“ADDIO AL VECCHIO COMPLESSO DI EDIPO. LA NEUROSCIENZA NON SA CHE FARSENE”. Saggio dello psichiatra Orbecchi: è ora di rottamare la psicanalisi di Freud
di Gabriele Beccaria, La Stampa, 10 marzo 2015
Un secolo sul lettino e stiamo così così. Ma le nostre anime non sono state abbandonate. Anzi. La psicoterapia del futuro è già tra noi. Scintillante di scoperte, ci sta esplorando e promette – lei sì – di guarirci, rivoluzionando l’idea di mente e di personalità. E facendo molto meglio del padre-padrone Freud.
A raccontare il Rinascimento della psicoterapia è il saggio Biologia dell’Anima, (Bollati Boringhieri, pp. 187, €18). E stavolta non c’entrano improbabili terapie in forma di blitz o app sospese tra il tecnologico e il miracoloso. L’universo che racconta Maurilio Orbecchi assomiglia all’albero della vita di Darwin: a partire dalla radice evoluzionistica nei rami si intrecciano tante discipline, dalla psicologia animale alle neuroscienze, proiettandoci in una dimensione inimmaginabile per la psicanalisi: dimentichiamo tabù dell’incesto e complessi edipici. Solo da poco abbiamo capito che siamo creature ibride. Complicate. Un po’ angeliche e un po’ diaboliche, altruiste ed egoiste, in cui i poli della cognizione e dell’affettività sfumano l’uno nell’altro. Freud, che credeva nel «perverso polimorfo», ne sarebbe sconcertato.
Orbecchi, da psicoterapeuta, lei delinea un’inedita «cura dell’anima»: ma funziona? E come?
«Stiamo entrando in una nuova era attraverso una concezione trasversale: invece del classico modello isolato, come quello di Freud o Jung, assistiamo alla convergenza di diverse scuole di psicoterapia su uno schema comune, che nasce dalle scienze della vita e del cervello».
Chi sono i nuovi «maestri»?
«È una psicoterapia che nasce dal “basso”, ma con il contributo di tanti studiosi: per esempio l’americano Philip Bromberg, l’australiano Russell Meares, l’ungherese Peter Fonagy, gli italiani Giovanni Liotti e Vittorio Lingiardi».
Ammetterà che si è agli albori: non è così?
«Nei saggi “standard” di psicoterapia non si trova ancora, per esempio, una relazione chiara tra l’evoluzione e i modelli interpretativi psicoterapeutici. Il mio libro vuole colmare una lacuna e dimostrare come la teoria dell’evoluzione e la psicologia animale gettano luce su aspetti importanti della psicologia e psicopatologia della mente: sono aspetti che si rivelano diversi da quelli immaginati da Freud e Jung».
Niente complesso di Edipo?
«No. Perché dobbiamo immaginare fattori di nevrosi specifici per gli esseri umani, come, appunto, il desiderio incestuoso del complesso edipico, quando le carenze affettive e i maltrattamenti spiegano le nevrosi in tutti i mammiferi sociali? Oppure: perché immaginare in noi una pulsione di morte, quando di questa non c’è traccia nei primati non umani, mentre risentiamo dell’ossessione animale della dominanza che è alla base di tanti conflitti della nostra specie? O ancora: perché pensare che cerchiamo lo status per sublimare il mancato appagamento sessuale, quando nel mondo animale la ricerca di status avviene anche per ottenere maggiore disponibilità sessuale? Non occorre più evocare narrazioni mitologiche».
E allora come si guarirà?
«Partendo dalla consapevolezza che le guarigioni non avvengono attraverso i vecchi modelli interpretativi. Alcuni vengono addirittura invertiti: il paziente non cambia perché ha capito, ma capisce perché è cambiato grazie a un rapporto empatico, prima che cognitivo, con lo psicoterapeuta».
È il contrario dell’assunto freudiano che imponeva la distanza tra medico e paziente?
«Contraddice quell’assunto. Freud sosteneva di guarire l’inconscio attraverso la coscienza con la celebre frase “Là dove c’era l’Es ci sarà l’Io”. Il suo era un approccio cognitivo. Oggi, invece, l’approccio tende a diventare affettivo».
E l’idea di mente si trasforma: in che senso ha una struttura dissociativa?
«Freud credeva nell’Io unitario, ma oggi si è dimostrata l’esistenza di tanti processi psicobiologici che collaborano tra loro, con funzioni diverse, e che nel loro lavorìo generano una sensazione solo apparente di Io unitario: come avevano intuito William James e Pierre Janet, qualsiasi scelta facciamo scontentiamo qualche parte del nostro “parlamento interiore”. Se normalmente coordiniamo le parti, la cosa non ci riesce quando ci sono dei traumi, in età infantile o da adulti, senza dimenticare il ruolo di genetica ed epigenetica».
Nel libro lei «rimuove» l’interpretazione dei sogni: perché?
«Il tema resta aperto e la scienza dà risposte diverse: se abbiano un significato o se siano solo frammenti di eventi. Personalmente li uso in senso ermeneutico: facendo lavorare il paziente sulla costruzione di un senso».
http://materialismostorico.blogspot.it/2015/03/la-resa-della-psicoanalisi-alle.html
“FREUD È UN PO’ INVECCHIATO MA LA SUA CURA AIUTA ANCORA”. Secondo lo psichiatra Maurilio Orbecchi “l’analisi è morta” Gli risponde Antonio Ferro, presidente della Società psicoanalitica
di Egle Santolini, La Stampa, 11 marzo 2015
Ogni tanto, ogni poco, ad Antonino Ferro tocca il compito di replicare a chi dà per spacciata la psicoanalisi. In Italia è probabilmente il meglio accreditato a farlo, come presidente della Società Psicoanalitica Italiana, considerata la freudianamente più ortodossa. Eppure, come scoprirete tra poco, le classificazioni troppo rigide non servono a una comprensione del tema.
Ferro, ci risiamo. Nella sua Biologia dell’Anima, e in un’intervista a La Stampa di ieri, Maurilio Orbecchi mette una croce sopra alla cura freudiana.
«Mi verrebbe da dire che dev’essere ben viva e che deve continuare a dare un gran fastidio, la psicoanalisi, se in tanti si ostinano a voler vederla morta. Invece è in ottima salute, serve e continua a far star meglio le persone: il che è l’elemento decisivo. Le pare che continuerei a esercitarla se non funzionasse? Il problema, semmai, mi sembra un altro. E cioè: di quale psicoanalisi stiamo parlando?»
Di quella, immagino, nata a Vienna un centinaio di anni fa.
«Appunto. Che Freud ci ha lasciato come un organismo vivo, in continua evoluzione, e che nel giro di un secolo ha saputo adattarsi ai cambiamenti. Secondo lei avrebbe senso che un infettivologo del 2015 si dicesse pasteuriano? È la medesima cosa. Il rito classico, come uno se l’immagina, sopravvive soltanto in certe roccaforti lefreviane. Pensi per esempio allo stereotipo dell’analista neutro, che resta muto per decine di sedute».
Quello da barzelletta, da vignetta del New Yorker.
