlie muore assassinato il mercoledì; la domenica, è la sua resurrezione. La sua trasformazione, la sua sublimazione, la sua Aufhebung, in simbolo universale. Il nuovo Cristo. O, per essere misurati, il Here Comes Everybody di James Joyce.
Dobbiamo questo effetto ai nostri tre jihadisti, questi cavalieri dell’Apocalisse, questi soldati dell’Assoluto. Saranno riusciti in questo: spaventare, gettare nel panico una buona parte del pianeta. Come scriveva ieri in un tweet quella vecchia canaglia di Murdoch, “Big jihadist danger looming everywhere from Philippines to Africa to Europe to US”. È nel numero che ciascuno metterà al riparo la sua paura e la sublimerà in ardore. Il numero è la risposta democratica all’Assoluto. Basterà?
Nessuna religione ha esaltato la trascendenza dell’Uno, la sua separazione, come lo ha fatto il discorso di Maometto. Di fronte all’Assoluto, né il giudaismo, né il cristianesimo lasciano sola la debilità umana. Essi offrono al credente la mediazione, il soccorso di un popolo, di una Chiesa, laddove l’Assoluto islamico non è mitigato, resta sfrenato. È il principio del suo splendore. La certezza è dalla sua parte, laddove si discute della definizione di Ebreo, le Chiese protestanti si accapigliano, il Vaticano stesso è colpito, a dire del Papa, da un “Alzheimer spirituale”. Un altro accademico prescrive all’Islam di sottomettersi alla “prova della critica” per raggiungere la sua vera grandezza. In effetti, tutto sta lì. Quando gli asini voleranno…
Quando si manifesta, come faremo tra qualche ora, ci si rivolge ad un potere che si tratta di piegare. I cortei che tra poco convergeranno su place de la Nation non lo sanno, ma essi si preparano a celebrare il padrone di domani. Qual è? “Ma come, mi si dirà, veniamo a incensare la Repubblica, i Lumi, i Diritti dell’Uomo, la libertà d’espressione” ecc., ecc. Credete veramente, risponderei, M. Poutine, M. Viktor Orban, i Grandi del mondo solidali di questi “valori”? È molto più semplice. Di valore non ne hanno che uno: l’ordine pubblico, il mantenimento dell’ordine. E su questo i popoli si accordano con loro. Il legame sociale, ecco il Bene Supremo. Non ve ne è altro. Si onorano le vittime, senza dubbio. Ma innanzitutto, e ovunque, si conta sulla polizia.
Povero Snowden! Sì, noi vogliamo essere sorvegliati, ascoltati, vigilati, se la vita è a questo prezzo. Grande corsa verso la servitù volontaria. Che dico, volontaria? Desiderata, rivendicata, pretesa. All’orizzonte, il Leviatano, “Pax et Priceps”. Venne un momento a Roma, notava un tempo Ronald Syme, in cui anche i Repubblicani consideravano come male minore “submission to absolute rule”. Houellebecq su questo punto non ha torto: la tendenza oggi, contrariamente alle apparenze, non è la resistenza, ma la sottomissione.
Traduzione di Rosanna Tremante. Revisione di Giuliana Zani
*Testo reperito sulla pagina Facebook dell'Istituto Freudiano del 12 gennaio 2015
https://www.facebook.com/istituto.freudiano.3?fref=ts
 
Testo originale:
http://www.lacanquotidien.fr/blog/wp-content/uploads/2015/01/LQ-454.pdf
http://www.lepoint.fr/invites-du-point/jacques-alain-miller/jacques-alain-miller-marche-republicaine-l-illusion-lyrique-12-01-2015-1895804_1450.php

QUELLA PIAZZA ILLUMINISTA CHE HA SALVATO LA VERA IDEA D'EUROPA 
di Julia Kristeva, repubblica.it, 13 gennaio 2015

