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Fuori dagli OPG ma dentro l’infermità

6 Mar 15

A cura di Pierpaolo Martucci

Nell’ultima relazione trimestrale al Parlamento sullo stato di attuazione delle iniziative per il superamento degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, accanto a riscontri più o meno incoraggianti – primo fra tutti quello della costante diminuzione del numero degli internati (dimezzato nell’arco di tre anni) – emerge un dato su cui vale la pena riflettere.
Se da una parte continuano le dimissioni dagli OPG, grazie all’impegno dei Servizi DSM, dall’altra si registra un aumento degli ingressi, tanto che nel gennaio del 2015 le presenze risulterebbero superiori a quelle dei precedenti mesi.
Questa contraddizione apparente disvela il "doppio registo" attraverso il quale oggi si dipana la questione del rapporto fra psichiatria e giustizia penale. La politica – con un’accelerazione imprevista – ha deciso di cancellare (almeno nelle intenzioni) la  pesante e discussa misura di sicurezza a carico del non imputabile autore di reato, ma nei tribunali giudici e psichiatri forensi continuano imperterriti ad alimentare la categoria del vizio di mente e della relativa pericolosità, nelle sue varie  declinazioni. Oltre tutto, si deve tener presente che le ordinanze di internamento costituiscono solo la punta estrema relativamente a quanto le corti decidono in casi di esclusione o attenuazione dell’imputabilità, posto che i pronunciamenti della Corte Costituzionale (1) e la recente legge n. 81/2014 hanno affermato  il rispetto del principio di sussidiarietà nell'applicazione delle misure di sicurezza detentive, in favore di altre soluzioni (ad es. la libertà vigilata con affidamento ai servizi territoriali e comunitari).
Non sembra dunque venir meno né attenuarsi la dialettica obbligata fra sistema penale e sapere medico-scientifico.  Esito della routine nelle strategie difensive processuali?  Probabilmente sì, ma questa non potrebbe comunque sostenersi senza riposare su un radicato costrutto culturale, sulla inveterata tendenza di rinvenire una facile risposta epistemica alla comparsa del perturbante. Per citare la nota filastrocca di Ronald Laing:
«in lui ci deve essere qualcosa che non va
perché non agirebbe come fa
se così non fosse,
quindi agisce come fa
perché in lui c’è qualcosa che non va».
Eppure da tempo il matrimonio forzato fra processo e psichiatria è entrato in crisi. Il legame particolare che storicamente si afferma in ambito penale – attraverso gli istituti della consulenza e della perizia – si è mantenuto molto saldo sino a che permangono le certezze ereditate dai modelli positivisti, per poi incrinarsi profondamente con il mutamento della concezione della malattia mentale (oggi definita più pudicamente “disturbo”) successiva alla “rivoluzione antipsichiatrica” degli anni Settanta: non più “patologia del cervello” ma “condizione esistenziale” esito di una esclusione sociale.
Da allora si sono moltiplicati i modelli interpretativi del disagio psichico ed è mutato il ruolo dello psichiatra, sempre più insofferente ad assolvere a mandati di controllo sociale e restio ad esprimersi su quesiti attinenti a diagnosi predittive di pericolosità, ritenute scientificamente insostenibili. Ma, nel contempo, lo psichiatra pare inesorabilmente “condannato” dal consesso sociale a farsi comunque carico della violenza del deviante. Di porre un argine medicamentoso agli agiti eteroaggressivi e di prevenirli. Una collocazione, quella dello specialista della psiche, non solo scomoda, ma gravida di ambivalenze e di aporie  che ne lacerano l’identità professionale. A conferma che – parafrasando una celeberrima asserzione di Freud sulla psicoanalisi – fare “lo psichiatra è un mestiere impossibile”!
La questione è colta assai bene nella sentenza intervenuta in un processo del 2011 che, sulla scia di pronunce precedenti, ha avuto notevole risonanza per il peso determinante che gli accertamenti neuroscientifici e genetico-forensi hanno avuto nel riconoscimento del vizio parziale di mente di una donna responsabile di un efferato omicidio e di altri gravi reati. Costei era stata dichiarata pienamente responsabile da una perizia psichiatrico-forense “tradizionale”.