«Appunto. Una figura che non esiste più, se si escludono quelle famose enclave tradizionaliste. L’analisi è fondamentalmente la storia di una relazione, di un lavoro a due in cui si costruisce e si narra insieme. Ed è la relazione a guarire».
Ma non è sempre stato così?
«In teoria. Però agli albori della disciplina quello che prevaleva era una forte asimmetria fra paziente e terapeuta, con un’accentuazione dell’aspetto interpretativo e l’analista un po’ in veste sacerdotale. L’inconscio era considerato come un’isola inespugnabile, una specie di Alcatraz. E il sogno come un apriscatole».
Questa deve spiegarcela meglio.
«Ha presente quegli apriscatole antiquati, con cui facevi un buco nella lattina finendo sempre per tagliarti? Ecco: il sogno, “la via regia all’inconscio”, secondo la vecchia definizione, veniva usato un po’ in questo modo. Oggi si è capito che il male, la sofferenza, vengono da ciò che nei sogni non è nemmeno contemplato: elementi non espressi, non pensati, non elaborati».
Non la usate più l’interpretazione dei sogni?
«Può capitare. Succede che qualche volta un sogno lo si ri-narri assieme, lo si dipani come un racconto, lavorandoci insieme. Ma abbiamo tanti altri strumenti a disposizione, e lo scopo non è tanto quello di “interpretare”, quanto quello di instaurare un assetto affettivo con il paziente, di mantenersi sulla sua lunghezza d’onda. Quello che cura è l’aspetto emotivo della faccenda: in psicoanalisi, conta più la pancia della testa».
Il che tra l’altro leva alla terapia viennese quell’aura punitiva, da rigido collegio mitteleuropeo, che ogni tanto ancora la circonda. A proposito di vecchio armamentario, Orbecchi è particolarmente tranchant con il complesso di Edipo. Che, secondo lui, non esiste…
«Si tenga forte: quando sono con un paziente, penso a quello che mi sta dicendo e non a Edipo».
…e rifiuta il concetto di pulsione di morte, sostenendo che non ve n’è traccia nei primati non umani.
«Si tenga ancora più forte: nella mia esperienza professionale, non ho mai avuto il piacere di essere presentato alla pulsione di morte. So che molti miei colleghi ci lavorano a fondo, ma non è il mio caso. Crede che per questo sia passibile di espulsione dalla Spi? ».
Un caso interessante, visto che ne è, ancora per due anni, il presidente.
«Forse con quell’espressione si intende un insieme di sofferenze non trasformate, non elaborate, che sono appunto ciò che fa soffrire il paziente e con cui, quelle sì, facciamo i conti tutti i giorni. Ma non sono le vecchie formule ad aiutare a guarire».
Veniamo a un altro argomento di Orbecchi, il più deciso. La nemesi della psicoanalisi arriverebbe dalle neuroscienze, che fornirebbero tutte le spiegazioni sfuggite a Freud e ai suoi eredi.
«Considero le neuroscienze come universi meravigliosi, e tenga conto che io nasco come neurochimico. Resta il fatto che tra le neuroscienze e la sofferenza delle persone si apre una distanza siderale. Quello che può aiutare, piuttosto, è la neuropsicofarmacologia. Soprattutto da quando la psicoanalisi si occupa di patologie particolarmente severe: è frequente che, in una prima fase, ci si affidi a due terapeuti diversi, uno che cura con le parole e l’altro con i farmaci, fino a quando il paziente non sia in grado di fare a meno delle medicine. Gliel’ho detto: è un mondo che progredisce ogni giorno. Non confondiamo un vecchio carretto con un’astronave».
http://www.libertaegiustizia.it/2015/03/12/freud-e-un-po-invecchiato-ma-la-sua-cura-aiuta-ancora
L’ORIGINE DEL NARCISISMO NEI BAMBINI. Un bambino costantemente sopravvalutato dai genitori ha più probabilità di sviluppare un forte narcisismo: lo afferma un nuovo studio, confermando l’ipotesi della teoria psicologica dell’apprendimento sociale sull’origine di questo tratto di personalità. Non trova invece riscontro l’ipotesi concorrente, sviluppata nell’ambito della psicoanalisi, secondo cui il narcisismo deriverebbe da una scarsa affettività dei genitori
di Redazione, lescienze.it, 11 marzo 2015
Il narcisismo si struttura nelle persone fin dall’infanzia, in bambini sopravvalutati dai propri genitori: è quanto emerge da una nuova ricerca sperimentale i cui risultati sono illustrati sui “Proceedings of the National Academy of Sciences” in un articolo a firma di Eddie Brummelman e colleghi dell’Università di Amsterdam, nei Paesi Bassi. Il narcisismo è un tratto della personalità presente in tutti in vario grado, ma che nei casi più estremi può sfociare nel disturbo di personalità narcisistica. Il narcisista si ritiene superiore agli altri, fantastica di successi personali e ritiene di meritare un trattamento speciale in ogni occasione. Quando si sente umiliato, il narcisista può comportarsi in modo aggressivo o addirittura violento, e ha anche un più elevato rischio di problemi di salute mentale come dipendenza da sostanze, depressione e ansia.
Un dato epidemiologico interessante emerso recentemente è che il livello medio di narcisismo è più elevato nei paesi occidentali che altrove ed è andato aumentando negli ultimi decenni. Tuttavia, malgrado la mole di studi sull’argomento, l’origine del narcisismo non era ancora stata chiarita, e attualmente si fronteggiano due modelli. Nella teoria dell’apprendimento sociale, si ritiene che un bambino abbia più probabilità di diventare un narcisista quando i suoi genitori lo sopravvalutano, suggerendogli l’idea di essere speciale rispetto agli altri. Secondo questa teoria psicologica, infatti, ogni bambino vede se stesso come lo vedono gli altri.
Nella teoria psicoanalitica, invece, il piccolo narcisista ha origine da genitori che mancano di calore affettivo nei suoi confronti, dimostrandogli sempre uno scarso apprezzamento. In questo contesto, il bambino potrebbe mettere se stesso su un piedistallo per cercare di ottenere dagli altri l’approvazione che non riceve dai genitori. Entrambe le teorie sono state corroborate da studi sul campo, ma i dati finora raccolti erano discordanti. Per verificare sperimentalmente quale delle due ipotesi fosse la più probabile, Eddie Brummelman e colleghi hanno valutato 565 bambini olandesi di età compresa tra 7 e 11 anni, cioè nel periodo di tempo in cui si ipotizza che emergano i tratti narcisistici.