Insieme al popolo francese, nella strade di Parigi c'era idealmente tutta l'Europa. I tanti europei presenti a Parigi, tra le delegazioni ufficiali ma anche tra la gente comune, hanno contribuito a dare corpo a una comunità viva e democratica che per una volta ha saputo incarnare l'ideale europeo al di là delle semplici dichiarazioni. Colpendo Charlie Hebdo, il terrorismo fondamentalista ha decapitato una forma d'intelligenza rara, quella che fa ridere il pensiero, che appartiene al dna della Francia e dell'Europa. Di conseguenza i popoli europei si sono identificati con quello francese. Almeno sul piano simbolico, l'Europa degli ideali ha preso il sopravvento sull'Europa dei tecnocrati.
 
Per continuare:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2015/01/13/quella-piazza-illuminista-che-ha-salvato-la-vera-idea-deuropa13.html?ref=search
 

MOSÈ ALLA LOTTA ARMATA. IL «MEZZO NECESSARIO» 
Al cinema. Preceduto da polemiche, divieti nei paesi musulmani e critiche in America sul casting, arriva in sala «Exodus. Dei e Re», il peplum biblico di Ridley Scott in 3D 
di Cristina Piccino, Giona A. Nazzaro, ilmanifesto.info, 14 gennaio 2015

