NON C’È SCAMPO PER LE MADRI
di Chiara Saraceno, la Repubblica, 2 marzo 2015
Non c’è scampo per le madri. O sono troppo accudenti, al punto da soffocare la capacità di autonomia dei figli (soprattutto maschi) — le madri coccodrillo lacaniane. Oppure, se hanno anche una vita e interessi fuori e accanto alla maternità — vita e interessi che per altro costituiscono un argine ad ogni tentazione divorante — rischiano di essere madri senza cuore, incapaci di accudimento. Le madri narcisiste, esito delle battaglie emancipazioniste di donne che non vogliono essere solo madri, sono la contemporanea iattura che può toccare ai figli, secondo l’analisi di Massimo Recalcati, psicoanalista lacaniano, su Repubblica del 28 febbraio.
Donne che cancellano (in sé) la madre perché non sono capaci “di trasmettere ai figli la possibilità dell’amore come realizzazione del desiderio e non come il suo sacrificio mortifero”. Se la maternità è vissuta come un ostacolo alla propria vita non è, come si potrebbe ingenuamente pensare, perché tuttora l’organizzazione sociale poco sostiene le mamme lavoratrici, in carriera o meno. Neppure perché una definizione della paternità invece tutta incentrata sul desiderio e la necessità di essere altrove, senza essere vincolati dalle necessità della cura, rende difficile per le madri conciliare più dimensioni, più passioni. O perché alcuni psicanalisti condividono il senso comune ancora diffuso in Italia per cui “un bambino in età prescolare soffre se la mamma lavora”, legittimando ogni forma di colpevolizzazione delle madri lavoratrici, specie se, come si dice “non ne avrebbero necessità” e ancor più se vogliono anche una carriera. È perché “si è perduta quella connessione che deve poter unire generativamente l’essere madre all’essere donna”.
Facendo riferimento a casi estremi tratti dalla pratica clinica, o alla letteratura e filmografia, Recalcati rischia di ridurre al vecchio aut aut (o la maternità o la carriera) il ben più complesso dilemma Wollstonescraft al centro di moltissime riflessioni femministe: come far riconoscere il valore e il diritto a dare e ricevere cura senza perdere il diritto ad essere anche altro (cittadine, diceva Wollstonecraft). In particolare, sembra pensare che, sia sacrificio o desiderio, l’amore materno, a differenza di quello paterno, deve essere al riparo da altre passioni, desideri, attività. E che la generatività delle madri si esaurisca nel, certo importantissimo, amore (e accudimento) per i figli, non anche nella capacità di essere individue distinte dai propri figli, con un pensiero e progetti su di sé che non si esauriscono nella maternità, anche se la comprendono.
Questa seconda generatività sembra esclusivamente appannaggio dei padri, loro sì capaci di separarsi e separare. Suggerisco di leggere il dialogo tra Mariella Gramaglia e sua figlia Maddalena Vianello (Tra me e te, edizioni et al.): dialogo difficile, anche conflittuale, dove madre e figlia si confrontano sì sulla cura data e ricevuta, ma anche sulla visione del mondo e l’azione nel mondo che la madre ha lasciato alla figlia e con cui questa deve fare i conti. Spero nessuno consideri Mariella e quelle come lei, come me, terribili madri narcisiste, perché il loro “desiderio” si è diretto anche oltre, non contro, la maternità.
http://blog-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2015/03/03/chiara-saraceno-non-ce-scampo-per-le-madri/?utm_source=feedburner&utm_medium=twitter&utm_campaign=Feed%3A+MicroMegaBlog+%28I+blog+di+MicroMega%29
Donne che cancellano (in sé) la madre perché non sono capaci “di trasmettere ai figli la possibilità dell’amore come realizzazione del desiderio e non come il suo sacrificio mortifero”. Se la maternità è vissuta come un ostacolo alla propria vita non è, come si potrebbe ingenuamente pensare, perché tuttora l’organizzazione sociale poco sostiene le mamme lavoratrici, in carriera o meno. Neppure perché una definizione della paternità invece tutta incentrata sul desiderio e la necessità di essere altrove, senza essere vincolati dalle necessità della cura, rende difficile per le madri conciliare più dimensioni, più passioni. O perché alcuni psicanalisti condividono il senso comune ancora diffuso in Italia per cui “un bambino in età prescolare soffre se la mamma lavora”, legittimando ogni forma di colpevolizzazione delle madri lavoratrici, specie se, come si dice “non ne avrebbero necessità” e ancor più se vogliono anche una carriera. È perché “si è perduta quella connessione che deve poter unire generativamente l’essere madre all’essere donna”.
Facendo riferimento a casi estremi tratti dalla pratica clinica, o alla letteratura e filmografia, Recalcati rischia di ridurre al vecchio aut aut (o la maternità o la carriera) il ben più complesso dilemma Wollstonescraft al centro di moltissime riflessioni femministe: come far riconoscere il valore e il diritto a dare e ricevere cura senza perdere il diritto ad essere anche altro (cittadine, diceva Wollstonecraft). In particolare, sembra pensare che, sia sacrificio o desiderio, l’amore materno, a differenza di quello paterno, deve essere al riparo da altre passioni, desideri, attività. E che la generatività delle madri si esaurisca nel, certo importantissimo, amore (e accudimento) per i figli, non anche nella capacità di essere individue distinte dai propri figli, con un pensiero e progetti su di sé che non si esauriscono nella maternità, anche se la comprendono.
Questa seconda generatività sembra esclusivamente appannaggio dei padri, loro sì capaci di separarsi e separare. Suggerisco di leggere il dialogo tra Mariella Gramaglia e sua figlia Maddalena Vianello (Tra me e te, edizioni et al.): dialogo difficile, anche conflittuale, dove madre e figlia si confrontano sì sulla cura data e ricevuta, ma anche sulla visione del mondo e l’azione nel mondo che la madre ha lasciato alla figlia e con cui questa deve fare i conti. Spero nessuno consideri Mariella e quelle come lei, come me, terribili madri narcisiste, perché il loro “desiderio” si è diretto anche oltre, non contro, la maternità.
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GLI STUDI SULL’OMOGENITORIALITÀ: UNA GUIDA PER I PERPLESSI
di Giuseppina La Delfa, huffingtonpost.it, 2 marzo 2015
Accolgo sul mio blog un articolo di Tommaso Giartosio che risponde indirettamente a una certa stampa nata con lo scopo esclusivo di nutrire l’odio e buttare obbrobrio sulle persone omosessuali, transessuali e sulle famiglie omogenitoriali usando bugie, alterazioni di dati, storie strappalacrime fondate su presupposti sbagliati. Invito alla lettura chiunque voglia davvero capire dove sta la verità non solo sugli studi che dimostrano che le famiglie omogenitoriali funzionano ma anche chiunque voglia riflettere su presupposti molto più importanti come la legittimità, che dovrebbe essere indiscussa, a volere tutelare delle famiglie e dei minori nell’esclusivo interesse loro. Chi può sostenere in fatti che in qualunque modo una famiglia si formi, non sia un grande benefico per tutti quelli che la compongono trovare sicurezza, stabilità e riconoscimento legale? Solo gli omofobi accecati dall’odio. Ricordo infine ancora che le famiglie arcobaleno, i genitori omosessuali, non chiedono altro e da sempre, la possibilità di prendere le proprie responsabilità nei confronti dei bambini che hanno messo al mondo. Niente di più, niente di meno. E questo non può mai essere sbagliato. Per nessuno.
Gli studi sull’omogenitorialità: una guida per i perplessi
Quando si parla di omogenitorialità, a volte i media danno spazio ad alcune ricerche scientificamente e metodologicamente inutilizzabili, ma abilmente sfruttate dal fronte omofobico. Vorremmo perciò offrire qualche strumento per smascherarle.
DUE PREMESSE IMPORTANTI
Prima premessa: tutte le famiglie vanno studiate, comprese quelle omogenitoriali; e gay e lesbiche devono essere i primi a incoraggiare ricerche simili e devono accettarne gli esiti con onestà intellettuale. In effetti moltissime coppie dello stesso sesso hanno consultato questi studi prima di decidere di avere figli. Ma l’esito delle ricerche non ha nulla a che fare con la legittimità delle famiglie formate da coppie dello stesso sesso. Immaginiamo di confrontare i figli di famiglie di migranti giunte in Italia e i figli di famiglie autoctone. I primi probabilmente saranno più esposti a episodi di razzismo, chi lo negherebbe? E mediamente i genitori avranno maggiori difficoltà ad ambientarsi, con ricadute sulla vita quotidiana della prole. Ma chi userebbe questo dato come un argomento per sostenere che gli stranieri non debbono avere figli in Italia? O che i figli degli stranieri dovrebbero avere meno diritti in termini di riconoscimento familiare? Se da una ricerca emergesse che le famiglie di stranieri sono più svantaggiate socialmente, come occorrerebbe reagire? Impedendo ai genitori, magari con l’aiuto del prefetto, di far riconoscere i loro figli all’anagrafe? No: compiendo un lavoro culturale e politico che dia a tutti pari diritti e pari opportunità. Che è appunto ciò che chiedono le Famiglie Arcobaleno. Ed ora la seconda premessa. Nell’opinione pubblica priva di conoscenze specialistiche si è diffusa (o è stata diffusa ad arte) l’impressione che, per quanto riguarda l’omogenitorialità, la scienza sia divisa. Si pensa che alcuni psicologi e sociologi abbiano raccolto dati che permettono di vedere nelle famiglie omogenitoriali una semplice variante della genitorialità, che non mette in pericolo i figli, e che altri psicologi e sociologi abbiano invece raccolto dati allarmanti, che mostrano una realtà famigliare drammatica. Non è così. Attenzione però: negli studi teorici – che siano veri e propri saggi oppure riflessioni, interviste, semplici prese di posizione – chiunque può sostenere e argomentare le sue idee senza bisogno di dimostrarne la validità con dati concreti. Uno psicoanalista freudiano classico, per esempio, può sostenere che le famiglie arcobaleno non permettono ai figli di affrontare il complesso di Edipo: e può dirlo senza tema di essere smentito, se rimane sul piano strettamente teorico, cioè se non presenta dati a sostegno della sua tesi. E ovviamente non c’è nulla di male nel fatto che psicoanalisti, filosofi, teologi lascino viaggiare liberamente i pensieri: è anzi necessario che lo facciano.
Ma se si passa alle ricerche sul campo le cose cambiano. Qui troviamo molte decine di studi pubblicati sulle riviste più autorevoli nel corso di più di quarant’anni, e le indicazioni che forniscono vanno sempre nella stessa direzione. Se non si trattasse di un tema reso controverso da pregiudizi ancestrali, il dibattito sarebbe inesistente e il discorso sarebbe già chiuso. Ormai tutto il mondo accademico serio – psicologi, sociologi, pediatri – ha tratto da anni le sue conclusioni, e le organizzazioni professionali si sono più volte espresse a sostegno dell’omogenitorialità. Non esistono dunque studi che si esprimano diversamente? Sì, ci sono, così come c’è ancora chi sostiene il creazionismo o il negazionismo. Si tratta comunque di pochissimi studi e molto discutibili, per tante ragioni che ora diremo. E questo ci porta al cuore della questione.
GLI STUDI A FAVORE
Si può partire dal report di Charlotte Patterson del 2005, che prendeva in esame circa 150 ricerche dei decenni precedenti per concludere che “gli ambienti domestici forniti da genitori omosessuali hanno la stessa probabilità di quelli forniti da genitori eterosessuali di supportare e realizzare lo sviluppo psicosociale dei figli”. Nel decennio successivo, ancora molte altre ricerche (come quelli di Gartrell, Bos, Stacey, Biblarz, van Gelderen, Goldberg ecc.) hanno confermato questi dati. Questi studi non sono semplici da realizzare. Prima di tutto perché non è facile intercettare le famiglie omogenitoriali – un gruppo minoritario, discriminato, talvolta riluttante a esporsi, e (fino a tempi recentissimi) non rilevato nei censimenti. Se molti studiosi hanno reperito le famiglie necessarie attraverso il passaparola e l’associazionismo, non è perché obbedissero agli ordini di una fantomatica “lobby gay”, ma semplicemente perché non c’era altro modo di trovarle. Pochi hanno potuto studiare più di una cinquantina di famiglie alla volta (anche se cumulativamente sono state indagate migliaia di famiglie in molti diversi paesi). Si tratta di una forma d’indagine del tutto legittima, i cosiddetti “studi qualitativi”, che dichiaratamente prendono in esame un numero limitato di soggetti, ma lo fanno in modo approfondito e giungendo a risultati certi, benché non generalizzabili. Via via le ricerche sono divenute sempre più attendibili, per esempio con il ricorso a “gruppi di controllo” (un campione di famiglie eterogenitoriali da usare come termine di confronto) e la rilevazione dei dati prolungata su più di dieci anni. Oggi gli studi sono ormai moltissimi, e i dati che ci offrono confermano in modo compatto (con le poche apparenti eccezioni che discuteremo tra poco) quanto scriveva Patterson nel 2005. A fare la differenza è la qualità delle relazioni di accudimento, non il sesso o l’orientamento sessuale dei genitori.
Questi studi hanno fornito ovviamente anche una messe di altre informazioni. Per esempio, la metanalisi (una comparazione tra molte decine di studi precedenti) effettuata nel 2010 dai sociologi americani Timothy Stacey e Judith Biblarz ha indagato l’influenza della variabile “genere” sulle competenze genitoriali. Scoprendo tra l’altro che le madri lesbiche preferiscono in generale le figlie femmine, i padri eterosessuali i figli maschi, e i padri gay non sembrano avere particolari preferenze in un senso o nell’altro. Riferiamo questo dato curioso solo per dare un’idea di come in ambito accademico non si sia ormai più ossessionati dalla questione dello “stato di salute” della famiglia omogenitoriale in sé, e si cerchi invece di conoscere meglio questo o quell’aspetto di questo come di altri tipi di famiglia. È significativo, comunque, che molti di questi studi ci mostrino famiglie omogenitoriali mediamente meno legate agli stereotipi di genere (per esempio, figli e figlie si scambiano i compiti con facilità) e meno inclini alle punizioni corporali. Un punto importante è naturalmente se i bambini arcobaleno risentano dell’omofobia sociale. Alcuni studi, come quelli compiuti da H. M. W. Bos negli anni Duemila, mostrano che questo impatto negativo esiste, se la scuola e i genitori non attivano strategie antiomofobiche. Ma sorprendentemente gli studi di Bos mostrano anche che questi ragazzi hanno uguali livelli di disagio psicologico globale rispetto ai ragazzi cresciuti con genitori eterosessuali. Forse è un segno della buona reattività delle coppie dello stesso sesso di fronte a una situazione problematica che la nostra società dovrebbe comunque affrontare. Se viviamo in una cultura omofoba (o razzista), la soluzione non può essere ostacolare le famiglie omogenitoriali (o straniere).
GLI “STUDI” AVVERSI
Veniamo ora alle ricerche in apparenza avverse all’omogenitorialità a cui avevamo accennato. “In apparenza”, perché occorre prima di tutto liberare il campo da una serie di lavori che vengono spesso citati quando si parla di genitori dello stesso sesso, ma in realtà con le famiglie omogenitoriali hanno ben poco a che fare. Per esempio, accade che si tirino in ballo i numerosi studi che mostrano come un bimbo che cresce con la sola madre sia svantaggiato rispetto a uno che cresce con una madre e un padre. E che questi studi vengano descritti come “ricerche sui bimbi allevati senza un padre”. La malafede è evidente. Si tratta ovviamente di bimbi allevati innanzi tutto con un solo genitore, con le inevitabili difficoltà che questo comporta. Cosa accadrebbe con due genitori dello stesso sesso rimane da dimostrare (o meglio, è stato mostrato – nei tanti studi “positivi” che abbiamo già citato).
In modo analogo, si citano le tante ricerche sulla centralità del rapporto con il padre nelle famiglie eterogenitoriali, e le si usa per sostenere che i bambini “hanno bisogno di un padre”. Ma il senso di questi studi è chiaramente che i figli crescono meglio se hanno un rapporto significativo con entrambe le figure genitoriali, qualsiasi sia il loro sesso biologico. Per verificarlo basterebbe vedere cosa accade quando i genitori sono dello stesso sesso. E, come abbiamo visto, la risposta c’è già – negli studi citati in apertura. Altri studi utilizzati contro le famiglie omogenitoriali prendono in esame la popolazione omosessuale in generale e mostrano un’incidenza di disagio psichico, malattie (tra cui l’Aids), consumo di alcool e droghe, comportamenti asociali, violenza, ecc. con valori superiori alla media. Alcuni di questi studi sono affidabili: in effetti parametri di questo tipo sono spesso più alti in tutti i gruppi discriminati, per esempio le minoranze etniche, o i disoccupati/inoccupati. Ma non è assurdo pensare che per questo motivo occorra evitare di dare riconoscimento alle loro famiglie? E in ogni caso, cosa significano questi dati? In Italia (per fare un parallelo) la percentuale di cittadini che hanno consumato cannabis e cocaina è tra le più alte in Europa, ma questo non significa che le famiglie italiane siano fumerie d’oppio… Solo alcuni gay (e solo alcuni etero) sono violenti o consumano droghe, e non è detto che siano proprio loro a voler mettere su famiglia. Per accertarsene occorrerebbe indagare la presenza di questi comportamenti non nell’intera popolazione gay/lesbica, ma direttamente nelle famiglie omogenitoriali. Ma queste famiglia, come abbiamo detto, sono già state studiate. Ancora una volta, è davvero curioso che si cerchino studi che indicano presunte criticità delle famiglie arcobaleno senza mai studiarle direttamente – e che queste criticità poi scompaiano quando le si studia davvero. Altri studi, poi, mostrano che per un figlio è più vantaggioso, mediamente, crescere con genitori sposati che con genitori conviventi. Questo è un ottimo argomento a favore del matrimonio per tutti… Altri studi sono stati frettolosamente pubblicati su riviste sconosciute e di scarsissima autorevolezza, prive di peer review o con peer review approssimative… Altri studi sono frutto del lavoro di “studiosi” pittoreschi come Paul Cameron, espulso dal suo ordine professionale e oggetto di una fitta serie di sanzioni… Altri studi citano prese di posizione di associazioni professionali fantasma comel’American College of Pediatricians, cioè alcune decine di medici che hanno lasciato nel 2002 la vera associazione professionale dei pediatri americani, l’American Academy of Pediatrics, con 60000 iscritti…
La più straordinaria collezione di informazioni false e tendenziose sull’argomento, pericolosa per il suo aspetto “scientifico”, è forse lapoderosa lista di “studi scientifici” [sic] avversi all’omogenitorialitàmessa online dall’UCCR (Unione Cristiani Cattolici Razionali). Ce ne sono di tutte le tipologie che abbiamo elencato fin qui. Ma ecco alcune perle:
– nel dicembre 2011 viene riportata la pubblicazione di una ricerca su “Archives of Sexual Behaviour” secondo cui le figlie diciassettenni di madri lesbiche sarebbero più inclini a sperimentare con l’omosessualità (come se ci fosse qualcosa di male – comunque il dato è noto da molte altre ricerche, che mostrano che in età adulta la proporzione di omosessuali tra loro rispecchia quella della società nel suo insieme); non si dice però che, secondo lo stesso studio, queste ragazze hanno meno probabilità di subire abusi sessuali in famiglia;
– nel luglio 2012 vengono citate le parole di un sociologo (Daniel Potter) secondo cui “i bambini cresciuti in famiglie tradizionali (vale a dire, con i due genitori biologici sposati) tendono a fare meglio dei loro coetanei cresciuti in famiglie non tradizionali” – ma si tralascia ilseguito dell’abstract, che trae conclusioni di senso diametralmente opposto;
– nel dicembre 2013 viene tirata in ballo una ricerca del “McGill University Health Centre” sulla mancanza del padre, che riguarda – ma questo non viene dichiarato – la mancanza del padre nel… topo americano.