Gli autori hanno sottoposto i bambini e 705 dei loro genitori ad alcuni questionari in quattro sessioni diverse nell’arco di un anno e mezzo. Le domande servivano a valutare il grado di narcisismo dei piccoli e la loro autostima, nonché gli stili delle cure genitoriali che ricevevano. Dall’analisi statistica delle risposte, è emerso che la sopravvalutazione da parte dei genitori era un elemento correlato al tratto narcisistico dei bambini, mentre non è risultato nulla di rilevante per la mancanza di calore nelle cure genitoriali. Queste ultime, sempre secondo l’analisi delle risposte ai questionari, promuovono l’autostima dei bambini. Sarebbe in questo modo confermata l’ipotesi formulata nell’ambito della teoria dell’apprendimento sociale rispetto alla teoria psicoanalitica, anche se occorrono ulteriori studi per verificare ulteriormente il risultato di Brummelman e colleghi.
http://www.lescienze.it/news/2015/03/11/news/origine_narcisismo_bambini-2521334/
GLI EQUIVOCI DELL’AMORE
di Michele Lauro, panorama.it, 11 marzo 2015
Se non fosse già il titolo di una antologia cult di Raymond Carver, What we talk about when we talk about love è la formula perfetta per introdurre questo libro: di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Terzo capitolo di una stimolante interpretazione della filosofia come cammino spirituale, proposta da Moreno Montanari incrociando la poesia e il pensiero teoretico-morale con la psicanalisi e l’Oriente, Gli equivoci dell’amore ribalta la tradizionale nozione di filosofia basata sul suo etimo (amore per il sapere) per proporsi come custode di unsapere dell’amore. Un sapere che condivide con l’amore stesso. L’amore, veggente, sa. È un’opera breve capace di debanalizzare la parola più abusata al mondo, ma anche militante per la sua opposizione al “dilagante analfabetismo affettivo” del nostro tempo. Rigoroso nel ragionamento, teso e vibrante nel ritmo, Gli equivoci dell’amore parla la grammatica universale della poesia e dellametafisica, della mistica e della psicologia, della politica e dellamisericordia, della fiaba e del cinema, pescando tanto dagli archetipi popolari quanto dalle pietre miliari della storia della filosofia. Danzano come in cerchio, portando ciascuno un pezzettino di verità, fra gli altri Platone e Derek Walkott, Rainer Maria Rilke e Sigmund Freud, i Baustelle e Lou Andreas Salomé, Raymond Panikkar e Hannah Arendt, Terrence Malick e Michel Foucault, Osho e Maria Zambrano, Simone Weil e Rosa Luxemburg.
Per continuare:
http://www.panorama.it/cultura/libri/moreno-montanari-gli-equivoci-amore-recensione/
WHATEVER PADANO
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 11 marzo 2015
Può uno psicoanalista improvvisarsi profeta? “Certo che sì”, come tra il serio e il faceto ebbe modo di dire Georg Walther Groddeck, precisando che se non si è profeti nemmeno si è psicoanalisti. A questo punto mi permetto di azzardare: tra Matteo Salvini e Matteo Renzi non c’è partita, vincerà la Fiorentina sette a zero con gol di Boschi, Madia, Moretti, Mogherini e perfino l’enigmatica Giannini andrà a rete con una formidabile testata. Il celodurista Salvini sarà sconfitto dalle donne che con grazia lo dribbleranno e alla fine non dovranno nemmeno farsi la doccia, tanto poco il loro sudore. Lui invece sarà sudatissimo, nonostante che nel corso della partita avrà cambiato parecchie maglie, passando da quella secessionista alla lepenista alla nazionalista al benzinaio, indossandole tutte quante in contemporanea per poi con gesto sovrano sfilarsele davanti ai tifosi per mostrare tatuato sul petto il volto dell’amato Kim Jong. O di Antonio Razzi. Esausto, dovrà anch’egli ricorrere al grande Groddeck: l’autore del geniale “Lo scrutatore d’anime” guariva i pazienti dalle loro follie massaggiandone vigorosamente le tempie e i glutei.
Ma ben più delle intuizioni dello psicoanalista contano le parole del paziente disteso sul lettino, parole che spesso costui pronuncia a propria insaputa, preso dal delirio o dalla fregola. A questo punto bisogna pur riconoscerglielo: Matteo Salvini niente nasconde, piuttosto straparla con un inconscio a cielo aperto totalmente esente da paura; che forse un po’ di paura gli farebbe bene, regalandogli il tempo di capire quel che sta dicendo. Ma Salvini è un temerario e non perde occasione per mostrarlo, il petto pelosamente esposto ai media, la faccia piena di sé tipica di chi si getta spavaldo nello champagne della vita per poi, un brutto giorno, il giorno del Giudizio, davanti al precipitare degli eventi stordito chiedersi: “Ma che diavolo è successo?”. E’ la cosiddetta sindrome schettiniana, dallo sciagurato capitano del Concordia. Ma se di capitan Schettino tutti si chiedono perché uno come lui stesse in un posto di vitale responsabilità, Salvini al posto di comando ci sta con la massima autorevolezza. Ha detto a Muntari di andarsene e si è preso un ceffone da Balotelli. Ha detto a Tosi di sloggiare, e quello gli si è seduto addosso. Salvini non fa una piega, l’effettivo prodursi delle cose non lo tange, ha altro da fare, procedere con sempre nuove idee, buone o cattive vanno bene entrambe, il male e il bene sono vecchie storie di destra e sinistra. L’irrefrenabile Salvini procede a quattro zampe ciascuna delle quali stringe mani differenti e sconosciute; se ne frega del futuro quanto del passato, che per lui neppure esiste; se neppure ricorda di avere fatto un tempo non lontano certe stranezze non è per astuzia o vergogna, ma perché non se le ricorda proprio, in una scanzonata amnesia da karaoke che lo rende simpatico. Piace anche a quelli di CasaPound che amano ricordare quel che sarebbe meglio dimenticassero, e piace anche a Marine Le Pen che vorrebbe dimenticare l’imbarazzante papà ma trova sempre qualcuno che glielo fa presente. Il futuro, poi, a Salvini gli fa un baffo: que sera sera, whatever will be, will be, the future’s not ours to see. Cosa realmente pensa Salvini, qual è la verità del suo desiderio? Boh. Che colpa ne ha se il cuore è uno zingaro e va, catene non ha… Recentemente ha proclamato: “La nostra deriva è una deriva positiva”.
Qualche giorno fa Matteo Salvini ha deciso che a “Bruxelles c’ è ben peggio di Mussolini, non hanno l’olio di ricino ma spread e finanza fanno peggio del fascismo”. Come interpretare questa riprovevole uscita? Come la santa innocenza di un ancor giovane ragazzone? Davvero per Salvini quel Mussolini che regalò l’Italia a Satana è solo il mattacchione dell’olio di ricino… o sa ma se ne fotte? Sbuffa: “Ma davvero i cittadini pensano che possano tornare i comunisti e i fascisti?”, a noi tutti stupidotti l’indignato, stupito, schifato Salvini domanda. Be’, insomma, dopo le tue parole, caro Salvini, un po’ lo pensiamo. Ma Salvini ha l’asso nella manica: “Io non ho debiti morali con nessuno, e così sono molto più libero di fare”. Sì, ma cosa? Fin dall’inizio dei tempi una grande psicoanalista, la dottoressa Bibbia, ricordandoci del peccato originale chiaramente fece intendere che chi non riconosce il debito con i padri e le madri, con Dio, con la Patria, con la vita, con l’amore, con il figlio, con gli uomini e con le donne di ogni terra, con la fortuna, e con se stessi, costui può effettivamente combinarne di ogni colore.