Nelle motivazioni della sentenza emessa dal tribunale di Como, il magistrato riserva un’attenzione particolare alle argomentazioni della consulenza di parte, salutate come innovative rispetto «alle crescenti difficoltà della psichiatria odierna – trasformatasi ormai in una sorta di rassegnata presa d’atto – di distinguere con sicurezza e precisione tra infermità e sanità mentale (non è un caso che le classificazioni nosografiche in materia si stiano progressivamente espandendo), di pervenire ad una precisa diagnosi delle patologie psichiatriche e, a maggior ragione, di valutare la capacità di intendere e di volere nei portatori di disturbo mentale» (2).
In questa situazione di crisi, l’esperienza neuroscientifica, che utilizza nuove tecnologie apparentemente in grado di spiegare i percorsi cerebrali che portano un individuo a commettere un crimine induce taluni a fondare su di essa una rinnovata speranza di poter fornire basi scientifiche “oggettive” alle decisioni giudiziarie (3).
Per il giudice di Como, gli accertamenti neuroscientifici e di genetica forense sembrano quasi riesumare una concretezza positivistica “forte” rispetto al disorientante relativismo del pensiero psichiatrico post-moderno.  Infatti, rispetto al contenuto della perizia d’ufficio, di cui si lamentano varie carenze, «l’indagine svolta dai consulenti della difesa si è composta di procedure valutative complesse e, a conforto, anche di procedure maggiormente fondate sull’obiettività e sull’evidenza di dati perché corroborate dalle risultanze di “imaging cerebrale” e di “genetica molecolare” e, per ciò stesso, in grado di ridurre la variabilità diagnostica e di offrire risposte meno discrezionali rispetto a quelle ottenibili col solo metodo di indagine tradizionale clinico» (4).
Insomma, l’impiego dell’imaging cerebrale rende l’elaborato peritale più certo, più “oggettivo”, più convincente. Ma la banalizzazione mediatica, come nota ironicamente Merzagora (5), espone al rischio di “neo-frenologia con effetti speciali”, di una brain overclaim syndrome che porta a sovrastimare significati e implicazioni dei risultati ottenibili (è ciò che sembra già avvenire nell’esperienza della giurisprudenza USA).
In effetti la prospettiva sembra quella di un’espansione del concetto di infermità, sino ad abbracciare almeno una parte della composita categoria dei disturbi di personalità, sulla via aperta  dalla nota “sentenza Raso” della Cassazione nel 2005 (6).
Quindi, da un lato l’apparato giudiziario difende gelosamente le proprie prerogative di potere ma dall’altro non viene e non verrà meno nei magistrati la ricerca di una sponda “scientifica” cui sostenersi per alleviare il peso della decisione ed anche – perché no? – per “spiegare” l’inesplicabile.
Anni fa Vittorino Andreoli, nella consulenza tecnica redatta per il pubblico ministero nel processo contro Pietro Maso ebbe a scrivere:  «la normalità è possibile anche di fronte al delitto più efferato (…) Va dunque vinta la tentazione che sia da presumere comunque un disturbo psichiatrico o una sua gravità in chi compie azioni così lontane dal buon senso comune, e dalla comune modalità di agire. E ciò significa superare una tendenza per cui un comportamento anomalo conferma ex post un’anomalia psichiatrica, asserendo che il delitto ne è un test diagnostico di assoluta certezza. Sempre maggiori sono oggi i casi di comportamenti ‘folli’  e persino mostruosi non inquadrabili in sindromi psichiatriche» (7).
Ma in fondo lo aveva detto prima e assai meglio Louis Ferdinand Céline:
«La gran fatica dell'esistenza non è forse insomma nient'altro che questo gran darsi da fare per restare ragionevoli venti, quarant'anni, o più, per non essere semplicemente, profondamente se stessi, cioè immondi, atroci, assurdi»
(Viaggio al termine della notte, 1932).
 
NOTE
(1)   Sentenza Corte cost. n. 253/2003 e sentenza Corte cost. n. 367/2004.
(2)   Trib. Como, 20.5.11, n.536, in Guida diritto (on line), 30 agosto 2011.
(3)   Cfr. MARTUCCI P. (2015), Neuroscienze e processo penale. Profili applicativi e giurisprudenziali, Key Ed.
(4)   Trib. Como, 20.5.11, n.536.
(5)   MERZAGORA BETSOS I. (2012), Colpevoli si nasce? Criminologia., determinismo, neuroscienze,  Cortina Ed., p. 206.
(6)   Cass. pen., Sezioni Unite, 8.5.2005, n. 9163, in Rivista It. Diritto e Procedura Penale, 2005, 417.
(7)   Riportata in MERZAGORA BETSOS I. (2009), Uomini violenti, Cortina Ed., p. 11.

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