Abbiamo voluto dilungarci su questa lista di bufale, a rischio di annoiare chi legge, per far capire che nell’ambito degli studi sull’omogenitorialità non si sta sviluppando un normale dibattito scientifico in cui tutti concordano almeno nell’intento di giungere a una verità oggettiva condivisa. Quando Ernesto Galli Della Loggiaaccusa associazioni come Famiglie Arcobaleno di “considerare ciarlatani o delinquenti tutti gli studiosi che non condividono il pensiero gay in base al semplice fatto (peraltro da accertare) che un paio di costoro sono stati colpiti da sanzioni o scoperti a mentire”, mostra di non conoscere ciò di cui sta parlando. Non è in corso uno scontro tra il “pensiero gay” (qualunque cosa sia) e una frangia di rispettabili studiosi, ma un assalto alla scienza mosso dalla pseudoscienza a scopi schiettamente discriminatori.
REGNERUS E SULLINS
Occorre però dire qualcosa di più sugli studi, recenti e in apparenza più credibili, di Regnerus e Sullins. Come abbiamo detto, in questi decenni moltissime ricerche sono state necessariamente qualitative, cioè basate su un campione di poche decine di famiglie che si sono offerte di partecipare. Ovviamente sarebbe stato preferibile condurre anche ricerche quantitative, cioè riferite ad ampi numeri e a un campionamento casuale. E così è stato: nel 2006 Patterson ha potuto condurre, con Jennifer Wainright, uno studio sull’andamento scolastico, l’adattamento famigliare e sociale e le relazioni amicali e romantiche di un campione totalmente casuale di ragazze cresciute in coppie lesbiche. I risultati sono stati analoghi a quelli delle ricerche precedenti. Altrettanto vale per gli studi di Michael Rosenfeld (2010) sulla riuscita scolastica di 3500 bambini cresciuti in famiglie omogenitoriali, e quello di Potter (2012) su 158 bambini scelti da un campione casuale di 20.000. Si tratta di ricerche molto costose. In questi anni però alcune fondazioni legate alla destra fondamentalista hanno finanziato studi sociologici quantitativi di questo tipo. Il prossimo studio che discuteremo, per esempio, ha ricevuto quasi 700.000 dollari. Il New families structure study di Mark Regnerus ha avuto una certa risonanza nel 2012. Per la prima volta uno studio condotto su un campione statisticamente significativo (quasi 3000 adulti tra i 18 e i 39 anni) riportava risultati negativi per i figli di genitori omosessuali. I figli di “madri lesbiche” avevano ottenuto risultati significativamente peggiori in molti aspetti della qualità della vita: disoccupazione, sussidio sociale, disimpegno politico, psicoterapia in atto per ansia e depressione, tradimento del proprio partner, perfino abuso sessuale ricevuto durante l’infanzia. Poveri erano i risultati scolastici, più frequenti l’abuso di droghe e gli arresti occasionali.
Lo studio, tuttavia, si è rivelato profondamente fallato (e un’indagine interna alla prestigiosa rivista Social science research, che l’aveva pubblicato, ha messo in evidenza gli errori compiuti nel processo di valutazione). “Madre lesbica”, per esempio, era definita qualsiasi donna che avesse mai avuto una relazione anche brevissima con un’altra donna. Ciò faceva identificare come “figli di madre lesbica” anche tanti soggetti che erano sempre vissuti con i loro genitori etero. Solo il 57% dei “figli di madre lesbica” avevano vissuto almeno quattro mesi con la madre e la sua compagna, e solo il 23% per almeno tre anni. Solo il 23% dei “figli di padre gay” avevano vissuto almeno quattro mesi con padre e compagno, e solo il 2% per almeno tre anni. Chiaramente questo non è uno studio su ciò che intendiamo come “famiglie omogenitoriali”.
Ma cosa ha studiato allora Regnerus? La sua ricerca intercettava soprattutto quei figli e figlie che, nati in una coppia eterosessuale, avevano visto uno dei genitori scoprirsi gay o lesbica, con conseguente crisi e separazione. Era inevitabile che lo studio incappasse in famiglie di questo tipo. Prima di tutto perché sono tuttora molto più diffuse delle famiglie “a fondazione omosessuale” (in cui una coppia di donne o di uomini decide di avere figli); e poi perché Regnerus aveva scelto di intervistare dei figli maggiorenni (tra i 18 e i 39 anni), quindi esplorava le relazioni famigliari che avevano vissuto nei decenni precedenti, quando le famiglie “a fondazione omosessuale” erano davvero casi eccezionali. Il risultato è uno studio che ci parla soprattutto della difficoltà di crescere in famiglie spezzate, e in particolare del peso del segreto omosessuale – una vera e propria bomba a orologeria. È uno studio che dovrebbe casomai stimolarci a accogliere gli omosessuali dichiarati, e a riconoscere le loro famiglie.
Lo studio del 2015, anch’esso quantitativo, di Donald Paul Sullins è stato appena pubblicato e ci riserviamo di tornarvi sopra in un altro articolo. Per ora si può osservare che lo studio adotta un approccio molto simile a quello di Regnerus. Utilizza dati relativi addirittura a più di 200000 bambini, e in questo modo riesce a reperirne anche su 512 figli di genitori dello stesso sesso, il cui benessere appare nettamente inferiore alla media. Anche in questo caso i dati si riferiscono almeno in parte al passato: i primi sono stati ottenuti quasi vent’anni fa, nel 1997. Sullins evita di commettere l’imprudenza di Regnerus, e si guarda bene dal raccogliere dati sulla “durata” delle famiglie che esamina. In questo modo la presenza di famiglie segnate dal divorzio resta completamente invisibile. Ma proprio il confronto con i dati di Regnerus ci fa capire che la grande maggioranza di queste famiglie omogenitoriali è segnata dalla separazione dei genitori.
Del resto, anche la conclusione del lavoro di Sullins – che celebra enfaticamente la “famiglia biologica” e la crescita con due “genitori biologici” – fatica ad ancorarsi ai dati: come possiamo dire, nell’epoca dell’eterologa per tutti (e ovviamente dell’adulterio per chi lo vuole), che i figli di queste coppie etero sposate siano davvero “biologici”? Abbiamo deliberatamente evitato di tirare in ballo il fatto che Donald Paul Sullins sia stato sacerdote e insegni tuttora presso la Catholic University of America. Molto correttamente il sito dell’UCCR osserva: “A chi volesse obiettare che l’autore è ‘di parte’ perché lavora in una Università cattolica bisognerebbe ricordare che tale ateneo è ritenuto uno dei migliori college americani da parte della Princeton Review, che l’indagine scientifica non si basa sul principio di autorità e il ricercatore – anche se interessato all’argomento (sarebbe strano il contrario, in realtà) – pubblica dati e offre un’interpretazione di essi, rimettendosi al giudizio e alla valutazione dei revisori esterni, cosa che è stata fatta dal prof. Sullins.” Molto meno correttamente lo stesso sito, nella “pagina degli orrori” che abbiamo citato prima, attacca Charlotte Patterson, professoressa di Psicologia e direttrice del “Programma interdisciplinare di studi su donne, genere e sessualità” della prestigiosa Università della Virginia, e ovviamente anche lei sottoposta alle stringenti valutazioni dei revisori esterni, rinfacciandole di essere “un’attivista omosessuale, convivente con tre bambini”. Ancora una volta: due pesi e due misure. Per questo abbiamo parlato di “pseudoscienza”.
Ora, qualche conclusione. I difetti strutturali di ricerche come quelle di Regnerus e Sullins – per non parlare degli altri studi meno seri a cui abbiamo accennato – non sono paragonabili ai limiti dei circa 200 studi qualitativi che danno un’immagine rassicurante dell’omogenitorialità. I primi, infatti, sono semplicemente inutilizzabili ai fini di una migliore comprensione dell’omogenitorialità, perché si fondano su un’idea distorta di essa e impediscono di valutare l’effetto di fattori esterni (come il divorzio o lo stigma) dall’impatto di eventuali caratteri intrinseci della realtà omogenitoriale. I secondi invece, pur non essendo generalizzabili, forniscono una mole di dati coerenti e unidirezionali che oltre a venire ribaditi da sempre nuovi studi qualitativi, possono trovare successive conferme in studi quantitativi come quelli di Patterson, Rosenfeld e Potter – che effettivamente li confermano, e sono generalizzabili. In secondo luogo, di fronte ad una letteratura scientifica imponente che ha accumulato solo negli ultimi 15 anni più di 50 studi, che confermano e riconfermano gli stessi risultati (ovvero che l’orientamento omosessuale dei genitori non danneggia i figli che crescono con loro), qualunque studio che desideri affermare il contrario dovrà provarsi metodologicamente impeccabile.
Ma i lavori di Sullins e Regnerus si prestano a una riflessione ulteriore. Una parte delle coppie omosessuali prese in esame da Sullins – circa il 16 % – erano sposate (negli ultimi vent’anni il matrimonio per tutti ha preso piede negli Stati Uniti, come altrove). Questo avrebbe permesso allo studioso di svolgere un confronto omogeneo tra le coppie sposate eterosessuali e quelle sposate omosessuali. Invece ha preferito raccogliere in un’unica categoria tutte le coppie omosessuali – sposate, conviventi, appena nate, divorziate – e confrontarle con coppie etero in stragrande maggioranza sposate. Un paragone squilibrato, fatto per evidenziare la fragilità delle famiglie del primo gruppo. Ma è solo un esempio di un modo di procedere che – in Sullins come già in Regnerus – lascia fuori dal quadro le maggiori pressioni sociali a cui è sottoposta una famiglia omogenitoriale: l’esclusione dal matrimonio (che, come molti studi hanno mostrato, rinsalda una coppia), ma anche lo stigma, il segreto (a volte), la mancanza di tutela legale, l’omofobia interiorizzata, il bullismo scolastico, il precedente divorzio eterosessuale…
Insomma, una montagna di dati che ci dice veramente poco. Spesso gli studi sociologici sui grandi numeri portano a grandi semplificazioni. E proprio qui si rivela il valore dell’indagine qualitativa. Gli studi fatti su piccoli campioni di convenienza permettono di isolare più facilmente la variabile omogenitorialità: capire se la coppia gay che vive con il figlio lo ha avuto in una famiglia precedente, oppure lo ha cercato (e per quanto tempo); se ha un’identità sociale forte, e per esempio fa parte di un’associazione; se può contare su buone prassi, se frequenta contesti liberali… Una ricerca qualitativa ovviamente si concentra sulla descrizione di processi specifici al campione osservato. Non ha pretese di parlare per l’universo mondo, ma solo per il suo campione. Non può affermare che l’omogenitorialità è sempre funzionale o sempre disfunzionale; ma dal momento che riesce ad evidenziare delle realtà che funzionano anche meglio delle altre, per quanto non rappresentative di tutte le situazioni omogenitoriali, permette di affermare che l’omogenitorialità può funzionare perfettamente, quando il contesto glielo permette. Ne deriva una domanda diversa: cioè quando e a quali condizioni l’omogenitorialità funziona? Che è esattamente il punto della richiesta di sensibilizzazione, legislazione e tutela delle famiglie arcobaleno. Se possono funzionare, allora è dovere della società cambiare per permettere loro di farlo.
Principali testi citati
Patterson, C.J., Lesbian & Gay Parenting. APA, Washington DC, 2005.
Regnerus, M., “How different are the adult children of parents who have same-sex relationships? Findings from the New Family Structures Study”, in Social Science Research, 41 (4), 752-770, 2012.
Stacey, J., e Biblarz, T.J., “How Does the Gender of Parents Matter?”, in Journal of Marriage and Family, 72, febbraio 2010, pp. 3-22.
Sullins, D. P., “Emotional Problems among Children with Same-Sex Parents: Difference by Definition”, in British Journal of Education, Society and Behavioural Science, 7 (2), febbraio 2015, pp. 99-120.
Ringrazio per il sostegno Daniela Santoro, Giuseppina La Delfa e in particolare Federico Ferrari, che mi ha permesso di riprendere materiali dal suo “La ricerca scientifica sull’omogenitorialità” (in Le famiglie omogenitoriali in Italia. Relazioni familiari e diritti dei figli, a cura di P. Bastianoni e C. Baiamonte, Edizioni Junior, Bergamo, febbraio 2015, pp. 60-77) e dal suo ampio studio Omogenitorialità. Psicologia delle famiglie di lesbiche e gay (di prossima pubblicazione).
http://www.huffingtonpost.it/giuseppina-la-delfa/studi-omogenitorialita-guida-perplessi_b_6752998.html
Gli studi sull’omogenitorialità: una guida per i perplessi
Quando si parla di omogenitorialità, a volte i media danno spazio ad alcune ricerche scientificamente e metodologicamente inutilizzabili, ma abilmente sfruttate dal fronte omofobico. Vorremmo perciò offrire qualche strumento per smascherarle.
DUE PREMESSE IMPORTANTI
Prima premessa: tutte le famiglie vanno studiate, comprese quelle omogenitoriali; e gay e lesbiche devono essere i primi a incoraggiare ricerche simili e devono accettarne gli esiti con onestà intellettuale. In effetti moltissime coppie dello stesso sesso hanno consultato questi studi prima di decidere di avere figli. Ma l’esito delle ricerche non ha nulla a che fare con la legittimità delle famiglie formate da coppie dello stesso sesso. Immaginiamo di confrontare i figli di famiglie di migranti giunte in Italia e i figli di famiglie autoctone. I primi probabilmente saranno più esposti a episodi di razzismo, chi lo negherebbe? E mediamente i genitori avranno maggiori difficoltà ad ambientarsi, con ricadute sulla vita quotidiana della prole. Ma chi userebbe questo dato come un argomento per sostenere che gli stranieri non debbono avere figli in Italia? O che i figli degli stranieri dovrebbero avere meno diritti in termini di riconoscimento familiare? Se da una ricerca emergesse che le famiglie di stranieri sono più svantaggiate socialmente, come occorrerebbe reagire? Impedendo ai genitori, magari con l’aiuto del prefetto, di far riconoscere i loro figli all’anagrafe? No: compiendo un lavoro culturale e politico che dia a tutti pari diritti e pari opportunità. Che è appunto ciò che chiedono le Famiglie Arcobaleno. Ed ora la seconda premessa. Nell’opinione pubblica priva di conoscenze specialistiche si è diffusa (o è stata diffusa ad arte) l’impressione che, per quanto riguarda l’omogenitorialità, la scienza sia divisa. Si pensa che alcuni psicologi e sociologi abbiano raccolto dati che permettono di vedere nelle famiglie omogenitoriali una semplice variante della genitorialità, che non mette in pericolo i figli, e che altri psicologi e sociologi abbiano invece raccolto dati allarmanti, che mostrano una realtà famigliare drammatica. Non è così. Attenzione però: negli studi teorici – che siano veri e propri saggi oppure riflessioni, interviste, semplici prese di posizione – chiunque può sostenere e argomentare le sue idee senza bisogno di dimostrarne la validità con dati concreti. Uno psicoanalista freudiano classico, per esempio, può sostenere che le famiglie arcobaleno non permettono ai figli di affrontare il complesso di Edipo: e può dirlo senza tema di essere smentito, se rimane sul piano strettamente teorico, cioè se non presenta dati a sostegno della sua tesi. E ovviamente non c’è nulla di male nel fatto che psicoanalisti, filosofi, teologi lascino viaggiare liberamente i pensieri: è anzi necessario che lo facciano.
Ma se si passa alle ricerche sul campo le cose cambiano. Qui troviamo molte decine di studi pubblicati sulle riviste più autorevoli nel corso di più di quarant’anni, e le indicazioni che forniscono vanno sempre nella stessa direzione. Se non si trattasse di un tema reso controverso da pregiudizi ancestrali, il dibattito sarebbe inesistente e il discorso sarebbe già chiuso. Ormai tutto il mondo accademico serio – psicologi, sociologi, pediatri – ha tratto da anni le sue conclusioni, e le organizzazioni professionali si sono più volte espresse a sostegno dell’omogenitorialità. Non esistono dunque studi che si esprimano diversamente? Sì, ci sono, così come c’è ancora chi sostiene il creazionismo o il negazionismo. Si tratta comunque di pochissimi studi e molto discutibili, per tante ragioni che ora diremo. E questo ci porta al cuore della questione.