Il nuovo film di Rid­ley Scott — in sala domani — arriva pre­ce­duto da pole­mi­che; all’estero i divieti in alcuni paesi musul­mani –Egitto, Marocco, Emi­rati Arabi — con l’accusa di dare un volto a Dio, cosa che è seve­ra­mente proi­bita dall’Islam, e soprat­tutto di creare «falsi sto­rici» nella rico­stru­zione della figura di Mosè che ne è il pro­ta­go­ni­sta. Mosè, infatti, come ci ricorda Mau­lana Muham­mad Ali nel suo La Sto­ria dei pro­feti – Come è nar­rata nel Sacro Corano a con­fronto con la Bib­bia, «è quello più fre­quen­te­mente men­zio­nato». Mosè, inviato da Allah al Faraone per libe­rare dall’oppressione farao­nica i Figli di Israele, «è il primo pro­feta ad essere nomi­nato nel Libro Sacro, nel capi­tolo inti­to­lato al-Muzzammil, terzo per ordine cronologico».
Sulla veri­di­cità sto­rica Scott è stato cri­ti­cato anche da molta stampa occi­den­tale, così come sulla scelta degli attori — nes­sun African-American se non per le parti di schiavi — a comin­ciare dal ruolo prin­ci­pale, Mosè, inter­pre­tato dal Bat­man Chri­stian Bale. «Scott non è Mel Brooks, Exo­dus è grot­te­sco solo a suo disca­pito» ha scritto il New York Times dopo l’uscita ame­ri­cana il mese scorso. Variety, invece, pur con­di­vi­dendo le cri­ti­che rela­tive al casting, ne ha apprez­zato gli aspetti mera­mente spet­ta­co­lari. La cri­tica d’oltralpe (Libé­ra­tion, Le Monde) lo ha stron­cato dura­mente a sua volta, soste­nendo che Scott riduce la Bib­bia a un bloc­k­bu­ster (Le Monde), cosa che di per sé non sarebbe poi così disprez­za­bile. È vero, Rid­ley Scott si prende molte libertà, nel dia­logo ad esem­pio con l’utilizzo, almeno nella ver­sione ita­liana, di ter­mini con­tem­po­ra­nei, come quando alla ragazza madia­nita che diverrà sua moglie, Zip­pora (o Sefora) — Maria Val­verde — Mosè par­lando della corte dei faraoni dice che lì sono senz’altro «più civi­liz­zati» rispetto a Madian, l’oasi di pastori sper­duta nel deserto in cui ha tro­vato rifu­gio durante la sua fuga.
In que­sto senso, pur essendo chia­ra­mente un film «poli­tico», sia rispetto a quanto dichiara sulla Hol­ly­wood di oggi, sia riguardo alla posi­zione che assume non tanto nei con­fronti dei testi sacri, quanto al clas­sico di De Mille, Scott si pre­mura soprat­tutto di fare un film «à la Rid­ley Scott». Per­tanto taglia senza pro­blemi i quarant’anni nel deserto in attesa di entrare a Canaa, le lotte interne degli israe­liti, eli­mina il vitello d’oro e le orge, anche se si intui­sce, osser­vando il finale vaga­mente «tronco», che forse il regi­sta pro­get­tava una durata ancora mag­giore delle quasi tre ore (150′) attuali. Tutto que­sto comun­que fa parte della tra­di­zione del peplum cui Exo­dus. Dei e re — kolos­sal in 3D con due anni di lavo­ra­zione, e nel cast attori come Ben King­sley che nel frat­tempo sono scom­parsi — ade­ri­sce. A comin­ciare pro­prio dalla «moder­niz­za­zione» dei miti di par­tenza, la Bib­bia e il cri­stia­ne­simo del dio cru­dele delle anti­che scrit­ture rige­ne­rato poi dall’avvento di Gesù Cri­sto. Non è la prima volta per Scott, che si è già cimen­tato con l’antica Roma ai tempi di Gla­dia­tor, e