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Marzo 2015 V – Differenze

5 Apr 15

A cura di Luca Ribolini

Paolo Veronese, Venere e Adone 

 

«DESIDERARE ALTRO». Si tende sempre ad andare al di là di ciò che si ha, non si è mai soddisfatti di nulla 
di Daniela Larentis, ladigetto.it, 27 marzo 2015

La parola «desiderio» può rimandare banalmente, di primo acchito, alla scena del bambino con le dita e la bocca sporche di marmellata o a qualche altra accattivante immagine che ha a che fare con la trasgressione, pensiamo per esempio al mito di Adone, la cui madre, Mirra, un bel giorno si trovò a desiderare niente meno che suo padre Cinira, re di Cipro.
Tanto fece che, a farla breve, con l’aiuto della vecchia nutrice (la madre pare che avesse fatto voto di castità) riuscì ad unirsi carnalmente più volte a lui, ponendo un’unica condizione e cioè quella di non farsi riconoscere. Però il padre a un certo punto divenne curioso e scoprì che la giovane amante altri non era che la propria figlia, così, in preda a una sconfinata rabbia, la rincorse con la spada per ucciderla.
Quando la raggiunse lei, grazie all’aiuto degli dei, era già bella che trasformata in un albero, ma il padre non si fermò e dalle ferite inferte nel tronco uscì una resina profumata, la mirra appunto. Nove mesi dopo, dalla corteccia uscì niente meno che Adone, il celebre giovanotto di cui si innamoravano tutte le donne, il frutto di un desiderio incestuoso.
 
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http://www.ladigetto.it/permalink/42482.html 

 

“UNA NUOVA AMICA” DI FRANÇOIS OZON: UN “DIVERTIMENTO” FREUDIANO 
di Gianfranco Cercone, notizie.radicali.it, 23 marzo 2015

Si possono fare buoni film applicando le teorie di Freud? Certo, la verità di cui va alla ricerca l’arte non si può ottenere attraverso l’applicazione di una formula, sia pure delle formule geniali dell’inventore della psicanalisi. Quella verità, quando è raggiunta, è evidentemente il frutto di una libera intuizione, che certo può nutrirsi di varie fonti culturali, ma assimilandole, rielaborandole in modo autonomo e originale.
È uscito un film che ha più di un debito con le teorie di Freud, senza tuttavia applicarle scolasticamente; ma facendone anzi il principio di un gioco.
Si tratti di Una nuova amica, diretto da quel regista di grande talento che è François Ozon.
L’amica a cui si riferisce il titolo è in effetti un uomo: il marito dell’amica del cuore di una ragazza, il quale, alla morte prematura della moglie, vuoi per compensare quella perdita, vuoi per una sua vecchia inclinazione, si mette a indossare gli abiti che erano della moglie, si trucca e calza una parrucca bionda per essere biondo come lei.

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http://notizie.radicali.it/articolo/2015-03-23/editoriale/una-nuova-amica-di-fran-ois-ozon-un-divertimento-freudiano 
 

RISÈ TORNA COL “MASCHIO SELVATICO”  
di Redazione, vvox.it, 24 marzo 2015

Claudio Risé, psicoterapeuta e psicoanalista, torna a dare gran voce al protagonista indiscusso del suo cultbook degli anni Novanta con una versione riveduta e ampliata: il Maschio Selvatico, quell’uomo che non è buono, non è neutro ma è politicamente scorretto proprio per la sua capacità di non demandare, in questi tempi genericamente neutri, la propria salvezza a Stati, ordini professionali o burocrazie.
In un’intervista a La Croce, quotidiano diretto da Mario Rinolfi, Risè spiega che nel Maschio Selvatico/2 si parla del «maschio occidentale che ha bisogno di avventure buone, che abbiano a che fare con la sua storia profonda e i suoi ideali. Anche per non ridursi a cercare di uscire da cinismo e noia arruolandosi nell’ISIS come fanno tanti disperati nel tentativo di liberarsi del nichilismo post modern». Nel libro si parla di un «maschio occidentale fisicamente e psicologicamente perduto, se con un guizzo di fantasia non ritrova la strada della selva e del Padre che ha creato la selva e anche l’uomo. Fa fatica a riprodursi, è afflitto dall’impennata delle malattie mentali, passa da zero autostima a momentanee esaltazione che poi finiscono negli abissi. Ha urgente bisogno di ritrovare il Selvadego che, come diceva Leonardo Da Vinci, è colui che si salva».
Il problema è che «nessuno ha più paura del maschio cattivo (ed è questo che preoccupa). Da molto più fastidio il maschio buono, che vorrebbe essere buon marito e buon padre. Magari anche coraggioso e cavalleresco. Quello i media lo presentano come un idiota, un guastafeste che non si accontenta di storielle». La relazione tra maschio selvatico e ruolo paterno si palesa nel fatto che, «appena può, il maschio passa al bosco e lo fa perché nella natura incontaminata, vicino al Padre che l’ha creata e della cui presenza ha bisogno e nostalgia, vive una pienezza che la civiltà della vita fabbricata in laboratorio non gli dà.»
Il luogo dove recuperare questo selvatico maschile perduto è nella «semplicità e nel silenzio. Nella società globale della comunicazione non stop la parola viene usata come strumento principale per diffondere l’asservimento ai poteri dominanti: meglio ridurre discorsi e ascolto ai minimi termini. Piuttosto meglio approfondirli. Semplicità e silenzio corrispondono da sempre all’Archetipo del Mondo Selvatico, nel quale si esprimono gli aspetti umani e spirituali del Maschio e della Donna Selvatica. Il Mondo Selvatico della creazione originaria è lo spazio fisico e psicologico nel quale l’uomo ritrova il suo essere creatura che non si è messa da sola al mondo
 