ZAVATTI: CON DANTE ALLA SCOPERTA DELLA LUCE CHE «BALUGINA» IN NOI
di Cesare Cavalleri, avvenire.it, 11 marzo 2015
Il commento di Giovanna Zavatti alle prime due cantiche dantesche inCon Dante. Dall’Inferno al giardino dell’Eden (Book Time, pp. 144, euro 14) non è meramente letterario, perché il viaggio di Dante nell’Aldilà non è solo letteratura, bensì percorso esistenziale che Zavatti interpreta secondo la Psicosintesi di Roberto Assagioli.
Nessun esoterismo, per carità. Assagioli (1888-1974) rielaborò la psicanalisi freudiana secondo una concezione dell’uomo non riducibile all’inconscio e agli istinti, prendendo invece in giusta considerazione la spiritualità e l’apertura al trascendente che caratterizzano l’umano. In compagnia di Zavatti, quindi, il viaggio di Dante diventa anche un viaggio alla scoperta di sé, in cui il lettore è chiamato a confrontarsi con il male e il bene che avverte nella coscienza, senza paura di chiamare con il loro nome gli impulsi e le tendenze che lo fanno vergognare, ma anche senza spegnere la luce che tuttavia balugina laggiù.
Per continuare:
COSA (NON) È LA TEORIA DEL GENDER. No, l’ideologia del gender non esiste davvero. È una trovata propagandistica che distorce gli studi di genere
di Simona Regina, wired.it, 13 marzo 2015
Si salvi chi può da coloro che, per combattere le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, voglionocolonizzare le menti di bambini e bambine con una visione antropologica distorta, con un’azione di indottrinamento gender. Il monito l’ha lanciato, a più riprese, il mondo cattolico. Lo ha fatto, per esempio, il cardinale Angelo Bagnasco in apertura del Consiglio della Conferenza episcopale italiana. Il Forum delle associazioni familiari dell’Umbria ha stilato addirittura un vademecum per difendersi dalla pericolosa introduzione nelle scuole italiane di percorsi formativi e di sensibilizzazione sul gender. Che si parli di educazione all’effettività, educazione sessuale, omofobia, superamento degli stereotipi, relazione tra i generi o cose simili, tutto secondo loro concorre a un unico scopo: l’indottrinamento. E anche l’estrema destra a Milano (ma non solo) ha lanciato la sua campagna “contro l’aggressione omosessualista nelle scuole milanesi” per frenare eventuali seminari “diseducativi”. La diffusione dell’ideologia gender nelle scuole, secondo ProVita onlus, l’Associazione italiana genitori, l’Associazione genitori delle scuole cattoliche, Giuristi per la vita e Movimento per la Vita, è una vera emergenza educativa. Perché in sostanza, dietro al mito della lotta alla discriminazione, in realtà spesso si nasconde “l’equiparazione di ogni forma di unione e di famiglia e la normalizzazione di quasi ogni comportamento sessuale”. Tanto che, nello spot che ProVita ha realizzato per promuovere la petizione contro l’educazione al genere, una voce fuori campo chiede “Vuoi questo per i tuoi figli?”. Ma cos’è la teoria/ideologia gender?
La teoria del gender
Non esiste. Nessuno, in ambito accademico, parla di teoria del gender. È infatti un’espressione usata dai cattolici (più conservatori) e dalla destra più reazionaria per gridare “a lupo a lupo” e creare consenso intorno a posizioni sessiste e omofobe. Significativa, per esempio, la posizione di monsignor Tony Anatrella che, nel libro La teoria del gender e l’origine dell’omosessualità, ci mette in guarda da questa fantomatica teoria, tanto pericolosa quanto oppressiva (più del marxismo), che si presenta sotto le mentite spoglie di un discorso di liberazione e di uguaglianza e vuole inculcarci l’idea che, prima d’essere uomini o donne, siamo tutti esseri umani e che la mascolinità e la femminilità non sono che costruzioni sociali, dipendenti dal contesto storico e culturale. Un’ideologia (udite, udite) che pretende che i mestieri non abbiano sesso e che l’amore non dipenda dall’attrazione tra uomini e donne. Talmente perniciosa, da essersi ormai insediata all’Onu, all’Unesco, all’Oms, in Parlamento europeo.
“Ma non ha alcun senso parlare di teoria del gender e men che mendo di ideologia del gender”, sostiene Laura Scarmoncin, che studia Storia delle donne e di genere alla South Florida University. “È un’arma retorica per strumentalizzare i gender studies che, nati a cavallo tra gli anni 70/80, affondano le loro radici nella cultura femminista che ha portato il sapere creato dai movimenti sociali all’interno dell’accademia. Così sono nati (nel mondo anglosassone) i dipartimenti dedicati agli studi di genere” e poi ai gay, lesbian e queer studies.
In sostanza, come spiega Sara Garbagnoli sulla rivista AG About Gender, la teoria del gender è un’invenzione polemica, un’espressione coniata sul finire degli anni ’90 e i primi 2000 in alcuni testi redatti sotto l’egida del Pontificio consiglio per la famiglia con l’intento di etichettare, deformare e delegittimare quanto prodotto in questo campo di studi. Poi ha avuto una diffusione virale quando, in particolare negli ultimi due-tre anni, è entrata negli slogan di migliaia di manifestanti, soprattutto in Francia e in Italia, contrari all’adozione di riforme auspicate per ridurre le discriminazioni subite dalle persone non eterosessuali. “È un blob di slogan e di pregiudizi sessisti e omofobi”. Un’etichetta fabbricata per distorcere qualunque intervento, teorico, giuridico, politico o culturale, che voglia scardinare l’ordine sessuale fondato sul dualismo maschio/femmina (e tutto ciò che ne consegue, come subordinazione, discriminazione, disparità, ecc.) e sull’ineluttabile complementarietà tra i sessi.
Secondo gli ideatori dell’espressione teoria/ideologia del genere, nasciamo maschi o femmine. Punto. Il sesso biologico è l’unica cosa che conta. L’identità sessuale non si crea, ma si riceve. E il genere è una fumisteria accademica, come scrive Francesco Bilotta, tra i soci fondatori di Avvocatura per i diritti Lgbti – Rete Lenford. In realtà gli studi di genere costituiscono un campo di indagine interdisciplinare che si interroga sul genere e sul modo in cui la società, nel tempo e a latitudini diverse, ha interpretato e alimentato le differenze tra il maschile e il femminile, legittimando non solo disparità tra uomini e donne, ma anche negando il diritto di cittadinanza ai non eterosessuali.