GLI STUDI A FAVORE
Si può partire dal report di Charlotte Patterson del 2005, che prendeva in esame circa 150 ricerche dei decenni precedenti per concludere che “gli ambienti domestici forniti da genitori omosessuali hanno la stessa probabilità di quelli forniti da genitori eterosessuali di supportare e realizzare lo sviluppo psicosociale dei figli”. Nel decennio successivo, ancora molte altre ricerche (come quelli di Gartrell, Bos, Stacey, Biblarz, van Gelderen, Goldberg ecc.) hanno confermato questi dati. Questi studi non sono semplici da realizzare. Prima di tutto perché non è facile intercettare le famiglie omogenitoriali – un gruppo minoritario, discriminato, talvolta riluttante a esporsi, e (fino a tempi recentissimi) non rilevato nei censimenti. Se molti studiosi hanno reperito le famiglie necessarie attraverso il passaparola e l’associazionismo, non è perché obbedissero agli ordini di una fantomatica “lobby gay”, ma semplicemente perché non c’era altro modo di trovarle. Pochi hanno potuto studiare più di una cinquantina di famiglie alla volta (anche se cumulativamente sono state indagate migliaia di famiglie in molti diversi paesi). Si tratta di una forma d’indagine del tutto legittima, i cosiddetti “studi qualitativi”, che dichiaratamente prendono in esame un numero limitato di soggetti, ma lo fanno in modo approfondito e giungendo a risultati certi, benché non generalizzabili. Via via le ricerche sono divenute sempre più attendibili, per esempio con il ricorso a “gruppi di controllo” (un campione di famiglie eterogenitoriali da usare come termine di confronto) e la rilevazione dei dati prolungata su più di dieci anni. Oggi gli studi sono ormai moltissimi, e i dati che ci offrono confermano in modo compatto (con le poche apparenti eccezioni che discuteremo tra poco) quanto scriveva Patterson nel 2005. A fare la differenza è la qualità delle relazioni di accudimento, non il sesso o l’orientamento sessuale dei genitori.
Questi studi hanno fornito ovviamente anche una messe di altre informazioni. Per esempio, la metanalisi (una comparazione tra molte decine di studi precedenti) effettuata nel 2010 dai sociologi americani Timothy Stacey e Judith Biblarz ha indagato l’influenza della variabile “genere” sulle competenze genitoriali. Scoprendo tra l’altro che le madri lesbiche preferiscono in generale le figlie femmine, i padri eterosessuali i figli maschi, e i padri gay non sembrano avere particolari preferenze in un senso o nell’altro. Riferiamo questo dato curioso solo per dare un’idea di come in ambito accademico non si sia ormai più ossessionati dalla questione dello “stato di salute” della famiglia omogenitoriale in sé, e si cerchi invece di conoscere meglio questo o quell’aspetto di questo come di altri tipi di famiglia. È significativo, comunque, che molti di questi studi ci mostrino famiglie omogenitoriali mediamente meno legate agli stereotipi di genere (per esempio, figli e figlie si scambiano i compiti con facilità) e meno inclini alle punizioni corporali. Un punto importante è naturalmente se i bambini arcobaleno risentano dell’omofobia sociale. Alcuni studi, come quelli compiuti da H. M. W. Bos negli anni Duemila, mostrano che questo impatto negativo esiste, se la scuola e i genitori non attivano strategie antiomofobiche. Ma sorprendentemente gli studi di Bos mostrano anche che questi ragazzi hanno uguali livelli di disagio psicologico globale rispetto ai ragazzi cresciuti con genitori eterosessuali. Forse è un segno della buona reattività delle coppie dello stesso sesso di fronte a una situazione problematica che la nostra società dovrebbe comunque affrontare. Se viviamo in una cultura omofoba (o razzista), la soluzione non può essere ostacolare le famiglie omogenitoriali (o straniere).
GLI “STUDI” AVVERSI
Veniamo ora alle ricerche in apparenza avverse all’omogenitorialità a cui avevamo accennato. “In apparenza”, perché occorre prima di tutto liberare il campo da una serie di lavori che vengono spesso citati quando si parla di genitori dello stesso sesso, ma in realtà con le famiglie omogenitoriali hanno ben poco a che fare. Per esempio, accade che si tirino in ballo i numerosi studi che mostrano come un bimbo che cresce con la sola madre sia svantaggiato rispetto a uno che cresce con una madre e un padre. E che questi studi vengano descritti come “ricerche sui bimbi allevati senza un padre”. La malafede è evidente. Si tratta ovviamente di bimbi allevati innanzi tutto con un solo genitore, con le inevitabili difficoltà che questo comporta. Cosa accadrebbe con due genitori dello stesso sesso rimane da dimostrare (o meglio, è stato mostrato – nei tanti studi “positivi” che abbiamo già citato).
In modo analogo, si citano le tante ricerche sulla centralità del rapporto con il padre nelle famiglie eterogenitoriali, e le si usa per sostenere che i bambini “hanno bisogno di un padre”. Ma il senso di questi studi è chiaramente che i figli crescono meglio se hanno un rapporto significativo con entrambe le figure genitoriali, qualsiasi sia il loro sesso biologico. Per verificarlo basterebbe vedere cosa accade quando i genitori sono dello stesso sesso. E, come abbiamo visto, la risposta c’è già – negli studi citati in apertura. Altri studi utilizzati contro le famiglie omogenitoriali prendono in esame la popolazione omosessuale in generale e mostrano un’incidenza di disagio psichico, malattie (tra cui l’Aids), consumo di alcool e droghe, comportamenti asociali, violenza, ecc. con valori superiori alla media. Alcuni di questi studi sono affidabili: in effetti parametri di questo tipo sono spesso più alti in tutti i gruppi discriminati, per esempio le minoranze etniche, o i disoccupati/inoccupati. Ma non è assurdo pensare che per questo motivo occorra evitare di dare riconoscimento alle loro famiglie? E in ogni caso, cosa significano questi dati? In Italia (per fare un parallelo) la percentuale di cittadini che hanno consumato cannabis e cocaina è tra le più alte in Europa, ma questo non significa che le famiglie italiane siano fumerie d’oppio… Solo alcuni gay (e solo alcuni etero) sono violenti o consumano droghe, e non è detto che siano proprio loro a voler mettere su famiglia. Per accertarsene occorrerebbe indagare la presenza di questi comportamenti non nell’intera popolazione gay/lesbica, ma direttamente nelle famiglie omogenitoriali. Ma queste famiglia, come abbiamo detto, sono già state studiate. Ancora una volta, è davvero curioso che si cerchino studi che indicano presunte criticità delle famiglie arcobaleno senza mai studiarle direttamente – e che queste criticità poi scompaiano quando le si studia davvero. Altri studi, poi, mostrano che per un figlio è più vantaggioso, mediamente, crescere con genitori sposati che con genitori conviventi. Questo è un ottimo argomento a favore del matrimonio per tutti… Altri studi sono stati frettolosamente pubblicati su riviste sconosciute e di scarsissima autorevolezza, prive di peer review o con peer review approssimative… Altri studi sono frutto del lavoro di “studiosi” pittoreschi come Paul Cameron, espulso dal suo ordine professionale e oggetto di una fitta serie di sanzioni… Altri studi citano prese di posizione di associazioni professionali fantasma comel’American College of Pediatricians, cioè alcune decine di medici che hanno lasciato nel 2002 la vera associazione professionale dei pediatri americani, l’American Academy of Pediatrics, con 60000 iscritti…
La più straordinaria collezione di informazioni false e tendenziose sull’argomento, pericolosa per il suo aspetto “scientifico”, è forse lapoderosa lista di “studi scientifici” [sic] avversi all’omogenitorialitàmessa online dall’UCCR (Unione Cristiani Cattolici Razionali). Ce ne sono di tutte le tipologie che abbiamo elencato fin qui. Ma ecco alcune perle:
– nel dicembre 2011 viene riportata la pubblicazione di una ricerca su “Archives of Sexual Behaviour” secondo cui le figlie diciassettenni di madri lesbiche sarebbero più inclini a sperimentare con l’omosessualità (come se ci fosse qualcosa di male – comunque il dato è noto da molte altre ricerche, che mostrano che in età adulta la proporzione di omosessuali tra loro rispecchia quella della società nel suo insieme); non si dice però che, secondo lo stesso studio, queste ragazze hanno meno probabilità di subire abusi sessuali in famiglia;
– nel luglio 2012 vengono citate le parole di un sociologo (Daniel Potter) secondo cui “i bambini cresciuti in famiglie tradizionali (vale a dire, con i due genitori biologici sposati) tendono a fare meglio dei loro coetanei cresciuti in famiglie non tradizionali” – ma si tralascia ilseguito dell’abstract, che trae conclusioni di senso diametralmente opposto;
– nel dicembre 2013 viene tirata in ballo una ricerca del “McGill University Health Centre” sulla mancanza del padre, che riguarda – ma questo non viene dichiarato – la mancanza del padre nel… topo americano.
Abbiamo voluto dilungarci su questa lista di bufale, a rischio di annoiare chi legge, per far capire che nell’ambito degli studi sull’omogenitorialità non si sta sviluppando un normale dibattito scientifico in cui tutti concordano almeno nell’intento di giungere a una verità oggettiva condivisa. Quando Ernesto Galli Della Loggiaaccusa associazioni come Famiglie Arcobaleno di “considerare ciarlatani o delinquenti tutti gli studiosi che non condividono il pensiero gay in base al semplice fatto (peraltro da accertare) che un paio di costoro sono stati colpiti da sanzioni o scoperti a mentire”, mostra di non conoscere ciò di cui sta parlando. Non è in corso uno scontro tra il “pensiero gay” (qualunque cosa sia) e una frangia di rispettabili studiosi, ma un assalto alla scienza mosso dalla pseudoscienza a scopi schiettamente discriminatori.
REGNERUS E SULLINS
Occorre però dire qualcosa di più sugli studi, recenti e in apparenza più credibili, di Regnerus e Sullins. Come abbiamo detto, in questi decenni moltissime ricerche sono state necessariamente qualitative, cioè basate su un campione di poche decine di famiglie che si sono offerte di partecipare. Ovviamente sarebbe stato preferibile condurre anche ricerche quantitative, cioè riferite ad ampi numeri e a un campionamento casuale. E così è stato: nel 2006 Patterson ha potuto condurre, con Jennifer Wainright, uno studio sull’andamento scolastico, l’adattamento famigliare e sociale e le relazioni amicali e romantiche di un campione totalmente casuale di ragazze cresciute in coppie lesbiche. I risultati sono stati analoghi a quelli delle ricerche precedenti. Altrettanto vale per gli studi di Michael Rosenfeld (2010) sulla riuscita scolastica di 3500 bambini cresciuti in famiglie omogenitoriali, e quello di Potter (2012) su 158 bambini scelti da un campione casuale di 20.000. Si tratta di ricerche molto costose. In questi anni però alcune fondazioni legate alla destra fondamentalista hanno finanziato studi sociologici quantitativi di questo tipo. Il prossimo studio che discuteremo, per esempio, ha ricevuto quasi 700.000 dollari. Il New families structure study di Mark Regnerus ha avuto una certa risonanza nel 2012. Per la prima volta uno studio condotto su un campione statisticamente significativo (quasi 3000 adulti tra i 18 e i 39 anni) riportava risultati negativi per i figli di genitori omosessuali. I figli di “madri lesbiche” avevano ottenuto risultati significativamente peggiori in molti aspetti della qualità della vita: disoccupazione, sussidio sociale, disimpegno politico, psicoterapia in atto per ansia e depressione, tradimento del proprio partner, perfino abuso sessuale ricevuto durante l’infanzia. Poveri erano i risultati scolastici, più frequenti l’abuso di droghe e gli arresti occasionali.
Lo studio, tuttavia, si è rivelato profondamente fallato (e un’indagine interna alla prestigiosa rivista Social science research, che l’aveva pubblicato, ha messo in evidenza gli errori compiuti nel processo di valutazione). “Madre lesbica”, per esempio, era definita qualsiasi donna che avesse mai avuto una relazione anche brevissima con un’altra donna. Ciò faceva identificare come “figli di madre lesbica” anche tanti soggetti che erano sempre vissuti con i loro genitori etero. Solo il 57% dei “figli di madre lesbica” avevano vissuto almeno quattro mesi con la madre e la sua compagna, e solo il 23% per almeno tre anni. Solo il 23% dei “figli di padre gay” avevano vissuto almeno quattro mesi con padre e compagno, e solo il 2% per almeno tre anni. Chiaramente questo non è uno studio su ciò che intendiamo come “famiglie omogenitoriali”.
Ma cosa ha studiato allora Regnerus? La sua ricerca intercettava soprattutto quei figli e figlie che, nati in una coppia eterosessuale, avevano visto uno dei genitori scoprirsi gay o lesbica, con conseguente crisi e separazione. Era inevitabile che lo studio incappasse in famiglie di questo tipo. Prima di tutto perché sono tuttora molto più diffuse delle famiglie “a fondazione omosessuale” (in cui una coppia di donne o di uomini decide di avere figli); e poi perché Regnerus aveva scelto di intervistare dei figli maggiorenni (tra i 18 e i 39 anni), quindi esplorava le relazioni famigliari che avevano vissuto nei decenni precedenti, quando le famiglie “a fondazione omosessuale” erano davvero casi eccezionali. Il risultato è uno studio che ci parla soprattutto della difficoltà di crescere in famiglie spezzate, e in particolare del peso del segreto omosessuale – una vera e propria bomba a orologeria. È uno studio che dovrebbe casomai stimolarci a accogliere gli omosessuali dichiarati, e a riconoscere le loro famiglie.
Lo studio del 2015, anch’esso quantitativo, di Donald Paul Sullins è stato appena pubblicato e ci riserviamo di tornarvi sopra in un altro articolo. Per ora si può osservare che lo studio adotta un approccio molto simile a quello di Regnerus. Utilizza dati relativi addirittura a più di 200000 bambini, e in questo modo riesce a reperirne anche su 512 figli di genitori dello stesso sesso, il cui benessere appare nettamente inferiore alla media. Anche in questo caso i dati si riferiscono almeno in parte al passato: i primi sono stati ottenuti quasi vent’anni fa, nel 1997. Sullins evita di commettere l’imprudenza di Regnerus, e si guarda bene dal raccogliere dati sulla “durata” delle famiglie che esamina. In questo modo la presenza di famiglie segnate dal divorzio resta completamente invisibile. Ma proprio il confronto con i dati di Regnerus ci fa capire che la grande maggioranza di queste famiglie omogenitoriali è segnata dalla separazione dei genitori.
Del resto, anche la conclusione del lavoro di Sullins – che celebra enfaticamente la “famiglia biologica” e la crescita con due “genitori biologici” – fatica ad ancorarsi ai dati: come possiamo dire, nell’epoca dell’eterologa per tutti (e ovviamente dell’adulterio per chi lo vuole), che i figli di queste coppie etero sposate siano davvero “biologici”? Abbiamo deliberatamente evitato di tirare in ballo il fatto che Donald Paul Sullins sia stato sacerdote e insegni tuttora presso la Catholic University of America. Molto correttamente il sito dell’UCCR osserva: “A chi volesse obiettare che l’autore è ‘di parte’ perché lavora in una Università cattolica bisognerebbe ricordare che tale ateneo è ritenuto uno dei migliori college americani da parte della Princeton Review, che l’indagine scientifica non si basa sul principio di autorità e il ricercatore – anche se interessato all’argomento (sarebbe strano il contrario, in realtà) – pubblica dati e offre un’interpretazione di essi, rimettendosi al giudizio e alla valutazione dei revisori esterni, cosa che è stata fatta dal prof. Sullins.” Molto meno correttamente lo stesso sito, nella “pagina degli orrori” che abbiamo citato prima, attacca Charlotte Patterson, professoressa di Psicologia e direttrice del “Programma interdisciplinare di studi su donne, genere e sessualità” della prestigiosa Università della Virginia, e ovviamente anche lei sottoposta alle stringenti valutazioni dei revisori esterni, rinfacciandole di essere “un’attivista omosessuale, convivente con tre bambini”. Ancora una volta: due pesi e due misure. Per questo abbiamo parlato di “pseudoscienza”.
Ora, qualche conclusione. I difetti strutturali di ricerche come quelle di Regnerus e Sullins – per non parlare degli altri studi meno seri a cui abbiamo accennato – non sono paragonabili ai limiti dei circa 200 studi qualitativi che danno un’immagine rassicurante dell’omogenitorialità. I primi, infatti, sono semplicemente inutilizzabili ai fini di una migliore comprensione dell’omogenitorialità, perché si fondano su un’idea distorta di essa e impediscono di valutare l’effetto di fattori esterni (come il divorzio o lo stigma) dall’impatto di eventuali caratteri intrinseci della realtà omogenitoriale. I secondi invece, pur non essendo generalizzabili, forniscono una mole di dati coerenti e unidirezionali che oltre a venire ribaditi da sempre nuovi studi qualitativi, possono trovare successive conferme in studi quantitativi come quelli di Patterson, Rosenfeld e Potter – che effettivamente li confermano, e sono generalizzabili. In secondo luogo, di fronte ad una letteratura scientifica imponente che ha accumulato solo negli ultimi 15 anni più di 50 studi, che confermano e riconfermano gli stessi risultati (ovvero che l’orientamento omosessuale dei genitori non danneggia i figli che crescono con loro), qualunque studio che desideri affermare il contrario dovrà provarsi metodologicamente impeccabile.