http://www.vvox.it/2015/03/24/rise-torna-col-maschio-selvatico/ 

 

GLI INSEGNANTI LECCHESI A LEZIONE DI EROTISMO CON MASSIMO RECALCATI 
di Manuela Valsecchi, lecconews.lc, 24 marzo 2015

Avevate mai pensato alle lezioni di scuola come ad una forma di erotismo? Massimo Recalcati – psicoanalista lacaniano di fama internazionale – sì, e ha spiegato cosa intende con questa espressione ieri sera al Teatro della Società, ad un pubblico prevalentemente composto da insegnanti, alcuni dei quali stanno frequentando un corso di aggiornamento, ispirato proprio all’ultima pubblicazione del professore: “L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento”.
Il punto centrale dell’intervento di Recalcati è, come si può immaginare, la scuola. Questa istituzione ricopre un ruolo di primo piano dal momento che – secondo l’analista – ognuno di noi non è altro che gli incontri che ha fatto lungo il suo percorso e la scuola è il primo fondamentale luogo di incontro e il punto culminante del processo di svezzamento dalla famiglia originaria.
Il professore immagina che la scuola si nutra di due anime: un’anima grigia, fatta di edifici, programmi, aule, orari, verifiche, scadenze (che egli ha definito “dispositivo” in senso foucaultiano per chi se ne intende) e un’anima che è luce, apertura, incontro (“Lichtung” per dirla con Heidegger, sempre per gli amanti della filosofia). Da un lato la scuola come incontro può darsi solo se esiste la scuola come dispositivo grigio; dall’altro il fatto che possa nascere desiderio e amore per la conoscenza a partire dalla circostanza che la scuola è un vincolo e un obbligo sociale, è descritto da Recalcati come “il miracolo centrale dell’ora di lezione” e come scommessa fondamentale di ogni insegnante: solo se il maestro – in senso lato – riesce a far diventare il libro un corpo, una vita, qualcosa a cui appassionarsi, di cui innamorarsi, solo se fa questo riesce a trasformare l’allievo da un recipiente passivo ad un amante che brama di sapere.
Questo è quello che lo psicoanalista intende con l’espressione “erotizzazione della didattica” e rappresenta il primo miracolo dell’insegnamento, ma non l’unico. Il secondo miracolo, la seconda sfida dei maestri consiste invece nella “prevenzione primaria” sostiene Recalcati, che consiste nell’operare affinché i ragazzi non si perdano nella droga, nella delinquenza, nella devianza. Come ci insegna Socrate infatti, se noi conosciamo cosa è bene e cosa è male, di conseguenza agiremo in vista del bene e ci terremo alla larga dal male. Ma come possono gli insegnanti, con tutte le difficoltà che attraversa l’istituzione scolastica, accollarsi anche questo fondamentale compito educativo? Facendo bene il loro lavoro, afferma il professore. Infatti “le forme di schiavitù che il nostro tempo patisce – droga, delinquenza, devianza – sono alternative all’erotizzazione della vita”, ciò che erotizza la vita, che spinge la vita verso l’altro, che la rende curiosa per l’altro costituisce un vaccino per le schiavitù del nostro tempo.
Come la scuola può facilitare questo, come può essere davvero un’educazione all’erotizzazione della vita? Recalcati risponde citando Pasolini: “Dove c’è la cultura non c’è la droga e dove c’è la droga c’è un vuoto di cultura”. Dove per ‘droga’ possiamo intendere tutte le forme di schiavitù e per ‘cultura’ possibilità dell’erotismo: questa possibilità dell’erotismo è ciò che il maestro deve trasmettere, attraverso il proprio amore e la propria passione per ciò che insegna. Il secondo miracolo consiste dunque nella trasformazione dei corpi in libri: “se la cultura avvia il soggetto al discorso amoroso, lo apre verso l’altro e l’altro che incontra non è più solo un corpo, uno strumento di cui godere, da usare, ma diventa un libro, qualcosa che tratto con cura, attenzione e rispetto. Trasformare il corpo in libro è il miracolo dell’amore ed è un effetto dell’incontro con la cultura”.
La serata inaugurale di questa ultima settimana della rassegna letteraria “Leggermente” ha visto come protagonisti non gli studenti – per una volta – ma gli insegnanti, che sicuramente si sono portati a casa molti spunti di riflessione sul senso del proprio lavoro e del proprio ruolo nella società e nella vita dei più giovani.
 