L’identità sessuale
Gli studi di genere non negano l’esistenza di un sesso biologico assegnato alla nascita, né che in quanto tale influenzi gran parte della nostra vita. Sottolineano però che il sesso da solo non basta a definire quello che siamo. La nostra identità, infatti, è una realtà complessa e dinamica, una sorta di mosaico composto dalle categorie di sesso, genere, orientamento sessuale e ruolo di genere. Il sesso è determinato biologicamente: appena nati, cioè, siamo categorizzati in femmine o maschi in base ai genitali (a volte, però, genitali ambigui rendono difficile collocare il neonato o la neonata nella categoria maschio o femmina, si parla allora di intersessualità). Il genere invece è un costrutto socioculturale: in altre parole sono fattori non biologici a modellare il nostro sviluppo come uomini e donne e a incasellarci in determinati ruoli (di genere) ritenuti consoni all’essere femminile e maschile. La categoria di genere ci impone, cioè, sulla base dell’anatomia macroscopica sessuale (pene/vagina) e a seconda dell’epoca e della cultura in cui viviamo, delle regole cui sottostare: atteggiamenti, comportamenti, ruoli sociali appropriati all’uno o all’altro sesso. Il genere, in sostanza, si acquisisce, non è innato, ha a che fare con le differenze socialmente costruite fra i due sessi. Non a caso nel tempo variano i modelli socioculturali, e di conseguenza le cornici di riferimento entro cui incasellare la propria femminilità o mascolinità. L’identità di genere riguarda il sentirsi uomo o donna. E non sempre coincide con quella biologica: ci si può, per esempio, sentire uomo in un corpo da donna, o viceversa (si parla in questo caso di disforia di genere). Altra cosa ancora è l’orientamento sessuale: l’attrazione cioè, affettiva e sessuale, che possiamo provare verso gli altri (dell’altro sesso, del nostro stesso sesso o di entrambi).
Educare al genere
“Nelle nostre scuole – sottolinea Nicla Vassallo, ordinario di filosofia teoretica all’Università di Genova – a differenza di quanto si è fatto in altri Paesi, non c’è mai stata una vera e propria educazione sessuale e anche per questo l’Italia è arretrata rispetto alla considerazione delle categorie di sesso e genere. Eppure, educare i genitori e dare informazioni corrette agli insegnanti affinché parlino in modo ragionato, e non dogmatico, di sesso, orientamento sessuale, identità e ruoli di genere, a figli e scolari è molto importante perché sono concetti determinanti per comprendere meglio la nostra identità personale. E per essere cittadini occorre sapere chi si è”. Educare al genere (come si legge nel bel saggio Educare al genere) significa, in fondo, sostenere la crescita psicologica, fisica, sessuale e relazionale, affinché i bambini e le bambine di oggi possano progettare il proprio futuro al di là delle aspettative sulla mascolinità e la femminilità. Basti pensare, come scrivono le curatrici nell’introduzione, all’appellativo effeminato che viene usato per descrivere quegli uomini che non si comportano da “veri maschi” (coraggiosi, determinati , tutti di un pezzo, che non devono chiedere mai) e danno libero sfogo alle emozioni tradendo lo stereotipo dominante. E la scuola può (deve) avere un ruolo fondamentale per scalfire gli stereotipi di genere, ancora fin troppo radicati nella nostra società, offrendo a studenti e studentesse gli strumenti utili e necessari per diventare gli uomini e le donne che desiderano. Educare al genere significa dunque interrogarsi sul modo in cui le varie culture hanno costruito il ruolo sociale della donna e dell’uomo a partire dalle caratteristiche biologiche (genitali). Contrastare quegli stereotipi e quei luoghi comuni, socialmente condivisi, che finiscono col determinare opportunità e destini diversi a seconda del colore del fiocco (rosa o azzurro) che annuncia al mondo la nostra nascita. Concedere diritto di cittadinanza ai diversi modi di essere donna e uomini. E significa anche riflettere “sul fatto che le attuali dicotomie di sesso (maschio/femmina) e di genere (uomo/donna) non sono in grado, di fatto, di descrivere la complessità della realtà” sottolinea Vassallo. E dietro questa consapevolezza non ci sono le famigerate lobby Lgbt, ma decenni di studi interdisciplinari.
A scuola per scalfire stereotipi e pregiudizi
Trasmettere ai bambini e alle bambine, attraverso alcune attività ludico-didattiche, il valore delle pari opportunità e abbattere tutti quegli stereotipi che, fin dalla più tenera età, imprigionano maschi e femmine in ruoli predefiniti, granitici, e sono alla base di molte discriminazioni, è l’obiettivo del progetto Il gioco del rispetto. Dopo la fase pilota dello scorso anno, sta per partire in alcune scuole dell’infanzia del Friuli Venezia Giulia. Accompagnato però da non poche polemiche alimentate, ancora una volta, da chi vuole tenere lontano dalle scuole l’educazione al genere. Come se possa esserci qualcosa di pericoloso nell’illustrare (lo fa uno dei giochi del kit didattico) un papà alle prese con il ferro da stiro e una mamma pilota d’aereo. Alcuni l’hanno definito “una pubblica vergogna”, un tentativo di “costruire un mondo al contrario“, l’ennesima propaganda gender, “lesivo della dignità dei bambini” e inopportuno, perché non avrebbe senso sensibilizzare i bambini contro la violenza sulle donne, “come se un bambino di 4 o 5 anni potesse essere un mostro, picchiatore o stupratore“. Eppure, poter riflettere sugli stereotipi sessuali, combattere i pregiudizi, sviluppare consapevolezza dei condizionamenti storico-culturali che riceviamo, serve anche a prevenire comportamenti violenti e porre le basi per una società più civile.
Le esperienze italiane
Lungo lo Stivale sono diversi i progetti che si prefiggono di abbattere pregiudizi e stereotipi in classe. Per esempio, l’associazione Scosse ha promosso l’anno scorso a Roma La scuola fa differenza, per colmare, attraverso percorsi formativi rivolti a educatori e insegnanti dei nidi e delle scuole dell’infanzia, le carenze del nostro sistema scolastico in merito alla costruzione delle identità di genere, all’uso di un linguaggio non sessista e al contrasto alle discriminazioni. Da diversi anni lo fa anche la Provincia di Siena nelle scuole di ogni ordine e grado. Così come “da un po’ di anni ”, spiega Davide Zotti, responsabile nazionale scuola Arcigay, “attività di prevenzione dell’omofobia e del bullismo omofobico sono organizzate nelle scuole italiane da Arcigay, Agedo e altre associazioni, attraverso percorsi di educazione al rispetto delle persone omosessuali”. In Toscana, per esempio, la Rete Lenford ha coordinato una rete di associazioni impegnate in percorsi didattici contro le violenze di genere e il bullismo omotransfobico, per una scuola inclusiva. E a Roma l’Assessorato alla scuola, infanzia, giovani e pari opportunità ha promosso, in collaborazione con la Sapienza, il progetto lecosecambiano@roma, rivolto alle studentesse e agli studenti degli istituti superiori della Capitale. Apripista, però, è stato il Friuli Venezia Giulia, dove da cinque anni Arcigay e Arcilesbica portano avanti il progetto A scuola per conoscerci, che nel 2010 ha ricevuto l’apprezzamento da parte del Capo dello Stato, per il coinvolgimento degli studenti nella formazione civile contro ogni forma di intolleranza e di discriminazione. Inoltre, il ministero per le Pari opportunità e l’Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali a difesa delle differenze) hanno elaborato una strategia nazionale per la prevenzione, rispondendo a una raccomandazione del Consiglio d’Europa di porre rimedio alle diffuse discriminazioni legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere (nelle scuole, nel mondo del lavoro, nelle carceri e nei media). In quest’ambito, l’Istituto Beck ha realizzato degli opuscoli informativi per fornire ai docente strumenti utili per educare alla diversità, facendo riferimento alle posizioni della comunità scientifica nazionale e internazionale sui temi dell’orientamento sessuale e del bullismo omofobico. E sono stati organizzati dei corsi di formazione per tutte le figure apicali del mondo della scuola, al fine di contrastare e prevenire la violenza, l’esclusione sociale, il disagio e la dispersione scolastica legata alle discriminazioni subite per il proprio orientamento sessuale. Da qui la levata di scudi contro l’ideologia gender che destabilizzerebbe le menti di bambini e adolescenti. Perché non solo tra moglie e marito, ma anche tra genitori e figli non si deve mettere il dito: guai a mettere in discussione la famiglia tradizionale e a istillare domande nella testa di bambini e adolescenti che abbiano a che fare con l’identità (sessuale), l’affettività o la sessualità.
