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Scegliere lo psicoanalista sfruttando il pensiero del bambino (Introduzione alla rubrica)

26 Feb 15

A cura di Irene Palazzo

Nel 1994, al secondo anno di università, uno psicoanalista mi consigliò un collega per poter fare un’analisi personale. Poiché allora, come altre persone che si rivolgono a un analista, non riuscivo ad avere criteri di scelta, mi affidai esclusivamente, oltre che all’indicazione ricevuta, ai diversi titoli e alla stima di cui godeva questa persona, in noti circoli psicoanalitici, a causa della sua conoscenza “alla lettera” della dottrina lacaniana.
Anch’io lo sentii parlare in pubblico diverse volte, ma senza portare a casa nulla, convinta che nei confronti di quei discorsi complicati ero io che non me ne intendevo: per anni, cioè, non riuscii a dar ascolto a quel sentore che mi diceva: “Qualcosa non torna, tutte queste teorie non arrivano da nessuna parte!” A quanti di noi è capitato di pensare che, se una persona è iscritta a un albo o gode di una certa notorietà in quella disciplina, di conseguenza è in grado di fare bene il suo mestiere? Pagai cara questa scelta: non tanto in termini di denaro quanto in salute e tempo perso. Nel 1999 decisi di andarmene: “Come potevano diversi pazienti, oltre a me, uscire da un’analisi ridotti peggio di come erano entrati?”
Mi recai allora da uno psicoanalista che sentii parlare un paio di volte in università a Torino. Pur non capendo molto delle cose che questo signore diceva, intuivo comunque qualcosa di vero: alcune sue frasi avevano la capacità di mobilitare i miei pensieri e iniziai così a ipotizzare che questa volta avrei potuto essere sulla “buona strada”.
“La verità, mamma, voglio!!!” è ciò che il mio primogenito di 5 anni e mezzo mi chiede quando sente cose che non gli tornano. Come scegliere allora lo psicoanalista? Chi è un buon analista? Chi è un analista affidabile? Da sempre ho apprezzato una frase di Lacan: “… una persona – potrei dire un analista – è guarita – o affidabile –, se si avvicina almeno un po’ all’intelligenza del bambino”.
Il titolo “Un bambino come analista” è al contempo relativo sia allo psicoanalista sia al bambino.
Il bambino, al pari dell’analista prende posto e ne prepara uno per il partner: sa ascoltare e da pochi indizi sa fare la “diagnosi” delle persone a casa e fuori casa; si muove per principio di piacere richiamando l’altro anche quando non lo onora nella partnership; ricerca la verità dei fatti; parla come mangia – come non riconoscere la grazia, la semplicità niente affatto banale con cui lo fa – e le sue frasi sono materia prima per le orecchie dell’interlocutore.
Di conseguenza racconti autobiografici relativi sia alla mia esperienza di madre che di psicologa a orientamento psicoanalitico ci guideranno lungo tutto il cammino.
Un’avvertenza: i nomi delle persone sono inventati e gli argomenti sono descritti in modo che nessuno possa riconoscersi.

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4 Commenti

  1. info_1

    Com’è quella frase? Avrei
    Com’è quella frase? Avrei voluto scrivere io queste cose. L’incipit di questa nuova rubrica contiene tanti degli argomenti e spunti che ho cercato di inserire nelle cose che scrivo su ‘Clinico contemporaneo’.

    Come si sceglie un analista? Come si apprende da errori che inevitabilmente si commettono? Come distinguere prassi da fama, capacità clinica da profondità teorica, in molti casi mai appaiate?
    Bella domanda, alla quale non è data alcuna risposta se non un ‘fidati dell’istinto’, o più volte ‘ascolta la raccomandazione dell’amico dell’amico’.

    La mia esperienza coincide con l’incipit dell’autrice. Una scelta fatta sull’onda dell’emotività e dell’immaturità. Un percorso fallace scivolato poi in una deriva fatta di errori, superficialità, grossolane mancanze. E dolore.

    E dopo, come qua scritto, a ritrovarsi per la strada più povero di prima, e in compagnia di persone che stavano peggio di quando erano entrate. Li qualcosa si mise in moto. Se da un lato alcuni scelsero la via dell’ostinazione e della ‘fedeltà’ delirante alla pratica di un analista, mettendo in conto il male patito come prezzo da pagare, altri si allontanarono. Patendo ripercussioni da parte di chi occupava una posizione che, solo oggi lo posso vedere, aveva ben poco di quel luogo neutro che Lacan ha trasmesso ai suoi allievi clinici.

    Furono tempi bui. Di chiusura e di rifiuto. Finanche della teoria.