http://lecconews.lc/news/gli-insegnati-lecchesi-a-lezione-di-erotismo-con-massimo-recalcati-103007/#.VRGqafmG-YI 

 

ZAYN… SE NON TORNI MI SVENO! 
di Luca Varani, ilquotidianoitaliano.it, 27 marzo 2015

Mentre Zayn Malik, il dimissionario cantante degli One Direction, dichiara tutta la sua ritrovata serenità (”Ho fatto la scelta giusta. Non ho mai avuto così tanto controllo in vita mia. So che sto facendo quello che è più giusto… Per me e per i ragazzi. Per questo mi sento bene“), molti fans della band inglese, sgomenti, versano in condizioni preoccupanti. Basta fare un giretto sul web esplorando l’hastag #cut4Zayn: decine e decine di foto in cui le adolescenti di tutto il mondo mostrano i loro polsi tagliati e dichiarano di voler suicidarsi. Utilizzare l’autolesionismo con la speranza che il proprio idolo faccia un passo indietro è davvero una cosa assurda… come spesso assurde sono le manifestazioni-tipo del fan. Le loro sono parole disperate, a commento di immagini che sembrano tratte da un film di Dario Argento: ”Non credo che Malik abbia lasciato la band, voglio morire”, o ancora ” Tagliamoci i polsi così Malik torna indietro”.  Ora nei salotti buoni della tv ci si interrogherà sul ruolo degli insegnanti e dei genitori e sulla libertà che i giovani hanno dell’uso dei social.
Ma è davvero possibile che nessuno si accorga di tale follia? “L’autolesionismo sta diventando sempre più una moda dal mio punto di vista e tutto ciò è molto pericoloso” dichiara Leonardo Mendolicchio psichiatra – psicoanalista direttore di Villa Miralago, centro per la cura dei disturbi alimentari ”L’autolesionismo è comunque una risposta ad un trauma psichico come può essere ad esempio l’abbandono. L’abbandono è comunque un taglio, una separazione tra me e chi se ne va da me. L’autolesionista sposta la questione dal piano relazionale psichico al piano corporeo. Sposta così il dolore emotivo al dolore fisico, anestetizzando la questione emotiva, nel far vedere il sangue spera di attirare l’altro a sé. Comprendo che una ragazzina possa tagliarsi per una storia d’amore ma credo che nel caso specifico dei One Direction ci sia una fomentazione ed esasperazione dell’autolesionismo che non fa bene a nessuno ed è fatta ad arte, sembra quasi un’operazione di marketing per far parlare dell’accaduto“.
Ai tempi dei magici Beatles si urlava e si piangeva, ora ci sono ragazzi che si svenano… e non solo per acquistare cd e memorabili del loro idolo pop preferito. Verrebbe quasi da parafrasare Nanni Moretti; “Ve li meritate gli One Direction”. Ma sarebbe troppo facile.
 
http://www.ilquotidianoitaliano.it/cronaca/2015/03/news/zayn-se-non-torni-mi-sveno-181214.html/ 

 

LA DIFFERENZA SESSUALE C’È. È DENTRO DI NOI 
di Luisa Muraro, 27esimaora.corriere.it, 27 marzo 2015