Il genere come ideologia
“Se qualcuno del gender ha fatto un’ideologia è stata la Chiesa cattolica”. Non ha dubbi in proposito la Vassallo che, nel suo ultimo libro Il matrimonio omosessuale è contro natura (Falso!), ci mette in guardia dall’errore grossolano di far coincidere la femmina (quindi il sesso, categoria biologica) con la donna (il genere, categoria socioculturale), o il maschio con l’uomo: negando, in questo modo, identità e personalità a ogni donna e a ogni uomo. “Nei secoli, infatti, la Chiesa cattolica ha costruito l’idea che uomo e donna siano complementari e si debbano accoppiare per riprodursi”. Questo, in pratica, sarebbe il solo ordine naturale possibile. “Invece, se oggi parliamo di decostruzione del genere, non lo facciamo per una presa di posizione ideologica, ma partendo dalla costatazione che, di fatto, non ci sono solo due sessi (ce lo dice la biologia, si pensi all’intersessualità), ci sono più generi e non c’è un unico orientamento sessuale: ovvero quello eterosessuale, che la Chiesa ha sempre promosso, etichettando come contro natura quello omosessuale”.
Ma la natura non è omofoba. Anzi. Nel libro In crisi d’identità, Gianvito Martino, direttore della divisione di Neuroscienze del San Raffaele di Milano, spiega (e documenta) che è un gran paradosso etichettare l’omosessualità, ma anche il sesso non finalizzato alla riproduzione, come contro natura. Ci sono infatti organismi bisessuali, multisessuali o transessuali, la cui dubbia identità di genere è essenziale per la loro sopravvivenza. Additare quindi come contro natura certi comportamenti significa ignorare la realtà delle cose, scegliendo deliberatamente di essere contro la natura. “Inoltre, – aggiunge lo psichiatra e psicoanalista Vittorio Lingiardi, ordinario di psicologia dinamica alla Sapienza di Roma – non solo ciò che è considerato caratteristico della donna o dell’uomo cambia nel corso della storia e nei diversi contesti culturali, ma anche il concetto di famiglia ha conosciuto e sempre più spesso conosce configurazioni diverse: famiglie nucleari, adottive, monoparentali, ricombinate, omogenitoriali, allargate, ricomposte, ecc. Delegittimarle significa danneggiare le vite reali di molti genitori e dei loro figli. Ci sono molti modi, infatti, di essere genitori (e non tutti sono funzione del genere). Non lo affermo io, ma le più importanti associazioni scientifiche e professionali nel campo della salute mentale dopo più di quarant’anni di osservazioni cliniche e ricerche scientifiche, dall’American Academy of Pediatrics, alla British Psychological Society, all’Associazione Italiana di Psicologia”. “In sostanza – conclude Lingiardi – adulti coscienziosi e capaci di fornire cure, che siano uomini o donne, etero o omosessuali, possono essere ottimi genitori. Ciò di cui i bambini hanno bisogno è sviluppare un attaccamento verso genitori coinvolti, competenti, responsabili. Una famiglia, infatti, non è soltanto il risultato di un accoppiamento riproduttivo, ma è soprattutto il risultato di un desiderio, di un progetto e di un legame affettivo e sociale”.
http://www.wired.it/attualita/politica/2015/03/13/teoria-del-gender/
L’ALDILÀ SENZA FIGLIE. La rivalsa delle religioni può essere legata alla crisi delle istituzioni politiche, ma anche al protagonismo del corpo, la sessualità e la libertà femminile. Tutte discendono, infatti, da quell’unico soggetto maschile che ha gerarchizzato il mondo
di Lea Melandri, ilmanifesto.info, 13 marzo 2015
Non mi sono mai occupata di laicità e di religione. O, quanto meno, non in modo specifico. Mi sono battuta, e continuerò a farlo, contro l’invadenza della Chiesa su scelte che devono essere lasciate alla libertà del singolo – come il testamento biologico, l’aborto, le unioni civili, ecc.-, ma non ho mai avuto simpatia per il laicismo, la laicità che diventa feticcio, «rifiuto pregiudiziale» della religione.
Posto in modo così schematico e oppositivo, il binomio laicità/religione mi è sembrato uno dei tanti dualismi che hanno finora impedito di vedere i legami che ci sono sempre stati tra un’esperienza e l’altra.
Quando ho letto il libro di Stefano Levi Della Torre, Laicità, grazie a Dio(Einaudi), l’impostazione che ha dato al problema — un «confronto», «un corpo a corpo» con la religione, in cui possono convivere la passione per la ricchezza di simboli, gesti, immagini, interrogativi essenziali dell’umano, richiami all’esperienza personale e il pensiero critico -, mi sono resa conto all’improvviso che «io c’entravo». Anzi, ho capito che c’entravo molto, forse troppo per il peso che ha avuto la religione – cristiana, cattolica nella mia formazione, potrei fino al momento in cui, venticinquenne, ho lasciato il paese e ho incontrato a Milano il movimento antiautoritario e il femminismo: l’uscita dalla dimensione privata per una straordinaria avventura collettiva, l’idea che si potesse ripensare la storia, la politica, a partire da tutto ciò che avevano cancellato e consegnato alla religione.
Le matrici scomparse
Così, oltre a ragionare sul libro di Levi Della Torre – in vista dell’incontro con lui, che avrei fatto al Festival delle Letterature di Mantova — ho cominciato a rileggere alcuni dei miei scritti del passato, sicura che vi avrei trovato tracce di questa «contaminazione».
Ho pensato perciò che il modo migliore di dialogare da parte mia fosse quello di fare incursioni dentro il testo, fermarmi su alcuni punti e portare lì il contributo della mia riflessione, trovando di volta in volta condivisioni o divergenze.
Mi sono accorta subito che le concordanze erano in realtà molto di più che le divergenze. Innanzi tutto, il riconoscimento che la religione è un prezioso archivio della memoria degli individui e della specie, di vicende che stanno ai confini tra inconscio e coscienza. C’è la stupidità del fanatismo, ma ci sono anche sublimi simbolizzazioni, interrogativi che vanno alla radice dell’umano. Per questo – scrive Stefano — la religione «è una cosa seria e non può essere lasciata alla mercé dei clericali».