    Poi mi spostai sul mare, e conobbi un uomo che taceva. Era cordiale, gentile e ossequioso. Aveva conosciuto Lacan. Ci misi pochi mesi a destrutturare tutto quello che avevo fatto prima e cestinarlo. Il mio inconscio, che prima non poteva palare perché zittito dalla trabordanza contrortasferale dell’ ‘analista’, come un fiume carsico riprese fluire.

    Lavoro, vita, clinica. Il nome da dare a mia figlia.
    Quello che Lacan chiama desiderio, fece di nuovo irruzione nella mia vita.
    ‘Lei ha conosciuto Lacan’ gli dissi un giorno.’
    ‘Si, ma questo non deve importarle’. Parole nuove per chi era abituato a iniziare le sedute con la voce dell’uomo che prese il posto dell’analista :‘ cosa si dice di me quando non ci sono?’ .

    Solo da li capii la veridicità di alcune frasi di Lacan.
    Una non la ricordo, ma diceva pressappoco di stare alla larga da coloro i quali si facevano belli col suo nome prendendosi per analisti.
    Un’altra invece la ricordo bene, e tante volte mi è venuta in soccorso:
    ‘ i fenomeni psichici si presentano per essere intesi da quell’Altro che è li, anche se non lo si sa’(…). Rivolto a quell’analista che se ‘ha preso quel posto, tanto peggio per lui. Ha nondimeno la responsabilità che pertiene al posto che ha accettato di occupare’

    Il male patito resta con me, mentre lavoro.
    E orienta la mia pratica clinica ad un attenzione che solo chi passa gli inferi conosce.

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    • irenepalazzo

      Grazie. Buon lavoro.
      Grazie. Buon lavoro.

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      • info_1

        Segnalo questi due libri sul
        Segnalo questi due libri sul tema.

        Sul lettino di Freud
        di Irvin D. Yalom

        All’interno del quale troviamo : ‘ soprattutto ha dimenticato l’ammonizione di Sigmund Freud, secondo il quale l’analista non dovrebbe né soddisfare né respingere i desideri della paziente, ma semplicemente interpretarli. Mettendo a nudo tutte le bugie che molti professionisti della psicoanalisi hanno detto ai pazienti sdraiati sui loro divani, Irvin Yalom scrive un romanzo stuzzicante, “ai limiti dell’illegale” tanta è la sincerità con cui si rivolge ai lettori e mostra le debolezze di coloro che, invece di essere d’aiuto, talvolta commettono molti, grossolani errori.

        E poi ‘Psicoanalisi in Rosso’, di Giorgia Walsh

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  2. info_1

    Il lavoro di discussione
    Il lavoro di discussione innescato da queste tue righe, dovrà, a mio parere, partendo dal tema della giusta scelta, toccare la questione mai davvero sino in fondo affrontata, della responsabilità dell’analista. Dello psicoterapeuta. O del ‘terapeuta’ in genere. Intendo dire la necessità di reperire attorno a lui qualcuno o qualcosa al quale fare riferimento quando qualcosa va storto, quando la scelta si dimostra, e può capitare, fallace. Poiché in molti casi non è cosi’ semplice fare i bagagli. La mia esperienza, che poi ho saputo essere stata condivisa da tanti ( davvero tanti) ha toccato con mano questo limite. E’ possibile evitare, come dici tu, che ‘si trovino persone messe peggio di quando hanno iniziato l’analisi?’.
    Tempo fa la risposta era ‘ arrangiati’. In poche parole, la scelta era tua, e tue le conseguenze di aver sviluppato un transfert verso chichessia. Chi sbaglia, paga.
    Ma oggi, parlando con colleghi di varie scuole e vari orientamenti, almeno nelle intenzioni è sentita la necessità di una revisione di questo assunto. Emerge cioè da piu’ parti la necessità di reperire punti di ‘controllo’ che tutelino da sbandamenti ed errori, in modo che una scelta sbagliata, non diventi un incubo, ma semplicemente un intoppo di un percorso riabilitativo. Appartenenti a discipline diverse possono interrogarsi sul tema ‘quale psicoterapia? Quale trattameto?’ Questo perché la scelta terapeutica di un uomo o di una donna risentono di molteplici fattori, proiettati su più piani, la mescolanza dei quali potrà, nel tempo, dire se la scelta è stata efficace o fallace.
    Sto portando questa discussione all’interno di un gruppo di lavoro che comprende psichiatri del SSN e liberi professionisti.
    E’ un tema che mi sta a cuore, poiché io sbagliai clamorosamente la scelta.