Ma i lavori di Sullins e Regnerus si prestano a una riflessione ulteriore. Una parte delle coppie omosessuali prese in esame da Sullins – circa il 16 % – erano sposate (negli ultimi vent’anni il matrimonio per tutti ha preso piede negli Stati Uniti, come altrove). Questo avrebbe permesso allo studioso di svolgere un confronto omogeneo tra le coppie sposate eterosessuali e quelle sposate omosessuali. Invece ha preferito raccogliere in un’unica categoria tutte le coppie omosessuali – sposate, conviventi, appena nate, divorziate – e confrontarle con coppie etero in stragrande maggioranza sposate. Un paragone squilibrato, fatto per evidenziare la fragilità delle famiglie del primo gruppo. Ma è solo un esempio di un modo di procedere che – in Sullins come già in Regnerus – lascia fuori dal quadro le maggiori pressioni sociali a cui è sottoposta una famiglia omogenitoriale: l’esclusione dal matrimonio (che, come molti studi hanno mostrato, rinsalda una coppia), ma anche lo stigma, il segreto (a volte), la mancanza di tutela legale, l’omofobia interiorizzata, il bullismo scolastico, il precedente divorzio eterosessuale…
Insomma, una montagna di dati che ci dice veramente poco. Spesso gli studi sociologici sui grandi numeri portano a grandi semplificazioni. E proprio qui si rivela il valore dell’indagine qualitativa. Gli studi fatti su piccoli campioni di convenienza permettono di isolare più facilmente la variabile omogenitorialità: capire se la coppia gay che vive con il figlio lo ha avuto in una famiglia precedente, oppure lo ha cercato (e per quanto tempo); se ha un’identità sociale forte, e per esempio fa parte di un’associazione; se può contare su buone prassi, se frequenta contesti liberali… Una ricerca qualitativa ovviamente si concentra sulla descrizione di processi specifici al campione osservato. Non ha pretese di parlare per l’universo mondo, ma solo per il suo campione. Non può affermare che l’omogenitorialità è sempre funzionale o sempre disfunzionale; ma dal momento che riesce ad evidenziare delle realtà che funzionano anche meglio delle altre, per quanto non rappresentative di tutte le situazioni omogenitoriali, permette di affermare che l’omogenitorialità può funzionare perfettamente, quando il contesto glielo permette. Ne deriva una domanda diversa: cioè quando e a quali condizioni l’omogenitorialità funziona? Che è esattamente il punto della richiesta di sensibilizzazione, legislazione e tutela delle famiglie arcobaleno. Se possono funzionare, allora è dovere della società cambiare per permettere loro di farlo.
Principali testi citati
Patterson, C.J., Lesbian & Gay Parenting. APA, Washington DC, 2005.
Regnerus, M., “How different are the adult children of parents who have same-sex relationships? Findings from the New Family Structures Study”, in Social Science Research, 41 (4), 752-770, 2012.
Stacey, J., e Biblarz, T.J., “How Does the Gender of Parents Matter?”, in Journal of Marriage and Family, 72, febbraio 2010, pp. 3-22.
Sullins, D. P., “Emotional Problems among Children with Same-Sex Parents: Difference by Definition”, in British Journal of Education, Society and Behavioural Science, 7 (2), febbraio 2015, pp. 99-120.
Ringrazio per il sostegno Daniela Santoro, Giuseppina La Delfa e in particolare Federico Ferrari, che mi ha permesso di riprendere materiali dal suo “La ricerca scientifica sull’omogenitorialità” (in Le famiglie omogenitoriali in Italia. Relazioni familiari e diritti dei figli, a cura di P. Bastianoni e C. Baiamonte, Edizioni Junior, Bergamo, febbraio 2015, pp. 60-77) e dal suo ampio studio Omogenitorialità. Psicologia delle famiglie di lesbiche e gay (di prossima pubblicazione).
http://www.huffingtonpost.it/giuseppina-la-delfa/studi-omogenitorialita-guida-perplessi_b_6752998.html
MAMME NARCISO, È DAVVERO COSÌ?
di Anna Spena, vita.it, 3 marzo 2015
Dopo il padre, dopo il conflitto di coppia, dopo la scuola, Massimo Recalcati approda al grande tema della madre. Lo ha fatto con un articolo pubblicato da Repubblica e presto con un libro in uscita da Feltrinelli. Recalcati nel suo primo intervento ha toccato un tema destinato a far discutere: quello delle “mamme narciso”. Cioè le donne che oggi, secondo Recalcati, vedono la maternità come un ostacolo all’autoaffermazione. Su Repubblica gli ha risposto Chiara Saraceno. Vita.it ne ha parlato con Chiara Giaccardi docente di sociologia e antropologia dei media presso l’Università Cattolica di Milano. Donna “in carriera” ma anche madre di 6 figli.
È d’accordo con la visione di Massimo Recalcati? Esistono le “madri Narciso”?
Io sono d’accordo sul fatto che esista un problema serio con il narcisismo. Ma l’essere “narcisisti” è una fotografia della contemporaneità che si riflette in tutte le componenti della società, non solo sulle madri e sulle donne. Il problema è generale. È vero che siamo in una società di narcisi e usiamo gli altri come specchio per guardarci.
Nell’articolo pubblicato da la Repubblica Recalcati ha usato toni un po’ forti “le donne considerano la maternità come un sacrificio mortifero”…
Recalcati tocca un punto importate ma lo fa in modo sbagliato. Il problema non è “il modello della madre perduto”, il problema serio è che noi tutti abbiamo perso la memoria del “legame di madre”. Veniamo dall’utero e dall’incontro di due differenze e questo non dovremmo mai dimenticarlo. La maternità è l’archetipo che sta alle nostre spalle. Tutti noi siamo stati accolti nel grembo. La caratteristica principale dell’individuo è mettersi in relazione ma oggi sprofondiamo nell’individualismo e non ce ne rendiamo neanche conto. Anche se abbiamo bisogno dell’altro, vediamo questo altro come qualcosa che limita la nostra libertà. Questa è l’antropologia della contemporaneità.
Recalcati conclude il suo articolo con un’altra osservazione forse equivocabile:“Si è perduta la connessione che unisce generativamente l’essere madre dall’essere donna. Se c’è stato un tempo dove la madre tendeva ad uccidere la donna, adesso il rischio è l’opposto; è quello che la donna possa sopprimere la madre“. Ma che cos’è che rende realmente le persone generative?
Il tema della madre come archetipo è universale e non ideologico. La maternità non può essere concepita come un “dover essere”, ma deve essere considerata una memoria. È questa memoria che ci fa esistere come essere umano, un essere in relazione. Quando manteniamo questa memoria siamo tutti persone generative. La madre è una memoria relazionale universale. Quando Recalcati individua nel narcisismo qualcosa che compromette la relazione del legame non sbaglia. Ma l’etichetta sbagliata che utilizza crea più problemi che soluzioni.
Considerato che il problema è a carattere universale perché parlarne solo in riferimento alla maternità. Non è l’ennesima differenziazione immotivata che si fa tra donna e uomo? Perché pensare ad una “donna” e ad una “donna madre”? Questa è una costruzione sociale e storica più che altro…
L’essere umano è un animale simbolico. Le variabili storiche e culturali influiscono sempre tantissimo sui nostri costrutti. Il contributo di Recalcati presta il fianco alla giusta critica ma ne impedisce il volo. Parla della sua esperienza da psicanalista: l’asse è significativo ma circoscritto, realistico ma comunque personale. La nostra società va dall’infanticidio fino alla normalità piena di tutte le fatiche che si fanno per andare avanti senza particolari ansie. Ma la maternità è una fase ridotta della vita delle persone. La fatica fisica più grande si riscontra quando i figli sono piccoli. L’importante è vedere i figli come altro da sé. Questo è il rapporto con l’alterità e non è mai semplice.
Ma nel contesto attuale, dove è evidente l’assenza di sostegni per conciliare la vita famigliare con quella lavorativa, come si raggiunge l’equilibrio?
Ci sono tanti modi imperfetti di essere madre. Tutti questi modi si conciliano con la realizzazione del sé. Si fa fatica, ma la fatica ha un senso.
E invece come risaliamo dall’individualismo in cui ci siamo rinchiusi?
Ripensiamo alla forma della famiglia. Non nella forma classica che può essere misera: usciamo dai luoghi comuni del padre, madre, appartamento, televisore e porta blindata. La soluzione pratica è quella relazionale. La relazione è la matrice degli esseri viventi. Oggi siamo più liberi, giochiamola bene questa libertà. E la maternità non deve essere tutta sulle spalle della madre…
http://www.vita.it/it/article/2015/03/03/mamme-narciso-e-davvero-cosi/129726/
È d’accordo con la visione di Massimo Recalcati? Esistono le “madri Narciso”?
Io sono d’accordo sul fatto che esista un problema serio con il narcisismo. Ma l’essere “narcisisti” è una fotografia della contemporaneità che si riflette in tutte le componenti della società, non solo sulle madri e sulle donne. Il problema è generale. È vero che siamo in una società di narcisi e usiamo gli altri come specchio per guardarci.
Nell’articolo pubblicato da la Repubblica Recalcati ha usato toni un po’ forti “le donne considerano la maternità come un sacrificio mortifero”…
Recalcati tocca un punto importate ma lo fa in modo sbagliato. Il problema non è “il modello della madre perduto”, il problema serio è che noi tutti abbiamo perso la memoria del “legame di madre”. Veniamo dall’utero e dall’incontro di due differenze e questo non dovremmo mai dimenticarlo. La maternità è l’archetipo che sta alle nostre spalle. Tutti noi siamo stati accolti nel grembo. La caratteristica principale dell’individuo è mettersi in relazione ma oggi sprofondiamo nell’individualismo e non ce ne rendiamo neanche conto. Anche se abbiamo bisogno dell’altro, vediamo questo altro come qualcosa che limita la nostra libertà. Questa è l’antropologia della contemporaneità.
Recalcati conclude il suo articolo con un’altra osservazione forse equivocabile:“Si è perduta la connessione che unisce generativamente l’essere madre dall’essere donna. Se c’è stato un tempo dove la madre tendeva ad uccidere la donna, adesso il rischio è l’opposto; è quello che la donna possa sopprimere la madre“. Ma che cos’è che rende realmente le persone generative?
Il tema della madre come archetipo è universale e non ideologico. La maternità non può essere concepita come un “dover essere”, ma deve essere considerata una memoria. È questa memoria che ci fa esistere come essere umano, un essere in relazione. Quando manteniamo questa memoria siamo tutti persone generative. La madre è una memoria relazionale universale. Quando Recalcati individua nel narcisismo qualcosa che compromette la relazione del legame non sbaglia. Ma l’etichetta sbagliata che utilizza crea più problemi che soluzioni.
Considerato che il problema è a carattere universale perché parlarne solo in riferimento alla maternità. Non è l’ennesima differenziazione immotivata che si fa tra donna e uomo? Perché pensare ad una “donna” e ad una “donna madre”? Questa è una costruzione sociale e storica più che altro…
L’essere umano è un animale simbolico. Le variabili storiche e culturali influiscono sempre tantissimo sui nostri costrutti. Il contributo di Recalcati presta il fianco alla giusta critica ma ne impedisce il volo. Parla della sua esperienza da psicanalista: l’asse è significativo ma circoscritto, realistico ma comunque personale. La nostra società va dall’infanticidio fino alla normalità piena di tutte le fatiche che si fanno per andare avanti senza particolari ansie. Ma la maternità è una fase ridotta della vita delle persone. La fatica fisica più grande si riscontra quando i figli sono piccoli. L’importante è vedere i figli come altro da sé. Questo è il rapporto con l’alterità e non è mai semplice.
Ma nel contesto attuale, dove è evidente l’assenza di sostegni per conciliare la vita famigliare con quella lavorativa, come si raggiunge l’equilibrio?
Ci sono tanti modi imperfetti di essere madre. Tutti questi modi si conciliano con la realizzazione del sé. Si fa fatica, ma la fatica ha un senso.
E invece come risaliamo dall’individualismo in cui ci siamo rinchiusi?
Ripensiamo alla forma della famiglia. Non nella forma classica che può essere misera: usciamo dai luoghi comuni del padre, madre, appartamento, televisore e porta blindata. La soluzione pratica è quella relazionale. La relazione è la matrice degli esseri viventi. Oggi siamo più liberi, giochiamola bene questa libertà. E la maternità non deve essere tutta sulle spalle della madre…
http://www.vita.it/it/article/2015/03/03/mamme-narciso-e-davvero-cosi/129726/
L’ERESIA ANTROPOLOGICA DEL TOTALITARISMO “GENDER”. Una nuova utopia figlia del marxismo. Fondata sulla cieca rivendicazione degli orientamenti sessuali per riorganizzare la società e realizzare il sogno di un’uguaglianza senza singolarità. Parla il sacerdote e psicanalista Tony Anatrella
di Benedetta Frigerio, tempi.it, 4 marzo 2015
Rimpiazza l’ideologia marxista ed è altrettanto distruttiva e totalitaria, fondata su una pseudo-uguaglianza e la rivendicazione cieca degli “orientamenti sessuali” per organizzare la società. È lo scopo ultimo della teoria del genere, spiega a Tempi Tony Anatrella, sacerdote e psicanalista, che vive a Parigi, dove insegna alla libera Facoltà di filosofia e di psicologia di Parigi e al Collège des Bernardins. Consultore del Pontificio consiglio per la famiglia e del Pontificio consiglio per la salute, ha pubblicato molte opere tra cui La teoria del “gender” e l’origine dell’omosessualità (San Paolo 2012) e Il regno di Narciso (San Paolo 2014).
Professor Anatrella, da tempo lei parla della teoria del gender come di una ideologia totalitaria e ha scritto che, come il marxismo nel secolo scorso, il gender sarebbe diventato il campo di battaglia di questo secolo. Non è eccessivo?
Anzitutto non bisogna confondere gli studi di genere che analizzano le relazioni fra gli uomini e le donne nella società nelle diverse aree culturali al fine di pervenire a un migliore rispetto della loro dignità, uguaglianza e vocazione rispettiva, con la teoria del genere, ispirata a diverse correnti di pensiero. Ma anche lo studio sociologico, che di per sé è semplicemente un metodo di osservazione, diventa un’ideologia quando afferma una “parità totale” fra uomo e donna, poiché la “parità” non è l’“uguaglianza”. Si vorrebbe far credere, in base a una visione puramente contabile della relazione, che i due sono intercambiabili. Ora, se è vero che a parità di competenze un uomo e una donna possono esercitare le stesse responsabilità, il problema è che si vuole far credere che psicologicamente e socialmente l’uomo e la donna sono identici. Eppure uomo e donna non possono assumere sistematicamente gli stessi compiti, né gli stessi simbolici, a cominciare da quelli della maternità e della paternità. Questa prospettiva egualitarista ha falsato e complicato le relazioni fra i due sessi e spiega in parte – anche se non è l’unica ragione – perché le relazioni all’interno della coppia sono diventate difficili e perché molti non vogliano più sposarsi o abbiano paura del matrimonio. Sociologicamente si è sempre constatato un fenomeno ricorrente nella storia: quando le donne entrano in massa in un settore di attività, gli uomini se ne vanno. Così l’insegnamento, la medicina e la giustizia si femminilizzano sempre più, mentre gli uomini si orientano verso altri mestieri. Ma l’ideologia di genere si spinge ancora più in là, affermando che il corpo sessuato non ha alcuna importanza nello sviluppo psicologico. In realtà la psicologia di ciascuno di noi si sviluppa nella misura in cui avviene l’interiorizzazione del suo corpo sessuato. I diversi autori che condividono l’ideologia del gender sostengono anche che bisogna pensare diversamente la sessualità e l’organizzazione della società: non bisogna più definire la sessualità a partire dalle due sole identità sessuali che esistono, quelle dell’uomo e della donna, perché secondo loro ciò è iniquo, ma a partire dagli orientamenti sessuali come l’eterosessualità, l’omosessualità, la bisessualità, la transessualità, ecc. In questo modo tutti si troverebbero in condizioni di uguaglianza, mentre se ci si riferisce unicamente all’identità di uomo e donna si escludono altre “forme” di sessualità. Come si fa a non vedere che questa prospettiva è contraria al dato di realtà? Nella realtà, l’identità sessuale riguarda l’essere della persona, mentre gli orientamenti sessuali riguardano le pulsioni sessuali. Se tutto va per il verso giusto queste ultime si elaborano e si integrano nella personalità a partire dall’identità oggettiva del soggetto, mentre le pulsioni ricercate per se stesse attraverso un tipo di orientamento si isolano dalla personalità e la mantengono nell’immaturità affettiva e in una relativa impulsività mai soddisfatte. Ciò sfocia in personalità non unificate e instabili. Detto in altre parole, prendere in considerazione gli orientamenti sessuali per definire la sessualità, cioè pensare che la differenza delle sessualità deve sostituire la differenza sessuale, che si fonda sull’uomo e sulla donna, è distruttivo come lo era il marxismo. Per settant’anni le società sono state dominate dalla cecità di fronte a questa ideologia fondata su una pseudo-uguaglianza e sulla convinzione che l’essere umano è il prodotto di una cultura: la stessa cosa che la teoria del gender sostiene a sua volta riguardo all’identità sessuale. Se la persona è semplicemente il prodotto di una cultura, egli diventa un automa e scompare la sua singolarità. Il gender diventa totalitario nella misura in cui le società occidentali vogliono riorganizzare politicamente la società a partire dalla visione irrealistica degli orientamenti sessuali, come nel caso del “matrimonio” fra persone dello stesso sesso. Eppure l’omosessualità non può essere all’origine né della coppia coniugale, né della famiglia, poiché questa forma di sessualità fra due persone dello stesso sesso non possiede – sul piano psicologico, corporeo e fisiologico – le stesse caratteristiche di quella fondata sull’alterità sessuale, che è condivisa soltanto nel rapporto uomo-donna. E siccome la coppia e la famiglia cosiddette “omosessuali” in senso proprio non esistono, si tratta soprattutto di un artificio e di una corruzione del linguaggio. Con le parole è sempre facile ingannare, dando nomi alla realtà più in funzione dei propri fantasmi che del reale. Ma l’omosessualità è diventata una questione politica per riorganizzare la società a partire da essa. Progressivamente si costituisce in numerosi paesi europei un sistema repressivo sul piano giudiziario per fare ammettere questo nuovo principio. Ciò che è in discussione non sono le persone omosessuali, che devono essere rispettate come tutti i cittadini, ma una volontà militante e politica di fare dell’“omosessualità” una norma che partecipa dell’ordine della coppia e della famiglia. I militanti stessi che si battono per questa causa affermano molto chiaramente che bisogna «aprire il matrimonio a tutti» per meglio distruggerlo, allo scopo di pervenire all’uguaglianza di tutti nelle differenti forme di relazione. Ritroviamo la stessa idea nell’applicazione iniziale del marxismo nei paesi comunisti.
Nei suoi libri lei non teme di affermare che l’omosessualità è una carenza psichica. Può spiegare cosa intende e perché questa sua convinzione non dovrebbe essere ritenuta omofoba?