Persino il fondamentalismo, se da un lato è importante criticarlo, dall’altro va raccolta la domanda che indirettamente ci pone: «quali sono i fondamenti, i presupposti sottesi ai nostri codici giuridici, atei, di pensiero, che noi lasciamo invecchiare sotto la polvere delle abitudini?». È quello che Stefano fa quando dice che riflettere sulla religione è riflettere sul pensiero, sulle forme che ha preso, come si è rappresentato la propria nascita, l’uscita dall’animalità. La religione narra il mistero dell’universo, ma lo satura di rappresentazioni, di simboli. Lo esorcizza.
È su questa stratificazione di simboli che va portato lo sguardo, riconoscendoli come proiezioni del modo in cui viviamo.
Ora, riflettere sul pensiero, sulle forme che ha preso nelle sue costruzioni, laiche o religiose che siano, vuol dire chiedersi innanzi tutto chi è il soggetto del pensiero e come si è configurata, nella storia che abbiamo conosciuto – opera di una comunità di soli uomini — la sua nascita. La consanguineità fra la religione e le altre costruzioni simboliche sta prima di tutto nel fatto di discendere dalla stessa matrice: quel «principio maschile» che – come scrive Bachofen ne Il matriarcato — «nell’ambito dell’esistenza fisica è al secondo posto, subordinato al principio femminile», salvo prendere poi il primo posto, come principio spirituale, trascendente le leggi della materialità, quando da figlio l’uomo «diviene lo sposo, il fecondatore della madre, il padre stesso».
Nel momento in cui si costruisce, sull’asse di una «vita superiore», una generazione al maschile, la donna scompare nel suo essere reale, nella sua diversità. Dovrà rinascere tramite il figlio, divenutole marito, padre, madre. Sta all’uomo «rifarla, rinnovarla, crearla», scioglierla dal suo nulla, che le impedisce di essere, prenderla nelle sue braccia «come un piccolo tenero bimbo» (Michelet, L’amore).
Da ciò si deduce che la «consanguineità» tra pensiero laico e religioso è molto più di una «contaminazione»; discende dal fatto che traggono la loro origine da quel soggetto unico maschile, da quella visione unica del mondo che ha violentemente e astrattamente differenziato, complementarizzato e posto secondo un ordine gerarchico, materia e spirito, natura e cultura, individuo e genere, corpo e pensiero, identificando e confondendo l’uscita dall’animalità e la nascita del linguaggio con il destino del maschio e della femmina.
Figlie mai nate
In Otto Weininger è chiaro che la trascendenza, su cui la religione costruisce il mistero di Dio, il Creatore, l’Essere perfetto, il Valore assoluto, è strettamente imparentata con la trascendenza che si è attribuito l’Io maschile. La «divinità», per Kant, per Platone, è «l’idea morale e ciò che essa esige dall’umanità». L’anima è qualcosa di diverso dal corpo, dai suoi appetiti. «…gli uomini sono figli di Dio in quanto esseri spirituali, così come sono figli di uomini in carne e ossa in quanto creature terrene (…) questo vale solo per i maschi. Dio infatti non ha figlie. Il figlio può risorgere e acquistare la libertà solo salendo al padre, ridiventando tutt’uno col padre». (O.Weininger, Sesso e carattere)
Alla donna, che rappresenta la sessualità, la materia, il non essere, e che perciò incarna per l’uomo la caduta, la colpa, si impongono regole morali superiori a quelle dell’uomo: la purezza, la verginità. Per essere «redentrice» dell’uomo deve «essere uccisa e riportata in vita». L’Io maschile e Dio si pongono così su una linea di continuità.
Alle origini della civiltà
Per Weininger la religione è «libero atto dell’uomo del porre un ente perfetto, il sommo bene (…) Dio è la finalità dell’uomo, la religione è la volontà dell’uomo di diventare Dio. La religione è la libera posizione del regno della libertà, dell’assoluto, è la ricreazione dell’universo (…) la religione, in ultima analisi, si identifica con la morale (…) lo sforzo di attingere l’assoluto ovvero Dio come idea del buono e del vero».
Le figure e i gesti che la mente religiosa proietta sull’oscurità del mistero — «come a formare un sipario su cui si rappresentano domande e bisogni insopprimibili»- saturandolo di risposte e spiegazioni, parlano dunque dell’origine della civiltà maschile, del modo con cui ha inteso differenziarsi dalla natura, dal corpo femminile che genera e che porta perciò i segni dei limiti mortali dell’umano.
Parlano della ri-nascita o ri-generazione del mondo spostata sul versante di un principio maschile spirituale: una genealogia di padre in figlio dove la donna è solo mediazione simbolica, contenitore.
Forse è proprio in queste rappresentazioni così vicine all’origine e a quelle domande insopprimibili dell’umano, che hanno a che fare con la nascita, la morte, il diverso destino toccato all’uomo e alla donna, che la religione esercita un fascino così duraturo. In questo senso la «continuità con l’infanzia», che Freud nel saggio, L’avvenire di un’illusione, aveva visto solo sotto il profilo del bisogno di «paterna» protezione, è una lettura riduttiva. La religione parla esplicitamente, più di tutte le altre acquisizioni della cultura, dell’«atto fondativo» della civiltà stessa, di quella libertà da vincoli materiali che ha permesso alla ragione di pensarsi «autosufficiente» e destinata a disporre della madre, della terra come risorsa inesauribile.
Qualcosa di questa trascendenza c’è anche nella contrapposizione tra il cittadino, astratto, scorporato, detentore dei diritti e la persona, l’essere umano nella sua interezza.
La religione potrebbe essere vista dunque come l’espressione massima, idealizzata dell’Io maschile, il fulcro dell’androcentrismo, una lettura sessuata che nel libro compare per accenni ma che non sembra essere colta per il peso che ha, come struttura portante sia della religione che della cultura in generale, inscritte entrambe nel dualismo originario.
Le «sublimazioni» della religione vanno dunque oltre le astrattezze della storia: sembrano tese a destituire o sostituire, trasferendole sul piano trascendentale, spirituale, la natura, i corpi, la nascita, la morte, il rapporto tra i sessi.
Ambiguità e astrattezza
La rivalsa che si prendono oggi può essere legata alla crisi delle istituzioni politiche, ma anche al protagonismo che hanno preso il corpo, la sessualità e la libertà femminile. Stefano Levi la mette in relazione con la «rivalsa identitaria maschile»: conformismo confessionale, di comunità, di etnia, guerra di genere per la proprietà delle donne. Si può pensare che la durata e il fascino della religione venga dal fatto l’aspetto sessuato e sessuale lì è esplicito – non rimosso -, teatralizzato e spettacolarizzato. Vi si possono leggere confusi amore e violenza, il sogno di armonia degli opposti e il sessismo, il razzismo.
La religione parla di madri, figli, padri, nascite, morti e resurrezioni, dannazione e riscatto della carne, dell’umano, del femminile. La religione sublima in modo evidente il rapporto tra i sessi, le identità del maschile e del femminile nella loro ambiguità: figure che strutturano rapporti di potere ma anche d’amore, che tengono dentro la complementarietà e la spinta alla riunificazione, come una sorta di «unione mistica».