che nelle pos­si­bi­lità tec­no­lo­gi­che trova un buon mezzo per riper­cor­rere il genere mischiando le carte.Da cal­li­grafo imper­ti­nente e ormai fuori tempo mas­simo, avendo rag­giunto a suo modo una clas­si­cità atem­po­rale (come notava su que­ste pagine Giu­lia D’Agnolo Val­lan a pro­po­sito di The Coun­se­lor), ultimo espo­nente di quel post-moderno chic che con il cele­brato Blade Run­ner ha mie­tuto migliaia di vit­time fra la cri­tica che l’ha ele­vato agli onori della poli­ti­que des auteurs, Scott trova oggi, para­dos­sal­mente, più che ieri, una sua biz­zarra neces­sità, come fau­tore di un gesto cine­ma­to­gra­fico olim­pi­ca­mente gra­tuito. Ed è pro­prio nei suoi film più facil­mente attac­ca­bili, come Le cro­ciate, tanto per restare in ambito di temi «caldi», che si ritrova anche un indi­zio di sguardo sul mondo del regi­sta (pro­prio come The Coun­se­lor non era altro che la crisi della finanza occi­den­tale ridotta a un’ossessione del prin­ci­pio di piacere).
Più che l’interpretazione reli­giosa, al regi­sta sem­brano inte­res­sare altre que­stioni nella sto­ria di Mosè, il ragazzo cre­sciuto alla corte del Faraone (John Tur­turro) che lo pre­di­lige al pro­prio figlio, intuendo in lui una intel­li­genza e una forza morale assenti nella prole, ma che si sco­pre a un certo punto di essere israe­lita. Anzi di più, di essere colui che gli israe­liti schiavi degli egi­ziani ormai da secoli aspet­tano per com­piere il loro riscatto. Ed è pro­prio que­sto il nodo cru­ciale su cui Scott costrui­sce il «suo» Mosè: «Si deve com­bat­tere o restare per sem­pre schiavi» ripete l’uomo al suo popolo che adde­stra mili­tar­mente, e spinge alla lotta armata, unico «mezzo neces­sa­rio» per far­cela (quasi una retro­da­ta­zione dell’immagine nuova dell’ebreo sorta dal sio­ni­smo dopo la Shoah), sep­pure con l’aiuto di dio — che non è indif­fe­rente allo scon­tro e che invia le dieci pia­ghe e apre il Mar Rosso per lasciare pas­sare il popolo ebraico, richiu­den­dolo sull’esercito di Ram­ses (Joel Edgerton).
Mutando il segno però l’immagine delle armi con­tro l’oppressore può adat­tarsi anche a altro: le piazze arabe in rivolta di que­sti ultimi anni, o nella cac­cia agli israe­liti messa in atto dall’esercito di Ram­ses, si pos­sono vedere i tank israe­liani a Gaza… L’azione (armata) assume la forma di una guer­ri­glia: attac­chi ai con­vo­gli ali­men­tari, alle risorse del popolo egi­zio ecc. Con una dif­fe­renza: senza la fede, senza cioè l’intervento divino, tutto que­sto si risolve in poca cosa. (Exo­dus ci dice infatti che tutte le guerre, al di là delle even­tuali ragioni di Stato, anche quelle di eman­ci­pa­zione, sono diven­tate guerre di reli­gione. La moda­lità di lotta degli israe­liti che seguono Mosè potrebbe far pen­sare alle azioni dei gruppi sio­ni­sti in Pale­stina. Del sio­ni­smo, d’altra parte, que­sto Mosè incarna lo spi­rito, l’idea dell’uomo fisi­ca­mente e men­tal­mente all’altezza delle sfide, l’Uomo nuovo cre­sciuto nei kib­butz che si con­trap­po­neva alla figura debole dell’intellettuale euro­peo che era stato mas­sa­crato dal nazi­smo. Lo scon­forto spae­sato