Nel momento in cui qualcuno si interroga sull’omosessualità e sulla volontà politica di iscriverla nella legge consacrata alle condizioni del matrimonio e della famiglia riservata esclusivamente all’uomo e alla donna, subito viene accusato di tutti i mali, a cominciare dal cliché dell’omofobia. È un modo di imbavagliare l’intelligenza e il discorso, nel momento stesso in cui si afferma continuamente che la libertà di espressione è un “valore” delle società democratiche. Il liberalismo condizionato dal “relativismo etico” è repressivo nelle sue leggi sempre più restrittive tanto quanto lo erano quelle dei paesi totalitari. Si mettono alla gogna certi autori come capri espiatori e si isolano aspetti della vita che è vietato criticare. E tuttavia occorre spiegare da dove viene l’omosessualità. Da quasi due secoli la letteratura psichiatrica e la psicanalisi si interrogano sulle origini dell’omosessualità e sul tipo di psicologia che ne deriva, ma da qualche anno questa riflessione è diventata tabù ed è vietata. Non dovremmo più cercare di capire che cosa sia l’omosessualità e a cosa corrispondano queste pratiche affettive e sessuali, ovvero anche su quali meccanismi e su quali processi psichici riposino. Ma perché non dovremmo studiare questa particolarità della sessualità se non per giustificarla in qualunque modo, mentre osiamo esaminare analiticamente la maggior parte dei comportamenti umani? Quando si impedisce agli specialisti di approfondire una questione siamo in presenza di un riflesso irrazionale che sconfina nell’ideologia totalitaria. Da 40 anni studio questo fenomeno e ho pubblicato numerosi libri e articoli sulla questione. Ho esaminato le differenti ipotesi neurologiche, ormonali e genetiche, che non risultano conclusive, e sono giunto alle origini psichiche. Effettivamente, le pulsioni sessuali all’inizio della vita psichica sono sparpagliate sul corpo del bambino; esse non sono ancora finalizzate se non cercando la propria soddisfazione per se stesse. Progressivamente il soggetto le lavorerà psicologicamente sulla base delle esperienze che vive a partire dal suo corpo, poiché tutto parte dal corpo, per quanto riguarda lo sviluppo della sua vita psichica. A partire da queste pulsioni, elaborerà un sistema di rappresentazioni psichiche che permetterà di integrarle attraverso diverse tappe al fine di pervenire progressivamente all’alterità sessuale. È grazie, fra le altre cose, alla bisessualità psichica (una nozione spesso mal compresa) che il bambino prima e l’adolescente poi interiorizzeranno la persona dell’altro sesso, cosa che gli permette l’accettazione dell’altro sesso e l’accesso ad esso. Persone che si fissano in pratiche bisessuali hanno spesso fallito, in parte o completamente, questo passaggio. Nello stesso modo in cui persone transessuali s’immaginano, a volte con molte sofferenze, che la natura si è sbagliata dando loro un corpo nel quale esse non si riconoscono. Non è la natura che si è sbagliata, cosa che presupporrebbe una visione dualista dove il corpo è opposto allo spirito, ma è soprattutto il soggetto che non è riuscito ad accettare e a interiorizzare il suo proprio corpo in seguito a problemi di identificazione inconscia. Questo significa che, a differenza del mondo animale, le pulsioni sessuali umane presentano una relativa plasticità e che possono essere elaborate e armonizzate nella vita psichica più o meno bene. In conclusione, le pulsioni sono l’oggetto di un lavoro interno che, se tutto va per il meglio, si articola nella personalità con l’accettazione intima dell’altro sesso e una reale attrazione verso di esso. Allorché il soggetto si fissa su una pulsione sessuale come quella della curiosità nei riguardi del suo proprio sesso (stadio fallico) o su di una identificazione primaria alla persona identica a lui, si verifica il rischio di indirizzarsi verso l’omosessualità. Si osserva tuttavia anche il caso di persone che hanno vissuto nel corso della loro esistenza una tappa di pratiche omosessuali, finalizzate a confortare la loro identità, per indirizzarsi in seguito verso l’attrazione per le persone del sesso opposto. Possono esserci origini psichiche diverse e varie dell’omosessualità, che dipendono dalle rappresentazioni pulsionali del soggetto. È vero che le condizioni ambientali della società odierna sono molto narcisistiche, perciò la cultura attuale non sempre facilita le operazioni necessarie alla maturazione affettiva che permette di iscriversi nell’alterità sessuale. Quanto alla questione dell’omofobia, sulla quale torneremo, non è un argomento serio! È uno slogan inventato dai militanti per intimidire e colpevolizzare gli altri rimproverando loro di avere paura dell’omosessualità. Che idea! Chi ne ha paura? Questo modo di maneggiare l’isterizzazione della paura incollando il termine “fobia” a diverse parole per designare un nemico potenziale è certamente un sintomo paranoico di un disturbo identitario. Siamo in piena identificazione proiettiva quando dei militanti attribuiscono agli altri quella che non è altro che la loro propria paura delle persone dell’altro sesso. È una forma di terrorismo intellettuale che vuole impedirci di riflettere su che cosa sia l’omosessualità e sulle conseguenze di voler organizzare la società in funzione di essa. Ancora peggio, si creano una polizia del pensiero e una censura per obbligare tutti a pensare come vogliono i gruppi di militanti. Sotto questo aspetto il liberalismo va a braccetto col marxismo, nel momento in cui come esso vuole instaurare una repressione quasi giudiziaria sul pensiero e sulla sua espressione. Ci vogliono imporre delle nuove norme che sono più oppressive e limitative della libertà che non la nostra riflessione antropologica e i nostri riferimenti morali. I quali invece risvegliano e rispettano la libertà della persona.
A quelli che sostengono che la legalizzazione del matrimonio fra persone dello stesso sesso danneggerebbe la società, viene risposto che 1) l’Antica Grecia permetteva l’omosessualità e la pedofilia nella vita privata, e questo non causava danni alla società; 2) non fa nessun male alla società istituire il matrimonio fra persone dello stesso sesso, come dimostra il fatto che le legislazioni sono già evolute in questa direzione in molti paesi, dall’Europa del Nord all’America. Lei cosa risponde?
Non ha senso il raffronto con la Grecia antica, perché i contesti sono diversi. L’omosessualità è sempre esistita ed esisterà sempre. Nella storia ha assunto forme diverse e riguarda la vita privata. Non ha senso creare delle istituzioni a partire da essa come si vuole fare oggi con la coppia, il matrimonio e la famiglia. In questo modo si crea un disturbo dannoso per la società, facendola entrare nella confusione dei sessi e della filiazione, e nella negazione della differenza sessuale. È falso sostenere che la Grecia antica permetteva l’omosessualità e la pedofilia nel senso in cui le intendiamo noi oggi. L’una e l’altra erano relative a certe condizioni. È tuttavia dimostrato che le nozioni di “eterosessuale” e di “omosessuale” non esistevano all’epoca, soltanto erano riconosciute le qualità: la bellezza della persona che si desiderava e l’attrazione nei suoi confronti. In tal senso potevano svilupparsi relazioni di questo tipo, in particolare fra uomini che pure erano sposati e padri di famiglia. Ma non se ne faceva un principio né un’esigenza sociale iscritta nella legge civile, che regolava solamente la coppia formata da un uomo e da una donna.
Nell’Antichità greco-romana il “matrimonio” omosessuale e l’adozione di figli non sono mai stati oggetto di rivendicazione. Nella letteratura vengono solamente descritti riti di passaggio di giovani guerrieri, in particolare presso i galli e presso i greci, sotto la direzione di adulti maschi allo scopo di creare dei buoni soldati (vedi Marrou/Rouche,Histoire de l’éducation). Così Plutarco nella sua Vita di Pelopida non ha mancato di esaltare il coraggio fisico della legione tebana, composta da 300 amanti omosessuali che perirono tutti nella battaglia di Cheronea (338 a.C.) per non apparire indegni ciascuno del suo amante. Ma nessuno di loro, ripeto, pretendeva il matrimonio e l’adozione di bambini, per la semplice ragione che attraverso i riti di iniziazione avevano generato degli uomini e dei guerrieri, una cosa di cui le donne non erano capaci. Questa omosessualità rituale era un modo di regolazione della vita adulta per formare degli uomini che venivano aperti alla loro mascolinità, fino al punto di avere delle relazioni intime con loro. E la pedofilia, in quanto istituzione pedagogica, era una fase provvisoria prima e durante la pubertà che iniziava il ragazzo alla sua virilità ed era un modo di farlo uscire dal mondo delle donne. Ma questa fase era transitoria e non doveva durare. Se essa continuava, le leggi di Atene tolleravano, ma a volte anche sanzionavano la pedofilia e l’omosessualità, ed è per questo che Socrate è stato condannato. La riprovazione generale, che si esprimeva anche attraverso il disprezzo e l’irrisione, era a volte sanzionata con una condanna legale. A Roma l’omosessualità era relativamente tollerata nella relazione schiavo-padrone, poiché si trattava di una relazione di dominazione che non era accettata fra cittadini romani. Ma anche in questo caso, Seneca e il suo atleta di servizio erano ridicolizzati, una volta trascorso il tempo dell’iniziazione del giovane adulto. In realtà queste pratiche erano, anche là, talvolta represse e tal altra tollerate. Siamo passati da una forma di omosessualità e di pedofilia che erano dei riti di iniziazione per liberare il ragazzo e a volta la ragazza dall’universo materno, a una rivendicazione sociale che vuole iscriverla nella legge e formare una «coppia» e una «famiglia». Ciò che era impensabile e che lo rimane.
Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, non è perché qualche paese autorizza il matrimonio e l’adozione da parte di persone omosessuali che ciò non fa più problema. Al contrario, il fatto di stravolgere il senso del matrimonio è una negazione della differenza sessuale e una grossa trasgressione che altera il legame sociale. Ciò ha per conseguenza di rendere la legge civile meno credibile e meno rispettabile, e i responsabili politici meno stimabili perché la legge non si fonda più su delle realtà oggettive ma su delle esigenze soggettive; cosa che accentua la violenza nella società. Non bisogna trascurare il fatto che il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso è una vera aggressione, per non dire uno stupro, di ciò che il matrimonio rappresenta. È un modo di disprezzare i cittadini e il bene comune dell’umanità riguardo all’alleanza fra un uomo e una donna.
Secondo studi seri effettuati negli Usa su una larga platea di soggetti, e non di natura militante come quelli realizzati da associazioni gay, i risultati indicano che i figli che vivono con degli adulti omosessuali presentano diversi disturbi psichici come l’ansietà, difficoltà relazionali coi loro pari, problemi di concentrazione e soprattutto soffrono una contraddizione fra l’esercizio della sessualità di questi adulti e l’origine del loro concepimento e della loro nascita. A lungo termine, essi provano un profondo malessere perché manca loro sia la dimensione materna, sia la dimensione paterna, il che rappresenta un costo psichico decisivo rispetto alla necessità di unificarsi e trovare la coerenza del proprio sé. Non basta nascondere questi problemi attraverso l’idea puramente sentimentale che «l’importante è amare e sapersi amati». Qui si tratta di un amore che non è della stessa natura di quello che c’è fra un padre e una madre. Il bambino ha bisogno di essere collocato nelle condizioni relazionali che sono quelle del rapporto fra un uomo e una donna, il che non avviene nel caso dell’omosessualità. La relazione in forma specchiata fra il sé e il simile non ha niente in comune con una relazione fondata sull’alterità sessuale. La società sbaglia strada imboccando questa direzione per quanto riguarda questi bambini che saranno vittime della ricerca di gratificazione di adulti che vogliono apparire uguali agli altri, mentre non si trovano nelle condizioni di essere veri genitori. È solo un modo per sentirsi accettati dagli altri, nel momento in cui alcuni di loro non riescono ad accettarsi veramente. La società gioca all’apprendista stregone sulle spalle dei bambini e delle generazioni future, aprendo loro un avvenire fatto di oscurità e di incoerenza. D’altra parte è per queste ragioni che le offerte di adozioni nel mondo crollano, poiché la maggior parte dei paesi che offrivano questa possibilità a uomini e donne sposati, rifiutano attualmente di affidare dei bambini a cittadini provenienti da paesi che hanno legalizzato il matrimonio fra persone dello stesso sesso.
Lei definisce la nostra una “democrazia emotiva”? Quali evoluzioni prevede per essa?
Effettivamente ci troviamo in una “democrazia emotiva” caratterizzata dalla manipolazione della comunicazione politica, che può condizionare le folle tanto più facilmente in quanto le nostre società mancano di radicamento culturale e morale. L’identificazione delle masse coi messaggi dei mass-media è impressionante e non manca di diventare inquietante: certi media come la televisione sono diventati dei cervelli ausiliari che prendono il potere sullo spirito della gente. Ciascuno reagisce emotivamente ripetendo gli stessi clichés sviluppati dai media senza mai dimostrarsi capace di pensieri personali.
Va aggiunto che le rivendicazioni dei cittadini diventano sempre più soggettive in nome dei “diritti individuali” e degli interessi particolari. Al punto che i responsabili politici si ispirano sempre più ai costumi vigenti, ai fantasmi individuali e a quelli sessuali per legiferare, mentre non lo fanno più in funzione del bene comune e delle necessità oggettive. Ora, un fantasma riflette sempre una rappresentazione e un desiderio illusori, che rinviano alle complessità dell’inconscio e non ad un bisogno reale. Noi ci troviamo in un sistema che risponde alle emozioni primarie spesso tradotte attraverso dei sondaggi e dei movimenti di massa che ci estraniano dalla ragione delle cose. Più la democrazia diventa emotiva (soprattutto grazie all’aiuto della televisione che modella le immagini mentali) e più essa diventa totalitaria, ovvero lo spazio della libertà di pensare e di agire si riduce. Così una rappresentazione teatrale o un film, che non sono altro che produzioni immaginarie senza un rapporto autentico col reale, possono provocare sommovimenti in una società. L’arte della manipolazione raggiunge qui il suo culmine. È interessante vedere come, a partire dal dramma dell’Aids, si è voluto per anni dare un’immagine sempre più idealizzata dell’omosessualità, attraverso diverse sceneggiature messe in scena a teatro, al cinema, nelle serie televisive e nei romanzi. Il nemico della democrazia è l’emozione senza riflessione razionale. La democrazia si dà le apparenze della libertà di espressione, oggi da tutti rivendicata, ma lo fa per meglio metterle la museruola sulla base del pensiero dominante. Siamo liberi per giustificare e diffondere le idee che corrispondono allo spirito del tempo, ma il primo che assume un atteggiamento critico è sistematicamente privato della parola. Per esempio il dibattito sull’omosessualità diventa sempre più difficile, perché molto spesso vengono esclusi dalla discussione tutti coloro che non pensano secondo i clichés dominanti. Ci sono specialisti che non osano più esprimersi su queste questioni per paura del linciaggio mediatico, del processo per reato d’opinione e delle voci calunniose. A causa di ciò scambi più autentici hanno talvolta luogo dentro a universi catacombali come le conferenze pubbliche e le reti sociali, dove la censura non si impone e al di fuori dei media tradizionali, che filtrano e sceneggiano gli avvenimenti. Allo stesso modo diventa sempre più malsano avere dei rappresentanti politici che, per mantenersi al potere, finiscono per rinunciare alle loro convinzioni e diventano dipendenti dai costumi e dalle ideologie alla moda, senza esercitare il minimo discernimento intellettuale e morale. Essi navigano sulle idee del momento senza disporre di un sapere solido e di una vera colonna vertebrale del pensiero. A causa di ciò, prima dicono una cosa e qualche anno dopo affermano il contrario. Le nostre democrazie dovrebbero fondarsi di più su eletti della società civile che hanno una visione chiara del bene comune, e non su dei professionisti della politica che navigano a vista per legiferare come fanno oggi, secondo i costumi in voga. Bisognerebbe senz’altro non concedere più di due mandati quinquennali a ciascun eletto.
Nel suo ultimo libro lei scrive che «le personalità contemporanee sono povere e prive di risorse a causa di una carenza nell’educazione». Ma sostiene anche che non basta educare bensì occorre opporsi alle leggi ingiuste come hanno fatto i sostenitori della Manif Pour Tous in Francia. Perché?
Le personalità contemporanee sono marchiate da una crisi dell’interiorità e della trasmissione. Noi produciamo dei soggetti relativamente impulsivi che non hanno radicamento nella storia e li illudiamo che noi non sappiamo niente, che non abbiamo imparato niente e che bisogna ripartire da zero. Li rendiamo fragili e li facciamo regredire facendo loro credere, nella visione dell’onnipotenza narcisistica, che si può creare tutto, compreso il sesso che sarebbe lasciato alla libera scelta di ciascuno. Ora, l’identità sessuale non si crea: si riceve. Essa deve essere accettata e integrata nella propria vita psichica, non si può immaginare che la si possa costruire o che ci si possa dare un’altra identità secondo dei desideri immaginari. Nello stesso modo, l’educazione che lascia il ragazzo abbandonato a se stesso per scoprire i saperi attraverso i mezzi tecnologici contemporanei non lo aiuta a imparare sviluppando la sua memoria. Gli adulti talvolta fanno fatica a presentarsi come adulti di fronte a dei bambini e a degli adolescenti e ad esercitare l’autorità per iniziarli al senso delle cose e dare loro il senso dei limiti che permettono lo sviluppo della libertà. L’alcolizzazione dei giovani, l’uso di droghe e le dipendenze di tutti i tipi, a cominciare dai telefoni cellulari e internet, sono il sintomo di personalità che non sono psicologicamente autonome e che mancano di risorse interiori. Non educate al discernimento, esse funzionano in base al ritmo delle emozioni e dei clichés, in particolare sui problemi della società come quelli del rifiuto del matrimonio, della banalizzazione del divorzio e dell’omosessualità. Sono stato uno dei primi a dirlo negli anni Novanta e nel primo decennio del nuovo secolo, e ho constatato che i miei studi e i miei concetti sono stati ripresi largamente dai membri della Manif pour tous. Sì, bisogna opporsi alle leggi ingiuste perché esse sono contrarie al bene comune. Così per esempio voler sposare due persone dello stesso sesso è una corruzione del senso del matrimonio. Quest’ultimo è anzitutto il quadro dell’alleanza fra l’uomo e la donna in base all’alleanza dei sessi. Non si tratta anzitutto di una questione religiosa, ma di una questione antropologica che non è nella disponibilità del legislatore, poiché la coppia coniugale e la famiglia precedono lo Stato. Il matrimonio è riservato all’uomo e alla donna perché permette di associare e di riconoscere giuridicamente l’alleanza che si contrae fra due persone di sesso differente. Il matrimonio non è il riconoscimento dei sentimenti fra due persone, altrimenti ci si potrebbe sposare in qualunque condizione, ma la constatazione e la registrazione della volontà di un uomo e di una donna di fondare una comunità di vita e una famiglia. Non c’è alcuna dimensione coniugale e familiare nell’omosessualità. Assistiamo al furto degli attributi e dei simboli che appartengono all’unione di un uomo e di una donna per estenderli a un duo di persone dello stesso sesso, cosa che è inappropriata e che rappresenta un’illusione nel senso psicanalitico del termine.