Forse è proprio da ricercare in questa ambiguità la ragione prima del consenso di cui la religione gode anche presso le donne.
http://ilmanifesto.info/laldila-senza-figlie/
TRAGICO È L’AMORE: NON S’INCONTRA L’ALTRO MA LA SUA IMMAGINE
di Diego Fusaro, La Stampa – Tuttolibri, 13 marzo 2015*
Il rapporto vitale che lega tra loro in un nesso indissolubile la filosofia e l’amore è da sempre oggetto di attenzione non solo da parte dei filosofi. Si sa, del resto, che la filosofia è vocazionalmente affine alle logiche dell’eros. È una verità antica quanto il Simposio platonico. In esso, Socrate ci ricorda che il filosofo è, alla stregua dell’innamorato, in tensione verso ciò di cui è privo, ma che desidera possedere. A metà strada tra il sapiente e l’ignorante, il filosofo sa di non sapere e, per ciò stesso, desidera sapere: aspira a possedere ciò di cui si sa privo. Ma anche l’amore, per converso, è esperienza intimamente filosofica. Esso consiste nel riconoscimento che solo mediante il nesso con ciò che in apparenza è altro da sé, il sé può costituirsi. In antitesi con il vitreo teatro delle apparenze e, a maggior ragione, con l’odierno dogma che fa dell’individuo autocratico il centro del mondo, l’esperienza amorosa mostra che il vero non risiede nell’io individuale e irrelato, ma nell’unione erotica duale. In essa, come dirà Hegel, il separato non si estingue, ma cessa di essere separato: diventa parte di una relazione duale. Vi si schiude una nuova prospettiva sul mondo, il cui pathos consiste, con la bella immagine di Lévinas, nell’insormontabile dualità degli esseri.
Ancora recentemente, diversi autori si sono interrogati sull’essenza dell’esperienza erotica. Da una prospettiva scetticheggiante ha interrogato l’amore il bel libro di Marco Vozza, Scepsi amorosa (Il Prato). Vozza sottopone al dubbio corrosivo dello scetticismo l’esperienza amorosa: non sarà forse che nell’amore ci illudiamo di incontrare l’altro, quando in verità non usciamo mai dagli angusti confini del nostro io? In ciò risiede, a dire di Vozza e della sua originale rilettura di Simmel, la tragedia dell’amore: non ci incontriamo mai davvero, giacché entriamo in relazione non con l’altro, bensì con un’immagine luminosa che dell’altro abbiamo edificato tramite il lavoro inconfessabile della nostra immaginazione produttiva. L’amore rivelerebbe, così, la propria essenza di «esperienza del nulla»: con le parole di Paul Valéry, «l’amore dell’altro è un travestimento dell’amore del medesimo».
Nel suo Gli equivoci dell’amore (Mursia), dal canto suo, Moreno Montanari sottopone l’eros a un’appassionata e appassionante trattazione filosofica. Lo intende non tanto come una mera relazione a due, ma, in maniera più estesa, come una condizione dell’essere senza opposti e tale da realizzarsi nella condivisione di tutto ciò che esiste; una condizione, dunque, in cui l’altro, lungi dall’estinguersi, continua a esistere, rendendo però possibile una nuova esperienza del mondo, non più centrata sulla propria individualità irrelata.
Questo tema è anche al centro del brillante saggio di Massimo Recalcati, Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa (Raffaello Cortina). Recalcati mostra magistralmente come l’amore sia forza in grado di schiudere un mondo duale. Più che ricongiungere gli amanti, secondo il mito platonico delle due metà, l’amore permette loro di vivere un’esperienza duale, centrata sulla differenza e non sull’identità.
Del resto – ed è un tema sul quale anche Montanari insiste – l’amore vero resiste al tempo e, insieme, introduce in esso l’unica esperienza dell’assoluto e dell’eterno che sia possibile nel piano dell’immanenza: ossia quella del legame d’amore con l’altro inteso come insostituibile, nella forma di una relazione che aspira a durare per sempre. Per questo, come sapeva Lacan, la parola magica dell’amore è quell’encore in cui si condensa la fedeltà al medesimo. Il vero amore cresce mentre si consuma: assume la forma di un inconfessabile volere ancora uno stesso che non basta mai.
Oltre a gettare luce sulla stessa impresa della filosofia come erotica del sapere, l’esperienza d’amore permette anche di resistere rispetto all’odierna epoca della miseria. Come ricorda Recalcati, il nostro è il tempo dell’«ideologia del nuovo», in cui nessun sentimento e nessun legame possono stabilizzarsi. Essi sono vissuti, alla stregua della circolazione delle merci, come soddisfazioni transeunti e mai definitive. L’amore, dal canto suo, in quanto fedeltà al medesimo, ma poi anche in quanto conferma e durata, costituisce una forma di resistenza alle logiche illogiche del presente, in grado di sperimentare solo quello che, nel suo bel libro, Zygmunt Bauman ha definito l’«amore liquido» (Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi, Laterza, 2005).
Nel tempo della liquidità universale, anche l’amore finisce per essere riconfigurato in forme alienate. Come ricorda Bauman, non vi è legame stabile e solido: e anche l’esperienza amorosa finisce sempre più spesso per essere «a tempo determinato», strutturalmente precaria e insoddisfacente. Si eclissa la formula romantica «finché morte non ci separi». In suo luogo, si ha una dilatazione spropositata dei confini delle esperienze dette amorose: accade, così, che anche una fugace relazione di una notte viene impropriamente etichettata come «relazione d’amore».
Sia Recalcati sia Bauman insistono sul carattere fecondamente resistenziale dell’esperienza amorosa: la quale, con la sua fedeltà al medesimo, si contrappone non solo alla transitorietà universale della società dei consumi, ma anche alla mercantilizzazione di tutte le relazioni a cui sempre più va incontro il nostro tempo. Quest’ultimo riduce gli uomini a mero «capitale umano» e misura gelidamente, secondo il timbro della quantità, i sentimenti e le emozioni come «investimenti affettivi». L’amore istituisce una relazione per sua natura sottratta all’assiomatica dell’utile ed esposta all’esperienza del dono; una relazione in cui all’altro si offre anzitutto se stessi, gratuitamente, senza sperare egoisticamente in un tornaconto. Non è dato sapere se l’amore salverà il mondo. Sicuramente si può dire che, finché vi è amore, vi è speranza.
* Il pezzo è apparso on line il 20 marzo 2015
MASSIMO RECALCATI: “UN’ORA DI LEZIONE CAMBIA LA VITA” da rainews.it, 12 marzo 2015
Lo sostiene lo psicanalista e scrittore Massimo Recalcati nel suo ultimo libro “L’ora di Lezione”. Recalcati in questi giorni partecipa da protagonista alla sesta edizione di LibriCome, all’auditorium parco della musica di Roma. In una rassegna che quest’anno è dedicata interamente alla scuola. Fausto Pellegrini ha incontrato Recalcati, che ha raccontato così la sua idea di scuola. Che parte dalla riscoperta del ruolo fondamentale degli insegnanti.
Vai al link:
I più recenti pezzi apparsi sui quotidiani di Massimo Recalcati e Sarantis Thanopulos sono disponibili su questo sito rispettivamente ai link:
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4545
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4788
(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)
0 commenti