e pas­sivo a cui erano stati pie­gati i tanti cit­ta­dini euro­pei ebrei chiusi prima nei ghetti e poi uccisi, non doveva più essere pos­si­bile, andava con­tra­stato col­ti­vando il corpo, le armi, la capa­cità di com­bat­tere. Non c’è giu­di­zio in que­sto, ma solo chiavi di pos­si­bile accesso legando appunto il mito alla sto­ria, ed ecco che diventa tan­gi­bile l’evocazione dell’erranza asso­ciata al popolo ebraico: una mol­ti­tu­dine di per­sone costrette al moto perpetuo.
È l’aspetto più inte­res­sante del film: Scott ci ricorda che una volta anche gli ebrei erano dei pale­sti­nesi. E Mosè, da con­dot­tiero mili­tare, vede anche nel futuro i con­flitti che avranno come pro­ta­go­ni­sta il suo popolo. La guerra non fini­sce mai. Senza con­tare che lo stesso Mosé venne rim­pro­ve­rato per essersi spo­sato con una donna «stra­niera». L’iconografia nove­cen­te­sca della Sto­ria d’Israele rimane comun­que il rife­ri­mento prin­ci­pale che Scott inne­sta nel suo rac­conto biblico. Dio che viene mostrato nelle sem­bianze di un ragaz­zino impla­ca­bile, somi­glia ai bimbi ebrei chiusi nei lager hitle­riani (e quando Ram­ses sca­tena la sua repres­sione nel ghetto degli schiavi israe­liti non si può non pen­sare ai rastrel­la­menti nei ghetti dell’Europa della seconda guerra mondiale).
Ed è pro­prio il dio bam­bino l’aspetto più curioso del film. Stando allo schema delle cin­que fasi freu­diane, il dio imma­gi­nato da Ste­ven Zail­lian e dal suo pool di sce­neg­gia­tori sarebbe un bam­bino che si trova nella «fase di latenza», il quarto periodo di svi­luppo psi­co­ses­suale. In que­sta fase la libido è dor­miente e le pul­sioni subli­mate in altre dire­zioni. Freud sug­ge­ri­sce che que­sta fase serve per svi­lup­pare la socia­liz­za­zione e dare vita a rap­porti di ami­ci­zia con sog­getti dello stesso sesso. É quando il gioco diventa sem­pre più serio e privo di impli­ca­zioni sen­ti­men­tali e, soprat­tutto, si svi­luppa il senso di domi­nio e di mora­lità. E il bam­bino ini­zia a iden­ti­fi­carsi con il padre. Come dire che dio si vede come… Dio. Per que­sto susci­tano molto inte­resse le moda­lità attra­verso le quali Scott rie­voca la scrit­tura delle tavole della legge. Mosè, ricurvo sulla pie­tra come San Gero­lamo nel suo stu­dio, scrive men­tre Dio gli parla. Ma Dio gli parla d’altro.
Mosè è l’amico di Dio (il bam­bino che svi­luppa la sua capa­cità di socia­liz­za­zione). Ed è da que­sto dia­logo, tenero e rude, bru­sco, che sca­tu­ri­sce la legge, pre­cetti che ser­vono per tenere unito un popolo in cam­mino. La scrit­tura, ossia la parola resa dispo­ni­bile, ripro­du­ci­bile, diventa uno stru­mento per creare da un popolo una società. Scott non dice che la legge è la parola di Dio. (Potrebbe anche essere la dolce allu­ci­na­zione di un uomo che ha com­bat­tuto per tutta la vita e s’immagina una tre­gua…). Si limita a sug­ge­rire che Mosè, in quanto mili­tare giunto alla fine della sua car­riera, ha biso­gno di uno stru­mento più potente delle armi per tenere unito il suo popolo: la parola diventa scrittura.
http://ilmanifesto.info/mose-alla-lotta-armata-il-mezzo-necessario/
 