Pare di capire che lei consideri un errore accettare leggi “di compromesso” come le unioni civili, che in Francia si chiamano Pacs. Perché?
I Pacs sono un’ipocrisia e un errore nel senso che si tratta di un matrimonio di serie B dotato della maggior parte dei benefici del matrimonio, eccetto il riconoscimento automatico della filiazione e dell’adozione. L’opinione pubblica è stata convinta ad accettare i Pacs come un male minore, mentre essi implicavano l’avvento prossimo del matrimonio fra due persone dello stesso sesso. Per contro, si sarebbe potuto prevedere nella legge un “Contratto di associazione di beni” aperto a tutti i cittadini senza distinzione, con certi vantaggi fiscali; soprattutto in materia di possesso di beni e di eredità.
Coi Pacs si è cominciato a confondere la realtà del matrimonio, cosa che ci ha portato oggi alla confusione e alla svalutazione del matrimonio fondato sulla differenza dei sessi. I Pacs sono fatti su misura per l’instabilità relazionale e per l’immaturità affettiva dell’epoca attuale. Si può anche ipotizzare che a partire dal momento in cui il matrimonio è aperto a persone omosessuali, si rischia che la gente non voglia più sposarsi perché l’immagine del matrimonio è così confusa e contraddittoria. Di più, è interessante notare che nella maggior parte dei paesi che hanno permesso il matrimonio fra persone dello stesso sesso, questi matrimoni diminuiscono anno dopo anno, fino a diventare inesistenti.
Detto in altre parole, abbiamo sconvolto il codice civile per far scomparire i termini uomo e donna, sposo e sposa, padre e madre, snaturando il matrimonio nell’interesse di un’infima minoranza di persone ed ecco che in questo campo di rovine della bella realtà del matrimonio ci troviamo nella confusione dei sentimenti e delle identità che hanno delle ripercussioni sulla vita affettiva e sessuale delle giovani generazioni. Da una parte fanno fatica ad accedere al senso dell’impegno matrimoniale, dall’altra sviluppano una vita affettiva e sessuale frammentata, sempre più dipendente da pulsioni sparse, in nome del primato degli orientamenti sessuali. È anche il caso della pornografia: anziché includere la vita sessuale nella dimensione relazionale della vita affettiva, si persegue un condizionamento pavloviano molto inquietante, nel quale l’erotismo personale scompare e bisogna semplicemente ripetere quello che si è visto, dimostrando un’attitudine mimetica primitiva. Per esempio il film “Cinquanta sfumature di grigio” incita le giovani donne a tornare a casa e a ripetere le stesse scene pornografiche (è quello che alcune dicono all’uscita dal cinema). Allo stesso modo, i Pacs e il matrimonio fra persone dello stesso sesso hanno un impatto sulla rappresentazione sociale della sessualità.
Cosa possiamo fare per i bambini, ai quali in Occidente si vuole imporre la teoria del gender sin dalla più tenera età? Cioè l’accettazione dell’indifferenza sessuale e del fatto che al posto di un padre e di una madre possano esserci due padri o due madri, e che tutto questo debba essere considerato giusto, democratico ed egalitario? Cosa si può fare, considerato che ovunque si sta cercando di istituire delle pene per quanti rifiutano questa ideologia? In Germania si rischia la prigione se non si mandano i figli ai corsi di educazione sessuale centrati sulla teoria del gender, in Italia sta per essere approvata una legge che punirà, in nome della lotta contro l’omofobia, tutti coloro che si esprimono pubblicamente in base alla terminologia della famiglia tradizionale e in base alle categorie della differenza dei sessi.
Bisogna proteggere i bambini e rifiutare che vengano sottoposti a un condizionamento, perché non esistono la famiglia tradizionale e la famiglia moderna o nuova, ma soltanto la famiglia costruita attorno a un padre e a una madre. Altrimenti smarriamo la razionalità e il senso della realtà. Effettivamente a partire dalla scuola materna si insegna ai bambini che esistono varie forme di famiglia. È successo che una bambina di tre anni, uscendo dalla scuola, abbia chiesto a sua madre perché lei non convivesse con una donna, perché aveva appena sentito dire che si possono avere due padri o due madri. Una cosa che è una menzogna sociale e un errore strutturale e antropologico. Un sistema ideologico nel quale si confonde ciò che è una famiglia fondata da un uomo e da una donna con diverse situazioni particolari che non partecipano alla definizione di famiglia. Ma che si vorrebbero trasformare in realtà normate alla pari delle altre. Questo è uno degli effetti della teoria del gender che vuole mettere tutti su di un piano di uguaglianza in nome dell’identità di genere che ciascuno si dà da sé e degli orientamenti sessuali. Qui ci troviamo al cuore di un totalitarismo che si manifesta sempre con lo stesso metodo, come nel caso del marxismo:
1. Si comincia col sottrarre i bambini all’influenza dei genitori per inculcare loro una visione nuova della sessualità e della famiglia.
2. Li si costringe a pensare al di fuori dalla realtà prevalente (la grande maggioranza delle persone vivono e si organizzano nella differenza sessuale e attorno alla differenza sessuale).
3. Si introducono delle leggi col pretesto di proteggere delle minoranze.
4. Si approfitta di fatti veri o inesistenti per istituire una legislazione repressiva.
5. Si applica una repressione giudiziaria che corrisponde a una vera polizia del pensiero.
6. Si crea così la paura e si ottiene che i cittadini pensino sulla base di “buone” idee e agiscono sulla base di “buone” pratiche. Altrimenti vanno in prigione.
Queste idee cominciano ad essere interiorizzate da cristiani che non capiscono la posta in gioco. Quando si sveglieranno, sarà troppo tardi. Abbiamo sperimentato questo errore di valutazione col marxismo, che ha influenzato certi membri della Chiesa, adesso rifacciamo lo stesso errore con l’ideologia del gender e con l’omosessualità.
In realtà ciò che in questione non è la persona dell’omosessuale, che deve essere sempre rispettata, ma il fatto di voler fare dell’omosessualità un principio politico a partire dal quale si ridefinisce la società attraverso la coppia, il matrimonio e la famiglia. Questa è una contraddizione, poiché l’omosessualità non è alla base di queste realtà e non può essere all’origine di istituzioni di cui la società ha bisogno per durare nella storia. Bisogna porsi la domanda in modo realistico: a partire da quale tipo di sessualità la società si fonda, si organizza, dura nel tempo e contribuisce alla sua storia?
In occasione del suo viaggio apostolico in Asia, papa Francesco ha detto il 16 gennaio 2015, in occasione dell’incontro con le famiglie a Manila: «C’è un colonialismo ideologico che cerca di distruggere la famiglia. Ogni minaccia contro la famiglia è una minaccia contro la società». In tal modo ha messo in discussione i concetti di genere che mirano all’indistinzione sessuale e il matrimonio fra persone dello stesso sesso, che non ha niente a che fare col senso della vita coniugale e familiare. È per questo che non si può trattare la questione dell’omosessualità nello stesso modo sul piano individuale e su quello sociale, imponendo a partire da essa delle istituzioni sociali di cui essa non può essere all’origine, come la vita coniugale e familiare.
Traduzione di Rodolfo Casadei
http://www.tempi.it/eresia-antropologica-del-totalitarismo-gender#.VPdDrfmG-YI
Professor Anatrella, da tempo lei parla della teoria del gender come di una ideologia totalitaria e ha scritto che, come il marxismo nel secolo scorso, il gender sarebbe diventato il campo di battaglia di questo secolo. Non è eccessivo?
Anzitutto non bisogna confondere gli studi di genere che analizzano le relazioni fra gli uomini e le donne nella società nelle diverse aree culturali al fine di pervenire a un migliore rispetto della loro dignità, uguaglianza e vocazione rispettiva, con la teoria del genere, ispirata a diverse correnti di pensiero. Ma anche lo studio sociologico, che di per sé è semplicemente un metodo di osservazione, diventa un’ideologia quando afferma una “parità totale” fra uomo e donna, poiché la “parità” non è l’“uguaglianza”. Si vorrebbe far credere, in base a una visione puramente contabile della relazione, che i due sono intercambiabili. Ora, se è vero che a parità di competenze un uomo e una donna possono esercitare le stesse responsabilità, il problema è che si vuole far credere che psicologicamente e socialmente l’uomo e la donna sono identici. Eppure uomo e donna non possono assumere sistematicamente gli stessi compiti, né gli stessi simbolici, a cominciare da quelli della maternità e della paternità. Questa prospettiva egualitarista ha falsato e complicato le relazioni fra i due sessi e spiega in parte – anche se non è l’unica ragione – perché le relazioni all’interno della coppia sono diventate difficili e perché molti non vogliano più sposarsi o abbiano paura del matrimonio. Sociologicamente si è sempre constatato un fenomeno ricorrente nella storia: quando le donne entrano in massa in un settore di attività, gli uomini se ne vanno. Così l’insegnamento, la medicina e la giustizia si femminilizzano sempre più, mentre gli uomini si orientano verso altri mestieri. Ma l’ideologia di genere si spinge ancora più in là, affermando che il corpo sessuato non ha alcuna importanza nello sviluppo psicologico. In realtà la psicologia di ciascuno di noi si sviluppa nella misura in cui avviene l’interiorizzazione del suo corpo sessuato. I diversi autori che condividono l’ideologia del gender sostengono anche che bisogna pensare diversamente la sessualità e l’organizzazione della società: non bisogna più definire la sessualità a partire dalle due sole identità sessuali che esistono, quelle dell’uomo e della donna, perché secondo loro ciò è iniquo, ma a partire dagli orientamenti sessuali come l’eterosessualità, l’omosessualità, la bisessualità, la transessualità, ecc. In questo modo tutti si troverebbero in condizioni di uguaglianza, mentre se ci si riferisce unicamente all’identità di uomo e donna si escludono altre “forme” di sessualità. Come si fa a non vedere che questa prospettiva è contraria al dato di realtà? Nella realtà, l’identità sessuale riguarda l’essere della persona, mentre gli orientamenti sessuali riguardano le pulsioni sessuali. Se tutto va per il verso giusto queste ultime si elaborano e si integrano nella personalità a partire dall’identità oggettiva del soggetto, mentre le pulsioni ricercate per se stesse attraverso un tipo di orientamento si isolano dalla personalità e la mantengono nell’immaturità affettiva e in una relativa impulsività mai soddisfatte. Ciò sfocia in personalità non unificate e instabili. Detto in altre parole, prendere in considerazione gli orientamenti sessuali per definire la sessualità, cioè pensare che la differenza delle sessualità deve sostituire la differenza sessuale, che si fonda sull’uomo e sulla donna, è distruttivo come lo era il marxismo. Per settant’anni le società sono state dominate dalla cecità di fronte a questa ideologia fondata su una pseudo-uguaglianza e sulla convinzione che l’essere umano è il prodotto di una cultura: la stessa cosa che la teoria del gender sostiene a sua volta riguardo all’identità sessuale. Se la persona è semplicemente il prodotto di una cultura, egli diventa un automa e scompare la sua singolarità. Il gender diventa totalitario nella misura in cui le società occidentali vogliono riorganizzare politicamente la società a partire dalla visione irrealistica degli orientamenti sessuali, come nel caso del “matrimonio” fra persone dello stesso sesso. Eppure l’omosessualità non può essere all’origine né della coppia coniugale, né della famiglia, poiché questa forma di sessualità fra due persone dello stesso sesso non possiede – sul piano psicologico, corporeo e fisiologico – le stesse caratteristiche di quella fondata sull’alterità sessuale, che è condivisa soltanto nel rapporto uomo-donna. E siccome la coppia e la famiglia cosiddette “omosessuali” in senso proprio non esistono, si tratta soprattutto di un artificio e di una corruzione del linguaggio. Con le parole è sempre facile ingannare, dando nomi alla realtà più in funzione dei propri fantasmi che del reale. Ma l’omosessualità è diventata una questione politica per riorganizzare la società a partire da essa. Progressivamente si costituisce in numerosi paesi europei un sistema repressivo sul piano giudiziario per fare ammettere questo nuovo principio. Ciò che è in discussione non sono le persone omosessuali, che devono essere rispettate come tutti i cittadini, ma una volontà militante e politica di fare dell’“omosessualità” una norma che partecipa dell’ordine della coppia e della famiglia. I militanti stessi che si battono per questa causa affermano molto chiaramente che bisogna «aprire il matrimonio a tutti» per meglio distruggerlo, allo scopo di pervenire all’uguaglianza di tutti nelle differenti forme di relazione. Ritroviamo la stessa idea nell’applicazione iniziale del marxismo nei paesi comunisti.
Nei suoi libri lei non teme di affermare che l’omosessualità è una carenza psichica. Può spiegare cosa intende e perché questa sua convinzione non dovrebbe essere ritenuta omofoba?
Nel momento in cui qualcuno si interroga sull’omosessualità e sulla volontà politica di iscriverla nella legge consacrata alle condizioni del matrimonio e della famiglia riservata esclusivamente all’uomo e alla donna, subito viene accusato di tutti i mali, a cominciare dal cliché dell’omofobia. È un modo di imbavagliare l’intelligenza e il discorso, nel momento stesso in cui si afferma continuamente che la libertà di espressione è un “valore” delle società democratiche. Il liberalismo condizionato dal “relativismo etico” è repressivo nelle sue leggi sempre più restrittive tanto quanto lo erano quelle dei paesi totalitari. Si mettono alla gogna certi autori come capri espiatori e si isolano aspetti della vita che è vietato criticare. E tuttavia occorre spiegare da dove viene l’omosessualità. Da quasi due secoli la letteratura psichiatrica e la psicanalisi si interrogano sulle origini dell’omosessualità e sul tipo di psicologia che ne deriva, ma da qualche anno questa riflessione è diventata tabù ed è vietata. Non dovremmo più cercare di capire che cosa sia l’omosessualità e a cosa corrispondano queste pratiche affettive e sessuali, ovvero anche su quali meccanismi e su quali processi psichici riposino. Ma perché non dovremmo studiare questa particolarità della sessualità se non per giustificarla in qualunque modo, mentre osiamo esaminare analiticamente la maggior parte dei comportamenti umani? Quando si impedisce agli specialisti di approfondire una questione siamo in presenza di un riflesso irrazionale che sconfina nell’ideologia totalitaria. Da 40 anni studio questo fenomeno e ho pubblicato numerosi libri e articoli sulla questione. Ho esaminato le differenti ipotesi neurologiche, ormonali e genetiche, che non risultano conclusive, e sono giunto alle origini psichiche. Effettivamente, le pulsioni sessuali all’inizio della vita psichica sono sparpagliate sul corpo del bambino; esse non sono ancora finalizzate se non cercando la propria soddisfazione per se stesse. Progressivamente il soggetto le lavorerà psicologicamente sulla base delle esperienze che vive a partire dal suo corpo, poiché tutto parte dal corpo, per quanto riguarda lo sviluppo della sua vita psichica. A partire da queste pulsioni, elaborerà un sistema di rappresentazioni psichiche che permetterà di integrarle attraverso diverse tappe al fine di pervenire progressivamente all’alterità sessuale. È grazie, fra le altre cose, alla bisessualità psichica (una nozione spesso mal compresa) che il bambino prima e l’adolescente poi interiorizzeranno la persona dell’altro sesso, cosa che gli permette l’accettazione dell’altro sesso e l’accesso ad esso. Persone che si fissano in pratiche bisessuali hanno spesso fallito, in parte o completamente, questo passaggio. Nello stesso modo in cui persone transessuali s’immaginano, a volte con molte sofferenze, che la natura si è sbagliata dando loro un corpo nel quale esse non si riconoscono. Non è la natura che si è sbagliata, cosa che presupporrebbe una visione dualista dove il corpo è opposto allo spirito, ma è soprattutto il soggetto che non è riuscito ad accettare e a interiorizzare il suo proprio corpo in seguito a problemi di identificazione inconscia. Questo significa che, a differenza del mondo animale, le pulsioni sessuali umane presentano una relativa plasticità e che possono essere elaborate e armonizzate nella vita psichica più o meno bene. In conclusione, le pulsioni sono l’oggetto di un lavoro interno che, se tutto va per il meglio, si articola nella personalità con l’accettazione intima dell’altro sesso e una reale attrazione verso di esso. Allorché il soggetto si fissa su una pulsione sessuale come quella della curiosità nei riguardi del suo proprio sesso (stadio fallico) o su di una identificazione primaria alla persona identica a lui, si verifica il rischio di indirizzarsi verso l’omosessualità. Si osserva tuttavia anche il caso di persone che hanno vissuto nel corso della loro esistenza una tappa di pratiche omosessuali, finalizzate a confortare la loro identità, per indirizzarsi in seguito verso l’attrazione per le persone del sesso opposto. Possono esserci origini psichiche diverse e varie dell’omosessualità, che dipendono dalle rappresentazioni pulsionali del soggetto. È vero che le condizioni ambientali della società odierna sono molto narcisistiche, perciò la cultura attuale non sempre facilita le operazioni necessarie alla maturazione affettiva che permette di iscriversi nell’alterità sessuale. Quanto alla questione dell’omofobia, sulla quale torneremo, non è un argomento serio! È uno slogan inventato dai militanti per intimidire e colpevolizzare gli altri rimproverando loro di avere paura dell’omosessualità. Che idea! Chi ne ha paura? Questo modo di maneggiare l’isterizzazione della paura incollando il termine “fobia” a diverse parole per designare un nemico potenziale è certamente un sintomo paranoico di un disturbo identitario. Siamo in piena identificazione proiettiva quando dei militanti attribuiscono agli altri quella che non è altro che la loro propria paura delle persone dell’altro sesso. È una forma di terrorismo intellettuale che vuole impedirci di riflettere su che cosa sia l’omosessualità e sulle conseguenze di voler organizzare la società in funzione di essa. Ancora peggio, si creano una polizia del pensiero e una censura per obbligare tutti a pensare come vogliono i gruppi di militanti. Sotto questo aspetto il liberalismo va a braccetto col marxismo, nel momento in cui come esso vuole instaurare una repressione quasi giudiziaria sul pensiero e sulla sua espressione. Ci vogliono imporre delle nuove norme che sono più oppressive e limitative della libertà che non la nostra riflessione antropologica e i nostri riferimenti morali. I quali invece risvegliano e rispettano la libertà della persona.