    In un mio percorso passato, entravo non già nel luogo dell’analisi personale, quanto in un mondo nel quale, al trattare delle mie questioni, ottenevo dall’altra parte un giudizio di ‘merito’, nonché direttive sulla condotta di vita da tenere fuori. Insomma, tutto ciò che sta dall’altra parte dell’analisi, e attiene alla psicologia dirigista da buoni consigli e buone pratiche. Ma si sa, quando si è dentro, difficile rendersene conto. Il transfert ha il suo ruolo nel tenerti incollato ad un lettino che solo dopo ci si accorge essere diventato una vergine di Norimberga. L’analisi divenne un luogo di scontro, esprimendo io perplessità su un percorso che stava diventando direttivo, educativo ed esulava dalle questioni attinenti il ‘paziente’. Trovavano giustificazione le paure di Freud quando asseriva ‘Noi ci siamo decisamente rifiutati di fare del malato che si mette nelle nostre mani in cerca d’aiuto una nostra proprietà privata, di decidere del suo destino, di imporgli i nostri ideali e, con l’orgoglio del creatore, di plasmarlo a nostra immagine per far piacere a noi stessi”.
    ‘lei forse è paranoico… Lei non riconosce la realtà?’ fu la risposta alle mie obiezioni. Questa affermazione, che può apparire oggi grottesca, segnò un tentativo di incanalare l’analisi su linee direttive prestabilite, laddove inconscio e libere associazioni, dovevano lasciare posto alla ‘buona condotta’ e all’osservanza delle cose da fare e da non fare. Ciò che non si allinea, è ‘fuori controllo’, e dunque ‘malato’. Robert Pirsig ci ha scritto tanto, nei suoi due libri.
    Per validare a tutti i costi questa maldestra modalità di tenere lontano l’analizzante sfuggito, venne adottata la tecnica della conferma e validazione ad ogni costo, contro ogni evidenza, dimenticando i moniti di Lacan a lasciar cadere la posizione di analista, quando non si è piu in grado di matenerla.
    ‘Quanta ne potete sopportare’ ?diceva ai sui allievi…Errori diagnostici grossolani, svarioni, approssimazioni . Se avevo la tosse e non potevo parlare, la risposta era:’ Lei non riesce a parlare perché una parte di se è staccata e non raggiungibile’. . Problemi cardiaci legati alla sregolatezza di quel luogo ormai inadatto alla terapeutica, liquidati con: ‘ il male al cuore è il segno di una parte di lei sconnessa, che sta gridando in altro modo.’
    Consigli generici a non sposarsi perché: ‘ ci può essere uno scatenamento della psicosi’.
    .Che fare?
    Andarsene?
    Come evitare, come accadde a me, di divenire un prodotto di scarto in un processo di verifica continua di un approccio clinico che cercava solo conferme, e dimenticava a lato le prove contrarie?
    Andarsene, si. Facile a dirsi . Come ho scritto nel mio ormai vecchio libro, la stanza dell’analisi è un luogo di pena, di dolore, di affreschi della vita passata e di rimaneggiamento di tutto quello che credevi essere stato, e devi riprocessare in maniera nuova. Diversa. L’invenzione personale di cui parla Lacan, non nasce senza questa immensa opera di ri allestimento, che poi non è semplice smobilitare in pochi giorni. Da li l’adesività ad un ‘setting’ nel quale la pressione, l’impossibilità a dire, sfociarono in una depressione cupa e solida. Ai primi cenni della quale , tutto si dissolse. La caduta del tono dell’umore non venne tollerata, perché non in linea con le aspettative. Il telefono venne abbassato.

    Di tutto questo ciarpame feci piazza pulita quando incontrai un analista vero. Rigoroso e capace di rimettermi su quel lettino nel quale, assieme, facemmo un falò di quelle sterpaglie. Un lettino lasciato, oggi.
    Oggi, mentre apro lo studio, mentre porto in spalla la mia bambina di quasi tre anni, mentre espongo ad un convegno. Mentre termino il capitolo del libro.
    Mentre saluto il mio analista o bacio la mia compagna mi chiedo:
    si poteva evitare? Potevo meglio scegliere?’

    Si, era possibile. Oggi, in nome di questo, dedico gran parte del mio tempo clinico, di docenza e non a trattare questo argomento. Il centro di psicoanalisi che ho fondato anni fa, si chiama LiberaParola, non a caso. Che almeno i pezzi che ho perso per strada possano aiutare qualcuno
    Lo faccio sostenendo la cura nella scelta. La possibilità di fare un passo indietro. Come dici tu con occhi di bambino. Stringo mia figlia, alla mattina, protetta dal buio che ho passato. Lei mi dice: ‘Papà, ma hai la maglia rotta!’ Con questo sguardo, ogni re mostra le sue nudità. Ed è ciò che serve nella scelta di un analista.

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