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UTOPIE PROFETICHE

5 Feb 15

A cura di Gianni Guasto

"Pensi soltanto a cosa significherebbe poter dire la verità a tutti, al padre, al maestro, al vicino, e persino al re. Tutta l'autorità falsa, alla quale ci assoggettiamo,, se ne andrebbe al diavolo – resterebbe soltanto quella legittima.   (…) Io non penso che la concezione psicoanalitica del mondo porterà a un egualitarismo democratico; l'élite intellettuale dell'Umanità deve conservare il predominio. Platone, credo, ha prefigurato qualcosa di analogo. Naturalmente dovrebbe trattarsi di intelligenze costantemente consapevoli delle proprie debolezze, che non dimenticano e non negano il substrato istintuale-animalesco dello spirito umano. Mettere il governo nelle mani di professori superbi, pieni di sé, sarebbe il massimo dell'orrore".
 
Queste parole, che Ferenczi scrive a Freud in una lettera datata 5 Febbraio 1910, potrebbero apparire una sorta di improbabile e velleitario programma politico soltanto a chi le leggesse senza conoscere la complessa e dolorosa vicenda che ne è il retroscena.
In realtà, queste espressioni non hanno nulla di politico: semmai sono un frammento di quell'analisi non dichiarata che si svolse con Ferenczi nelle vesti di paziente e Freud nelle vesti apparenti di terapeuta, in  un rapporto prevalentemente epistolare che si snodò lungo un arco di 24 anni. 
In effetti Ferenczi si sdraiò anche, per poche settimane e neppure continuativamente, sul divano di Freud. Ma la vera analisi, nella quale possiamo ritrovare una vicenda relazionale e intrapsichica complessa, ricca, creativa e dolorosa consiste nel carteggio, in quelle oltre duemila lettere che per un corrispondente prolifico come Freud rappresentano la relazione epistolare più intensa di tutta la vita. 
Ma la multistratificazione di senso che a posteriori queste parole di Ferenczi rivelano è anche più ricca, perché esse non si limitano ad enunciare un desiderio: quello di una totale e per certi versi simmetrica comunicazione tra Freud e Ferenczi e fra i membri della comunità psicoanalitica in generale; ma dicono moltissimo sull'urgenza del primo nel voler conoscere ciò che gli impedisce di avvicinarsi al secondo, nella percezione di un ostacolo che non è soltanto dentro di lui, ma anche saldamente radicato nell'interlocutore.
E qui le metafore su una sottostante relazione omosessuale che rappresenterebbe un desiderio infantile per così dire preformato nella specie umana, e in qualche modo immatura e dispersiva di energie, mostrano tutto il loro corto respiro, buone tutt'al più a mostrare definitivamente tramontata la pretesa positivistica di conoscenza di una realtà che possa palesarsi in tutta la sua nuda e concreta essenza, dopo uno sforzo titanico di ricerca.
 
Ma volendo guardare le cose in retrospettiva è facile intuire come, nelle parole di Ferenczi,  vi sia una prefigurazione inconsapevole di tutte le declinazioni future del suo lavoro: dell'analisi reciproca in primo luogo, ma anche, ben al di là della durata della sua esistenza, degli sviluppi attuali della psicoanalisi relazionale, che deve necessariamente comporre l'asimmetria di una relazione paragenitoriale (o genitoriale tout court, quando la vicenda del paziente ne risulti troppo gravemente deprivata) con la necessità di eradicare dall'esperienza del paziente (e anche da quella dell'analista) ogni traccia ragionevolmente eliminabile di una relazione gerarchica assoggettata al "patrimonio istintuale animalesco", e all'eredità filogenetica patriarcale-predatoria. 
 
Vi è cioè la prefigurazione inconsapevole di una psicoanalisi diventata capace di usare agevolmente il controtransfert, di potersi muovere senza riserve mentali entro la consapevolezza che nessuno mai, paziente o analista, diverrà immune da conflitto e rimozione. Di una psicoanalisi di uomini e non di presunti esseri angelici che abbiano visto in trasparenza il fondo della propria e altrui esistenza. 
 
E vi è, per finire, l'intuizione di una nuova pedagogia, di cui oggi sentiamo una particolare urgenza, essendo diventati meno capaci di educare le generazioni a venire, dal momento che, avendo abbandonato i codici autoritaristici di un tempo, non siamo ancora riusciti a crearne di nuovi che tengano conto della nostra inevitabile fallibilità senza per questo farci rinunciare alla responsabilità.
 

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