A quelli che sostengono che la legalizzazione del matrimonio fra persone dello stesso sesso danneggerebbe la società, viene risposto che 1) l’Antica Grecia permetteva l’omosessualità e la pedofilia nella vita privata, e questo non causava danni alla società; 2) non fa nessun male alla società istituire il matrimonio fra persone dello stesso sesso, come dimostra il fatto che le legislazioni sono già evolute in questa direzione in molti paesi, dall’Europa del Nord all’America. Lei cosa risponde?
Non ha senso il raffronto con la Grecia antica, perché i contesti sono diversi. L’omosessualità è sempre esistita ed esisterà sempre. Nella storia ha assunto forme diverse e riguarda la vita privata. Non ha senso creare delle istituzioni a partire da essa come si vuole fare oggi con la coppia, il matrimonio e la famiglia. In questo modo si crea un disturbo dannoso per la società, facendola entrare nella confusione dei sessi e della filiazione, e nella negazione della differenza sessuale. È falso sostenere che la Grecia antica permetteva l’omosessualità e la pedofilia nel senso in cui le intendiamo noi oggi. L’una e l’altra erano relative a certe condizioni. È tuttavia dimostrato che le nozioni di “eterosessuale” e di “omosessuale” non esistevano all’epoca, soltanto erano riconosciute le qualità: la bellezza della persona che si desiderava e l’attrazione nei suoi confronti. In tal senso potevano svilupparsi relazioni di questo tipo, in particolare fra uomini che pure erano sposati e padri di famiglia. Ma non se ne faceva un principio né un’esigenza sociale iscritta nella legge civile, che regolava solamente la coppia formata da un uomo e da una donna.
Nell’Antichità greco-romana il “matrimonio” omosessuale e l’adozione di figli non sono mai stati oggetto di rivendicazione. Nella letteratura vengono solamente descritti riti di passaggio di giovani guerrieri, in particolare presso i galli e presso i greci, sotto la direzione di adulti maschi allo scopo di creare dei buoni soldati (vedi Marrou/Rouche,Histoire de l’éducation). Così Plutarco nella sua Vita di Pelopida non ha mancato di esaltare il coraggio fisico della legione tebana, composta da 300 amanti omosessuali che perirono tutti nella battaglia di Cheronea (338 a.C.) per non apparire indegni ciascuno del suo amante. Ma nessuno di loro, ripeto, pretendeva il matrimonio e l’adozione di bambini, per la semplice ragione che attraverso i riti di iniziazione avevano generato degli uomini e dei guerrieri, una cosa di cui le donne non erano capaci. Questa omosessualità rituale era un modo di regolazione della vita adulta per formare degli uomini che venivano aperti alla loro mascolinità, fino al punto di avere delle relazioni intime con loro. E la pedofilia, in quanto istituzione pedagogica, era una fase provvisoria prima e durante la pubertà che iniziava il ragazzo alla sua virilità ed era un modo di farlo uscire dal mondo delle donne. Ma questa fase era transitoria e non doveva durare. Se essa continuava, le leggi di Atene tolleravano, ma a volte anche sanzionavano la pedofilia e l’omosessualità, ed è per questo che Socrate è stato condannato. La riprovazione generale, che si esprimeva anche attraverso il disprezzo e l’irrisione, era a volte sanzionata con una condanna legale. A Roma l’omosessualità era relativamente tollerata nella relazione schiavo-padrone, poiché si trattava di una relazione di dominazione che non era accettata fra cittadini romani. Ma anche in questo caso, Seneca e il suo atleta di servizio erano ridicolizzati, una volta trascorso il tempo dell’iniziazione del giovane adulto. In realtà queste pratiche erano, anche là, talvolta represse e tal altra tollerate. Siamo passati da una forma di omosessualità e di pedofilia che erano dei riti di iniziazione per liberare il ragazzo e a volta la ragazza dall’universo materno, a una rivendicazione sociale che vuole iscriverla nella legge e formare una «coppia» e una «famiglia». Ciò che era impensabile e che lo rimane.
Per quanto riguarda la seconda parte della domanda, non è perché qualche paese autorizza il matrimonio e l’adozione da parte di persone omosessuali che ciò non fa più problema. Al contrario, il fatto di stravolgere il senso del matrimonio è una negazione della differenza sessuale e una grossa trasgressione che altera il legame sociale. Ciò ha per conseguenza di rendere la legge civile meno credibile e meno rispettabile, e i responsabili politici meno stimabili perché la legge non si fonda più su delle realtà oggettive ma su delle esigenze soggettive; cosa che accentua la violenza nella società. Non bisogna trascurare il fatto che il “matrimonio” fra persone dello stesso sesso è una vera aggressione, per non dire uno stupro, di ciò che il matrimonio rappresenta. È un modo di disprezzare i cittadini e il bene comune dell’umanità riguardo all’alleanza fra un uomo e una donna.
Secondo studi seri effettuati negli Usa su una larga platea di soggetti, e non di natura militante come quelli realizzati da associazioni gay, i risultati indicano che i figli che vivono con degli adulti omosessuali presentano diversi disturbi psichici come l’ansietà, difficoltà relazionali coi loro pari, problemi di concentrazione e soprattutto soffrono una contraddizione fra l’esercizio della sessualità di questi adulti e l’origine del loro concepimento e della loro nascita. A lungo termine, essi provano un profondo malessere perché manca loro sia la dimensione materna, sia la dimensione paterna, il che rappresenta un costo psichico decisivo rispetto alla necessità di unificarsi e trovare la coerenza del proprio sé. Non basta nascondere questi problemi attraverso l’idea puramente sentimentale che «l’importante è amare e sapersi amati». Qui si tratta di un amore che non è della stessa natura di quello che c’è fra un padre e una madre. Il bambino ha bisogno di essere collocato nelle condizioni relazionali che sono quelle del rapporto fra un uomo e una donna, il che non avviene nel caso dell’omosessualità. La relazione in forma specchiata fra il sé e il simile non ha niente in comune con una relazione fondata sull’alterità sessuale. La società sbaglia strada imboccando questa direzione per quanto riguarda questi bambini che saranno vittime della ricerca di gratificazione di adulti che vogliono apparire uguali agli altri, mentre non si trovano nelle condizioni di essere veri genitori. È solo un modo per sentirsi accettati dagli altri, nel momento in cui alcuni di loro non riescono ad accettarsi veramente. La società gioca all’apprendista stregone sulle spalle dei bambini e delle generazioni future, aprendo loro un avvenire fatto di oscurità e di incoerenza. D’altra parte è per queste ragioni che le offerte di adozioni nel mondo crollano, poiché la maggior parte dei paesi che offrivano questa possibilità a uomini e donne sposati, rifiutano attualmente di affidare dei bambini a cittadini provenienti da paesi che hanno legalizzato il matrimonio fra persone dello stesso sesso.
Lei definisce la nostra una “democrazia emotiva”? Quali evoluzioni prevede per essa?
Effettivamente ci troviamo in una “democrazia emotiva” caratterizzata dalla manipolazione della comunicazione politica, che può condizionare le folle tanto più facilmente in quanto le nostre società mancano di radicamento culturale e morale. L’identificazione delle masse coi messaggi dei mass-media è impressionante e non manca di diventare inquietante: certi media come la televisione sono diventati dei cervelli ausiliari che prendono il potere sullo spirito della gente. Ciascuno reagisce emotivamente ripetendo gli stessi clichés sviluppati dai media senza mai dimostrarsi capace di pensieri personali.
Va aggiunto che le rivendicazioni dei cittadini diventano sempre più soggettive in nome dei “diritti individuali” e degli interessi particolari. Al punto che i responsabili politici si ispirano sempre più ai costumi vigenti, ai fantasmi individuali e a quelli sessuali per legiferare, mentre non lo fanno più in funzione del bene comune e delle necessità oggettive. Ora, un fantasma riflette sempre una rappresentazione e un desiderio illusori, che rinviano alle complessità dell’inconscio e non ad un bisogno reale. Noi ci troviamo in un sistema che risponde alle emozioni primarie spesso tradotte attraverso dei sondaggi e dei movimenti di massa che ci estraniano dalla ragione delle cose. Più la democrazia diventa emotiva (soprattutto grazie all’aiuto della televisione che modella le immagini mentali) e più essa diventa totalitaria, ovvero lo spazio della libertà di pensare e di agire si riduce. Così una rappresentazione teatrale o un film, che non sono altro che produzioni immaginarie senza un rapporto autentico col reale, possono provocare sommovimenti in una società. L’arte della manipolazione raggiunge qui il suo culmine. È interessante vedere come, a partire dal dramma dell’Aids, si è voluto per anni dare un’immagine sempre più idealizzata dell’omosessualità, attraverso diverse sceneggiature messe in scena a teatro, al cinema, nelle serie televisive e nei romanzi. Il nemico della democrazia è l’emozione senza riflessione razionale. La democrazia si dà le apparenze della libertà di espressione, oggi da tutti rivendicata, ma lo fa per meglio metterle la museruola sulla base del pensiero dominante. Siamo liberi per giustificare e diffondere le idee che corrispondono allo spirito del tempo, ma il primo che assume un atteggiamento critico è sistematicamente privato della parola. Per esempio il dibattito sull’omosessualità diventa sempre più difficile, perché molto spesso vengono esclusi dalla discussione tutti coloro che non pensano secondo i clichés dominanti. Ci sono specialisti che non osano più esprimersi su queste questioni per paura del linciaggio mediatico, del processo per reato d’opinione e delle voci calunniose. A causa di ciò scambi più autentici hanno talvolta luogo dentro a universi catacombali come le conferenze pubbliche e le reti sociali, dove la censura non si impone e al di fuori dei media tradizionali, che filtrano e sceneggiano gli avvenimenti. Allo stesso modo diventa sempre più malsano avere dei rappresentanti politici che, per mantenersi al potere, finiscono per rinunciare alle loro convinzioni e diventano dipendenti dai costumi e dalle ideologie alla moda, senza esercitare il minimo discernimento intellettuale e morale. Essi navigano sulle idee del momento senza disporre di un sapere solido e di una vera colonna vertebrale del pensiero. A causa di ciò, prima dicono una cosa e qualche anno dopo affermano il contrario. Le nostre democrazie dovrebbero fondarsi di più su eletti della società civile che hanno una visione chiara del bene comune, e non su dei professionisti della politica che navigano a vista per legiferare come fanno oggi, secondo i costumi in voga. Bisognerebbe senz’altro non concedere più di due mandati quinquennali a ciascun eletto.
Nel suo ultimo libro lei scrive che «le personalità contemporanee sono povere e prive di risorse a causa di una carenza nell’educazione». Ma sostiene anche che non basta educare bensì occorre opporsi alle leggi ingiuste come hanno fatto i sostenitori della Manif Pour Tous in Francia. Perché?
Le personalità contemporanee sono marchiate da una crisi dell’interiorità e della trasmissione. Noi produciamo dei soggetti relativamente impulsivi che non hanno radicamento nella storia e li illudiamo che noi non sappiamo niente, che non abbiamo imparato niente e che bisogna ripartire da zero. Li rendiamo fragili e li facciamo regredire facendo loro credere, nella visione dell’onnipotenza narcisistica, che si può creare tutto, compreso il sesso che sarebbe lasciato alla libera scelta di ciascuno. Ora, l’identità sessuale non si crea: si riceve. Essa deve essere accettata e integrata nella propria vita psichica, non si può immaginare che la si possa costruire o che ci si possa dare un’altra identità secondo dei desideri immaginari. Nello stesso modo, l’educazione che lascia il ragazzo abbandonato a se stesso per scoprire i saperi attraverso i mezzi tecnologici contemporanei non lo aiuta a imparare sviluppando la sua memoria. Gli adulti talvolta fanno fatica a presentarsi come adulti di fronte a dei bambini e a degli adolescenti e ad esercitare l’autorità per iniziarli al senso delle cose e dare loro il senso dei limiti che permettono lo sviluppo della libertà. L’alcolizzazione dei giovani, l’uso di droghe e le dipendenze di tutti i tipi, a cominciare dai telefoni cellulari e internet, sono il sintomo di personalità che non sono psicologicamente autonome e che mancano di risorse interiori. Non educate al discernimento, esse funzionano in base al ritmo delle emozioni e dei clichés, in particolare sui problemi della società come quelli del rifiuto del matrimonio, della banalizzazione del divorzio e dell’omosessualità. Sono stato uno dei primi a dirlo negli anni Novanta e nel primo decennio del nuovo secolo, e ho constatato che i miei studi e i miei concetti sono stati ripresi largamente dai membri della Manif pour tous. Sì, bisogna opporsi alle leggi ingiuste perché esse sono contrarie al bene comune. Così per esempio voler sposare due persone dello stesso sesso è una corruzione del senso del matrimonio. Quest’ultimo è anzitutto il quadro dell’alleanza fra l’uomo e la donna in base all’alleanza dei sessi. Non si tratta anzitutto di una questione religiosa, ma di una questione antropologica che non è nella disponibilità del legislatore, poiché la coppia coniugale e la famiglia precedono lo Stato. Il matrimonio è riservato all’uomo e alla donna perché permette di associare e di riconoscere giuridicamente l’alleanza che si contrae fra due persone di sesso differente. Il matrimonio non è il riconoscimento dei sentimenti fra due persone, altrimenti ci si potrebbe sposare in qualunque condizione, ma la constatazione e la registrazione della volontà di un uomo e di una donna di fondare una comunità di vita e una famiglia. Non c’è alcuna dimensione coniugale e familiare nell’omosessualità. Assistiamo al furto degli attributi e dei simboli che appartengono all’unione di un uomo e di una donna per estenderli a un duo di persone dello stesso sesso, cosa che è inappropriata e che rappresenta un’illusione nel senso psicanalitico del termine.
Pare di capire che lei consideri un errore accettare leggi “di compromesso” come le unioni civili, che in Francia si chiamano Pacs. Perché?
I Pacs sono un’ipocrisia e un errore nel senso che si tratta di un matrimonio di serie B dotato della maggior parte dei benefici del matrimonio, eccetto il riconoscimento automatico della filiazione e dell’adozione. L’opinione pubblica è stata convinta ad accettare i Pacs come un male minore, mentre essi implicavano l’avvento prossimo del matrimonio fra due persone dello stesso sesso. Per contro, si sarebbe potuto prevedere nella legge un “Contratto di associazione di beni” aperto a tutti i cittadini senza distinzione, con certi vantaggi fiscali; soprattutto in materia di possesso di beni e di eredità.
Coi Pacs si è cominciato a confondere la realtà del matrimonio, cosa che ci ha portato oggi alla confusione e alla svalutazione del matrimonio fondato sulla differenza dei sessi. I Pacs sono fatti su misura per l’instabilità relazionale e per l’immaturità affettiva dell’epoca attuale. Si può anche ipotizzare che a partire dal momento in cui il matrimonio è aperto a persone omosessuali, si rischia che la gente non voglia più sposarsi perché l’immagine del matrimonio è così confusa e contraddittoria. Di più, è interessante notare che nella maggior parte dei paesi che hanno permesso il matrimonio fra persone dello stesso sesso, questi matrimoni diminuiscono anno dopo anno, fino a diventare inesistenti.
Detto in altre parole, abbiamo sconvolto il codice civile per far scomparire i termini uomo e donna, sposo e sposa, padre e madre, snaturando il matrimonio nell’interesse di un’infima minoranza di persone ed ecco che in questo campo di rovine della bella realtà del matrimonio ci troviamo nella confusione dei sentimenti e delle identità che hanno delle ripercussioni sulla vita affettiva e sessuale delle giovani generazioni. Da una parte fanno fatica ad accedere al senso dell’impegno matrimoniale, dall’altra sviluppano una vita affettiva e sessuale frammentata, sempre più dipendente da pulsioni sparse, in nome del primato degli orientamenti sessuali. È anche il caso della pornografia: anziché includere la vita sessuale nella dimensione relazionale della vita affettiva, si persegue un condizionamento pavloviano molto inquietante, nel quale l’erotismo personale scompare e bisogna semplicemente ripetere quello che si è visto, dimostrando un’attitudine mimetica primitiva. Per esempio il film “Cinquanta sfumature di grigio” incita le giovani donne a tornare a casa e a ripetere le stesse scene pornografiche (è quello che alcune dicono all’uscita dal cinema). Allo stesso modo, i Pacs e il matrimonio fra persone dello stesso sesso hanno un impatto sulla rappresentazione sociale della sessualità.
Cosa possiamo fare per i bambini, ai quali in Occidente si vuole imporre la teoria del gender sin dalla più tenera età? Cioè l’accettazione dell’indifferenza sessuale e del fatto che al posto di un padre e di una madre possano esserci due padri o due madri, e che tutto questo debba essere considerato giusto, democratico ed egalitario? Cosa si può fare, considerato che ovunque si sta cercando di istituire delle pene per quanti rifiutano questa ideologia? In Germania si rischia la prigione se non si mandano i figli ai corsi di educazione sessuale centrati sulla teoria del gender, in Italia sta per essere approvata una legge che punirà, in nome della lotta contro l’omofobia, tutti coloro che si esprimono pubblicamente in base alla terminologia della famiglia tradizionale e in base alle categorie della differenza dei sessi.