NUOVA EUROPA: SPERANZA RINATA CON LA MARCIA DI PARIGI 
di Michele di Schiena, quotidianodipuglia.it, 14 gennaio 2015

Con la grandiosa manifestazione di Parigi contro le orrende stragi dei giorni scorsi la Francia, l’Europa democratica e quanti si riconoscono nei grandi principi di libertà e di giustizia hanno fatto il miracolo (dovuto forse a una sorta di eterogenesi dei fini) di sublimare la morte e le sofferenze procurate dagli attentati convertendole in un forte sentimento di solidarietà con le vittime del terrorismo e in un fermento di speranza. Speranza nella capacità dei popoli di costruire il proprio futuro avendo come punto fondamentale di riferimento il motto “liberté, legalité, fraternité”. Un trinomio nato durante la rivoluzione francese ma poi divenuto un messaggio di respiro universale. Una manifestazione di civiltà, quella di Parigi, senza toni forti e senza barriere, aperta all’incontro e alla partecipazione di tutte le culture e di tutte le religioni a partire da quella musulmana i cui fedeli nulla hanno a che fare col terrorismo islamico che umilia e offende i loro sentimenti e il loro credo.
Gli attentati di Parigi e i massacri che quotidianamente si consumano in Medio Oriente, in Africa e in altre parti del mondo sono atti criminali di natura terroristica del tutto estranei al concetto di guerra. Ma dal momento che, a dispetto di tale evidenza, si continua a parlare di scontro di civiltà e di stato di guerra da parte di esponenti di alcune forze politiche e, sia pure con spirito diverso, da parte di alcuni osservatori forse suggestionati dalla gravità dei fatti, vale la pena ricordare che la guerra consiste in un complesso di operazioni attraverso il quale si sviluppa la lotta armata tra Stati o coalizioni di Stati per la soluzione di conflitti economici o politici mentre per terrorismo si intende una lotta scatenata, sempre per motivi politici o ideologici, da gruppi clandestini impegnati a provocare uccisioni e disastri mediante violenze indiscriminate e destabilizzanti.
Sia la guerra che il terrorismo colpiscono diritti essenziali di persone indifese e innocenti ma mentre per la guerra ciò accade come conseguenza non direttamente voluta (i cosiddetti effetti collaterali) ma pur sempre accettata come rischio e perciò frutto di una intenzionalità di secondo grado definita in dottrina giuridica “dolo indiretto”, nel terrorismo l’attacco alla vita e ad altri diritti essenziali di civili innocenti è chiaramente voluto ed è quindi l’effetto di una intenzionalità di primo grado (denominata “dolo diretto”). E non basta, perché le guerre sono sempre in qualche modo soggette ad alcune regole di diritto internazionale mentre le operazioni di terrorismo si pongono fuori dall’ambito del diritto bellico e costituiscono perciò atti di indubbia natura delinquenziale. Ne discende che quando si parla di guerra con riferimento agli eccidi del terrorismo islamico si commette un duplice errore: si applica a tali atti l’etichetta bellica coprendone la natura terroristico-criminale e, ciò che è ancora più grave, si finisce per riconoscere soggettività internazionale a organizzazioni criminali sanguinarie che perseguono proprio tale obiettivo per accrescere il loro sinistro prestigio.
La lotta al terrorismo islamico va portata avanti con la massima determinazione su due fronti: quello dell’impegno per mettere in cantiere all’interno delle democrazie occidentali e nel mondo politiche di maggiore giustizia combattendo le intollerabili disuguaglianze sociali che sono il terreno di coltura di tutti i terrorismi e di tutte le organizzazioni criminali e quello di potenziare i servizi di polizia nazionali, europei e a livello mondiale, sia sul versante preventivo, affinando e coordinando le attività delle strutture di intelligence e sia sul versante repressivo, potenziando i servizi di protezione e di investigazione. E a questo riguardo va ricordato che lo Statuto dell’Onu affida al Consiglio di Sicurezza la responsabilità di intraprendere le azioni necessarie (compreso il ricorso all’uso della forza) per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Ma c’è di più e cioè che nel settembre del 2005 in sede di Assemblea Generale delle Nazioni Unite un vertice di capi di Stato e di Governo approvò un documento (denominato “Responsabilità di protezione”) che estendeva il potere di intervento del Consiglio di Sicurezza anche all’interno di singoli Stati quando questi dovessero venire meno al dovere di proteggere le loro popolazioni da “genocidi, crimini di guerra, pulizie etniche e crimini contro l’umanità”.
Norme queste malinconicamente rimaste solo sulla carta mentre in Medio Oriente, in Africa e in altre parti del mondo si commettono indicibili eccidi. Per combattere il terrorismo islamico e tutte le violenze che seminano morte e dolore occorre quindi più democrazia, più partecipazione e più inclusione. E occorre anche un’Europa che riaffermi il primato della politica su quello dei mercati e realizzi la sua unità politico-istituzionale così come è necessario dare all’Onu maggiore autorità, poteri effettivi e necessari mezzi. Ma ciò che soprattutto occorre è un radicale cambiamento di mentalità che abbia l’ambizione di tradurre in scelte concrete la logica della parabola del Buon Samaritano evocata dallo psicoanalista laico Luigi Zoja (“La morte del prossimo” Einaudi, 2009) il quale afferma che in tale parabola “Cristo propose un salto morale rivoluzionario. Al tempo stesso impose un ideale elevatissimo, sentito dai circostanti come poco realizzabile, e in parte antipsicologico: amare lo straniero” e si può più ampiamente aggiungere amare il prossimo e specialmente gli ultimi. Un “salto morale” per il quale la “liberté” non sia solo libertà di fare ciò che non nuoce agli altri ma anche libertà dal bisogno e da tutti gli asservimenti, la “legalité” non si esaurisca nelle pari opportunità ma includa anche l’impegno civile per assicurare ai più deboli una vita libera e dignitosa e infine la “fraternité” non sia soltanto un generico sentimento di benevolenza verso gli altri ma anche la scelta di costruire il bene comune con politiche ispirate alla “regola d’oro” di tutte le grandi tradizioni culturali e religiose, quel principio di reciprocità espresso nell’esortazione: “fate costantemente agli altri il bene che vorreste ricevere”.
http://www.quotidianodipuglia.it/pensierieparole/nuova_europa_speranza_rinata_con_la_marcia_di_parigi/notizie/1118378.shtml
 
I più recenti pezzi apparsi sui quotidiani di Massimo Recalcati e Sarantis Thanopulos sono disponibili su questo sito rispettivamente a questi link:

http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4545
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4788 

(Fonte dei materiali proposti: http://rassegnaflp.wordpress.com

Loading

Autore

0 commenti

Invia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Caffè & Psichiatria

Ogni mattina alle 8 e 30, in collaborazione con la Società Italiana di Psichiatria in diretta sul Canale Tematico YouTube di Psychiatry on line Italia