Bisogna proteggere i bambini e rifiutare che vengano sottoposti a un condizionamento, perché non esistono la famiglia tradizionale e la famiglia moderna o nuova, ma soltanto la famiglia costruita attorno a un padre e a una madre. Altrimenti smarriamo la razionalità e il senso della realtà. Effettivamente a partire dalla scuola materna si insegna ai bambini che esistono varie forme di famiglia. È successo che una bambina di tre anni, uscendo dalla scuola, abbia chiesto a sua madre perché lei non convivesse con una donna, perché aveva appena sentito dire che si possono avere due padri o due madri. Una cosa che è una menzogna sociale e un errore strutturale e antropologico. Un sistema ideologico nel quale si confonde ciò che è una famiglia fondata da un uomo e da una donna con diverse situazioni particolari che non partecipano alla definizione di famiglia. Ma che si vorrebbero trasformare in realtà normate alla pari delle altre. Questo è uno degli effetti della teoria del gender che vuole mettere tutti su di un piano di uguaglianza in nome dell’identità di genere che ciascuno si dà da sé e degli orientamenti sessuali. Qui ci troviamo al cuore di un totalitarismo che si manifesta sempre con lo stesso metodo, come nel caso del marxismo:
1. Si comincia col sottrarre i bambini all’influenza dei genitori per inculcare loro una visione nuova della sessualità e della famiglia.
2. Li si costringe a pensare al di fuori dalla realtà prevalente (la grande maggioranza delle persone vivono e si organizzano nella differenza sessuale e attorno alla differenza sessuale).
3. Si introducono delle leggi col pretesto di proteggere delle minoranze.
4. Si approfitta di fatti veri o inesistenti per istituire una legislazione repressiva.
5. Si applica una repressione giudiziaria che corrisponde a una vera polizia del pensiero.
6. Si crea così la paura e si ottiene che i cittadini pensino sulla base di “buone” idee e agiscono sulla base di “buone” pratiche. Altrimenti vanno in prigione.
Queste idee cominciano ad essere interiorizzate da cristiani che non capiscono la posta in gioco. Quando si sveglieranno, sarà troppo tardi. Abbiamo sperimentato questo errore di valutazione col marxismo, che ha influenzato certi membri della Chiesa, adesso rifacciamo lo stesso errore con l’ideologia del gender e con l’omosessualità.
In realtà ciò che in questione non è la persona dell’omosessuale, che deve essere sempre rispettata, ma il fatto di voler fare dell’omosessualità un principio politico a partire dal quale si ridefinisce la società attraverso la coppia, il matrimonio e la famiglia. Questa è una contraddizione, poiché l’omosessualità non è alla base di queste realtà e non può essere all’origine di istituzioni di cui la società ha bisogno per durare nella storia. Bisogna porsi la domanda in modo realistico: a partire da quale tipo di sessualità la società si fonda, si organizza, dura nel tempo e contribuisce alla sua storia?
In occasione del suo viaggio apostolico in Asia, papa Francesco ha detto il 16 gennaio 2015, in occasione dell’incontro con le famiglie a Manila: «C’è un colonialismo ideologico che cerca di distruggere la famiglia. Ogni minaccia contro la famiglia è una minaccia contro la società». In tal modo ha messo in discussione i concetti di genere che mirano all’indistinzione sessuale e il matrimonio fra persone dello stesso sesso, che non ha niente a che fare col senso della vita coniugale e familiare. È per questo che non si può trattare la questione dell’omosessualità nello stesso modo sul piano individuale e su quello sociale, imponendo a partire da essa delle istituzioni sociali di cui essa non può essere all’origine, come la vita coniugale e familiare.
Traduzione di Rodolfo Casadei
http://www.tempi.it/eresia-antropologica-del-totalitarismo-gender#.VPdDrfmG-YI
DIO È MORTO, MARX È MORTO E ANCHE LA PSICANALISI STA POCO BENE. Allarme da New York: è incalzata da surrogati come lo yoga e persino dall’iPhone
di Paolo Mastrolilli, La Stampa, 4 marzo 2015
«Dio è morto, Marx pure, e anche io non mi sento molto bene». Se a questa battuta rubata a Eugene Ionescu ci aggiungiamo che la stessa psicanalisi se la passa piuttosto male, incalzata da surrogati più abbordabili tipo lo yoga, la meditazione e persino l’iPhone, è lecito supporre che Woody Allen sia disperato. Eppure i numeri non mentono. Secondo uno studio Usa citato dal New York Post, dal 2003 ad oggi l’età media dei 3.109 analisti membri dell’American Psychoanalytic Association è salita di 4 anni, arrivando a quota 66. Significa che stanno diventando più vecchi, perché diminuiscono i giovani interessati a seguire le loro orme professionali. Ciò accade per un motivo molto pratico: stanno sparendo i pazienti. Tra il 1950 e il 1960, infatti, ogni terapista americano vedeva in media fra 8 e 10 clienti al giorno. Ora sono scesi a 2,75, quando va bene, perché molti di loro non hanno neppure un paziente da seguire.
Le critiche
I motivi di questa crisi, e la sua stessa esistenza, sono molto dibattuti. Jacques Lacan ne discuteva già negli Anni 70, per negarla. Siccome si tratta della salute di parecchie persone, e le opinioni variano, dobbiamo riconoscere dal principio che per molti pazienti e molti analisti la critiche sono semplicemente infondate. Poi c’è da tenere presente che la disputa è anche ideologica, con gli intellettuali di destra più inclini di quelli di sinistra a demolire Freud. Nello stesso tempo, però, la letteratura che mette in discussione la credibilità della disciplina nata con Sigmund Freud è piuttosto vasta. Alcuni dicono che non ha vero fondamento scientifico; altri che ha cercato inutilmente di sostituirsi alla religione, in particolare al sacramento della confessione; altri ancora che non ha ottenuto risultati terapeutici dimostrabili.
La crisi
Lo studio citato dal Post sostiene che la crisi, almeno in America, è frutto di vari fattori. Da una parte, la psicanalisi non ha mantenuto le promesse sul piano della capacità di risolvere i problemi dei pazienti, spesso vincolati a cicli infiniti di sedute che non hanno mai un punto d’arrivo. Dall’altra, la nostra società sempre più individualistica è diventata difficile da trattare, e le alternative alla riflessione sul lettino si sono moltiplicate, valide o infodate che siano.
Di questi problemi ha parlato Sebastian Zimmermann, noto psichiatra dell’Upper West Side di Manhattan, che ha appena pubblicato un curioso libro fotografico intitolato Fifty Shrinks. Contiene le immagini di cinquanta famosi colleghi, a partire dal mito Martin Bergmann, perché «volevo catturare la vecchia guardia, prima che fosse troppo tardi». Secondo Zimmermann, «oggi viviamo nell’era del narcisismo. Pensiamo di essere così unici, speciali, di sapere tutto, ci scattiamo i selfie. Questo è un mondo molto diverso da quello con cui aveva a che fare Freud».
I narcisisti
L’emergenza è evidente: «I narcisisti sono le persone più difficili da trattare. Generalmente non vengono mai in cura di loro spontanea volontà. Tutti gli altri sono il problema, mai loro». Secondo Zimmermann, «la gente che oggi va alle classi di yoga, o ai ritiri di meditazione, era quella che un tempo veniva in analisi». Adesso invece persino l’iPhone è diventato una minaccia che allontana dal lettino, non perché offra la stessa possibilità di riflettere su se stessi, ma perché ci travolge con la sua continua richiesta di attenzione, e quindi ci distrae dai problemi che invece dovremmo discutere con uno «strizzacervelli».
Il dibattito è destinato a continuare e molte voci si alzeranno in difesa della psicanalisi. Vedere le foto della «vecchia guardia» di Zimmermann, però, fa pensare alla fine di un’epoca.
Le critiche
I motivi di questa crisi, e la sua stessa esistenza, sono molto dibattuti. Jacques Lacan ne discuteva già negli Anni 70, per negarla. Siccome si tratta della salute di parecchie persone, e le opinioni variano, dobbiamo riconoscere dal principio che per molti pazienti e molti analisti la critiche sono semplicemente infondate. Poi c’è da tenere presente che la disputa è anche ideologica, con gli intellettuali di destra più inclini di quelli di sinistra a demolire Freud. Nello stesso tempo, però, la letteratura che mette in discussione la credibilità della disciplina nata con Sigmund Freud è piuttosto vasta. Alcuni dicono che non ha vero fondamento scientifico; altri che ha cercato inutilmente di sostituirsi alla religione, in particolare al sacramento della confessione; altri ancora che non ha ottenuto risultati terapeutici dimostrabili.
La crisi
Lo studio citato dal Post sostiene che la crisi, almeno in America, è frutto di vari fattori. Da una parte, la psicanalisi non ha mantenuto le promesse sul piano della capacità di risolvere i problemi dei pazienti, spesso vincolati a cicli infiniti di sedute che non hanno mai un punto d’arrivo. Dall’altra, la nostra società sempre più individualistica è diventata difficile da trattare, e le alternative alla riflessione sul lettino si sono moltiplicate, valide o infodate che siano.
Di questi problemi ha parlato Sebastian Zimmermann, noto psichiatra dell’Upper West Side di Manhattan, che ha appena pubblicato un curioso libro fotografico intitolato Fifty Shrinks. Contiene le immagini di cinquanta famosi colleghi, a partire dal mito Martin Bergmann, perché «volevo catturare la vecchia guardia, prima che fosse troppo tardi». Secondo Zimmermann, «oggi viviamo nell’era del narcisismo. Pensiamo di essere così unici, speciali, di sapere tutto, ci scattiamo i selfie. Questo è un mondo molto diverso da quello con cui aveva a che fare Freud».
I narcisisti
L’emergenza è evidente: «I narcisisti sono le persone più difficili da trattare. Generalmente non vengono mai in cura di loro spontanea volontà. Tutti gli altri sono il problema, mai loro». Secondo Zimmermann, «la gente che oggi va alle classi di yoga, o ai ritiri di meditazione, era quella che un tempo veniva in analisi». Adesso invece persino l’iPhone è diventato una minaccia che allontana dal lettino, non perché offra la stessa possibilità di riflettere su se stessi, ma perché ci travolge con la sua continua richiesta di attenzione, e quindi ci distrae dai problemi che invece dovremmo discutere con uno «strizzacervelli».
Il dibattito è destinato a continuare e molte voci si alzeranno in difesa della psicanalisi. Vedere le foto della «vecchia guardia» di Zimmermann, però, fa pensare alla fine di un’epoca.
ITALIA, CRESCONO LE TERAPIE BRAVI, MA IL FUTURA GUARDA A ORIENTE. Indagine della Società Psicoanalitica: più pazienti gravi
di Francesca Sforza, La Stampa, 4 marzo 2015
Tempo di bilanci per la psicoanalisi italiana: domenica saranno presentati ufficialmente a Roma i dati di una ricerca che viene effettuata ogni 10 anni e che fa il punto sul numero di pazienti, sul tipo di sofferenze trattate, sui tempi e i modi delle terapie, chiamate a confrontarsi con le società che cambiano. L’indagine è stata condotta dalla Società Psicoanalitica Italiana, la più antica d’Italia, che raccoglie oltre mille soci ed è presente in quasi tutto il territorio nazionale con 11 centri. Nel complesso sono stati inviati 505 questionari, pari al 57,5% di tutti i soci Spi. Il settore è in crisi? Come ha osservato, parafrasando Mark Twain, il dottor Giuseppe Sabucco, psicoanalista del centro milanese, tra i curatori sia della ricerca attuale sia di quella del 2004, «sembra di poter dire che la notizia della nostra morte appare un pochino esagerata».
Pazienti e terapie
Non si può parlare di un calo nel numero di pazienti, ma è scesa la media del numero di sedute che si è disposti ad affrontare. «Vi è una proporzionale riduzione delle ore di analisi effettuate individualmente – osservano Diego Buongiorno e Raffaele Russo, dei centri di Palermo e Napoli – ma non vi è un calo complessivo, soprattutto se si pensa che ci troviamo comunque in epoca di crisi economica». In definitiva ci sono sempre intorno ai 10 mila pazienti che in Italia in questo momento sono in analisi in senso classico (cioè con tre o quattro sedute la settimana) e un numero appena inferiore di persone che con gli stessi analisti fa una terapia più «leggera» di una o due sedute settimanali.
Dolori vecchi e nuovi
«In passato si registravano patologie più isteriche, erano diffusissimi gli attacchi di panico – dice il dottor Antonino Ferro, presidente Spi -: oggi invece si registrano più sofferenze legate all’identità». Guardando i numeri, si osserva che i disturbi della personalità sono passati dall’82% dei casi nel 2004 al 96% di oggi, mentre la percentuale degli analisti che hanno almeno un paziente con diagnosi di disturbo schizofrenico è passata dal 17% al 30,7%. Come dice la dottoressa Daniela Battaglia, del centro di Bologna, «mi sembra importante sottolineare che è aumentata la percentuale di soci che trattano disturbi considerati gravi».
Identikit del paziente 2.0
Tra i dati interessanti c’è la dilatazione delle fasce d’età: si comincia molto prima e si finisce molto dopo. «Risultati molto buoni sono stati registrati dal modello svedese – dice la psicoterapeuta Jones De Luca – che prevede la psicoterapia per i neonati, così come è molto più frequente di un tempo che si inizi un’analisi a 60 anni e oltre». Il futuro – sostiene il dottor Ferro – è nella prevenzione: «Quando si comincia un percorso terapeutico da bambini, è chiaro che durerà di meno, sarà più efficace ed eviterà sofferenze e spese future». In molti casi si tratta di vincere le resistenze dei genitori, «ma, se si supera la ferita narcisistica, i vantaggi per i figli sono enormi». Cresce poi il successo delle sedute via Skype e il responso è unanime: si adatta meglio ai ritmi delle vite viaggianti.
Guardando a Oriente
Come membro della Società psicoanalitica americana, il dottor Ferro invita a non trascurare gli spunti che arrivano da Oltreoceano: «Non fermiamoci ai numeri, la psicoanalisi europea è più lenta, sentiamo il peso delle nostre tradizioni. Gli americani invece sono più iconoclasti, amano conquistare nuove praterie. Adesso per esempio – dice ancora Ferro – bisogna seguire con attenzione il lavoro di Thomas Ogden, di San Francisco che sta dando delle svolte importanti». Le sfide puntano verso Oriente: dalla Turchia alla Cina cresce il bisogno di accostarsi alla psicoanalisi e grazie alle tecnologie il contatto fra terapeuti lontani è diventato intenso come non mai.
http://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/te-do-io-freud-allarme-new-york-psicanalisi-crisi-yoga-95713.htm
Tempo di bilanci per la psicoanalisi italiana: domenica saranno presentati ufficialmente a Roma i dati di una ricerca che viene effettuata ogni 10 anni e che fa il punto sul numero di pazienti, sul tipo di sofferenze trattate, sui tempi e i modi delle terapie, chiamate a confrontarsi con le società che cambiano. L’indagine è stata condotta dalla Società Psicoanalitica Italiana, la più antica d’Italia, che raccoglie oltre mille soci ed è presente in quasi tutto il territorio nazionale con 11 centri. Nel complesso sono stati inviati 505 questionari, pari al 57,5% di tutti i soci Spi. Il settore è in crisi? Come ha osservato, parafrasando Mark Twain, il dottor Giuseppe Sabucco, psicoanalista del centro milanese, tra i curatori sia della ricerca attuale sia di quella del 2004, «sembra di poter dire che la notizia della nostra morte appare un pochino esagerata».
Pazienti e terapie
Non si può parlare di un calo nel numero di pazienti, ma è scesa la media del numero di sedute che si è disposti ad affrontare. «Vi è una proporzionale riduzione delle ore di analisi effettuate individualmente – osservano Diego Buongiorno e Raffaele Russo, dei centri di Palermo e Napoli – ma non vi è un calo complessivo, soprattutto se si pensa che ci troviamo comunque in epoca di crisi economica». In definitiva ci sono sempre intorno ai 10 mila pazienti che in Italia in questo momento sono in analisi in senso classico (cioè con tre o quattro sedute la settimana) e un numero appena inferiore di persone che con gli stessi analisti fa una terapia più «leggera» di una o due sedute settimanali.
Dolori vecchi e nuovi
«In passato si registravano patologie più isteriche, erano diffusissimi gli attacchi di panico – dice il dottor Antonino Ferro, presidente Spi -: oggi invece si registrano più sofferenze legate all’identità». Guardando i numeri, si osserva che i disturbi della personalità sono passati dall’82% dei casi nel 2004 al 96% di oggi, mentre la percentuale degli analisti che hanno almeno un paziente con diagnosi di disturbo schizofrenico è passata dal 17% al 30,7%. Come dice la dottoressa Daniela Battaglia, del centro di Bologna, «mi sembra importante sottolineare che è aumentata la percentuale di soci che trattano disturbi considerati gravi».
Identikit del paziente 2.0
Tra i dati interessanti c’è la dilatazione delle fasce d’età: si comincia molto prima e si finisce molto dopo. «Risultati molto buoni sono stati registrati dal modello svedese – dice la psicoterapeuta Jones De Luca – che prevede la psicoterapia per i neonati, così come è molto più frequente di un tempo che si inizi un’analisi a 60 anni e oltre». Il futuro – sostiene il dottor Ferro – è nella prevenzione: «Quando si comincia un percorso terapeutico da bambini, è chiaro che durerà di meno, sarà più efficace ed eviterà sofferenze e spese future». In molti casi si tratta di vincere le resistenze dei genitori, «ma, se si supera la ferita narcisistica, i vantaggi per i figli sono enormi». Cresce poi il successo delle sedute via Skype e il responso è unanime: si adatta meglio ai ritmi delle vite viaggianti.
Guardando a Oriente
Come membro della Società psicoanalitica americana, il dottor Ferro invita a non trascurare gli spunti che arrivano da Oltreoceano: «Non fermiamoci ai numeri, la psicoanalisi europea è più lenta, sentiamo il peso delle nostre tradizioni. Gli americani invece sono più iconoclasti, amano conquistare nuove praterie. Adesso per esempio – dice ancora Ferro – bisogna seguire con attenzione il lavoro di Thomas Ogden, di San Francisco che sta dando delle svolte importanti». Le sfide puntano verso Oriente: dalla Turchia alla Cina cresce il bisogno di accostarsi alla psicoanalisi e grazie alle tecnologie il contatto fra terapeuti lontani è diventato intenso come non mai.
http://www.dagospia.com/rubrica-29/cronache/te-do-io-freud-allarme-new-york-psicanalisi-crisi-yoga-95713.htm
I più recenti pezzi apparsi sui quotidiani di Massimo Recalcati e Sarantis Thanopulos sono disponibili su questo sito rispettivamente ai link:
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4545
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