Nel Manifesto di Rivolta femminile (1970) c’è scritto «Ci costringono a rivendicare l’evidenza di un fatto naturale». Metto queste parole sullo stendardo con cui scendo in campo per affermare che la differenza sessuale c’è. Ma, attenzione, a non intendere male. Non ho detto che c’è differenza tra uomini e donne, come si dice correntemente. Quel «tra» è un abbaglio. Tra i sessi c’è di tutto: usanze, mode, pregiudizi, leggi, c’è il diritto, il galateo, la scienza, ci sono anche muri, guardie, passaggi… Pensate a una linea di confine tracciata e vigilata da imperativi storici di diversa natura e forza. Questi imperativi hanno un certo potere d’imposizione, che varia da cultura a cultura, unito a un più insidioso potere di mediazione, che è di farci pensare e giudicare così o colà, interpretando anche la nostra personale esperienza. Ma non hanno il potere di arrivare al fondo dell’esperienza, al quale si arriva soltanto con qualcosa di vero. Quest’ultima affermazione prendetela per ora come un punto di resistenza che metto avanti, un avamposto.
La differenza sessuale non è tra, è in. Mi è interna, inerisce alla mia esistenza e io così la concepisco, così la vivo, come qualcosa da cui non posso prescindere, anche volendo. Posso mascherarla, nel senso di enfatizzarla, occultarla, adattarla, per sfida o in conformità, libera o forzata, consapevole o inconsapevole, a quegli imperativi del trache dicevo. Spesso bisogna farlo. La differenza che c’è, sono io e non sono io; non aggiunge e non toglie. Detto in generale, si tratta di una mancata coincidenza, di un differire di me da me, qualcosa che si vive come un eccesso e una carenza che non si compensano fra loro, uno stato somigliante al trovarsi nel bisogno dell’essenziale disponendo intanto di ricchezze superflue.
Sento l’obiezione: ma questo è il proprio della condizione umana pari pari… Appunto! Secondo la veduta che sto esponendo, non si dà in primis l’essere umano, il famoso Uomo con la u maiuscola e poi la donna/l’uomo; l’umanità sono donne, l’umanità sono uomini. L’umanità sono altri e altre che vivono in un modo o nell’altro quella mancata coincidenza che ho detto, e non c’è teoria che possa sanarla.
Si fanno molte teorie della differenza sessuale, come se fosse qualcosa che bisogna spiegare. Lo è, perché, se c’è differenza, c’è altro, ma non è detto che la conseguenza sia di farci sopra una teoria. Si può anche invitarlo a pranzo, questo «altro», sognarlo, giocare insieme… Segnalo soltanto questo punto che è la cosa più importante che ho imparato leggendo Feyerabend, Contro il metodo, dove descrive la cosmologia arcaica secondo cui troppe sono le cose, gli eventi e le situazioni, per averne una conoscenza completa, e la oppone alla classica concezione del sapere che diventerà la nostra (moderna occidentale).
Le teorie meno sbagliate sono quelle infantili, giustamente valorizzate da Freud. «I bambini hanno i bottoni», mi spiegò una frequentatrice della scuola materna dell’età di quattro o cinque anni. E le bambine? «Noi li abbiamo sotto»; il paradigma proveniva dalla forma dei grembiuli in uso nella scuola, chiusi davanti quelli dei maschi, dietro quelli delle femmine o, più precisamente, dal disegno che lei stessa ne aveva fatto, per cui il dietro, messo sulla facciata del foglio, diventava un invisibile «dentro», proprio del sesso femminile.
Freud stesso ha avanzato una sua teoria di origine infantile, quella della castrazione: all’inizio eravamo tutti di sesso maschile, poi è successo che una parte dell’umanità ha perso gli attributi virili ed ecco le donne. In seguito, Lacan ha precisato che si tratta di una castrazione simbolica e che la cosa riguarda anche gli uomini di sesso maschile.
Anche Aristotele ha teorizzato che la causa della differenza sessuale sia riconducibile ad un incidente per cui, invece di un maschio, nasce una femmina. Aristotele è un grande osservatore della natura e del mondo umano, è filosofo e insieme scienziato, osserva e ragiona. Nel trattato Sulla generazione degli animali scrive: «Il primo inizio è nascere femmina e non maschio», dice proprio così, «ma questo è necessario alla natura». Perché «ma»? Da qui prende avvio un discorso molto sottile: è necessario che nascano femmine, ma queste non nascono per necessità, nascono per un anomalo indebolimento del principio generativo (il maschio). Dopo di che ecco il ragionamento che sana l’incongruenza: l’anomalia che fa nascere le femmine non ha la necessità delle cose necessarie a raggiungere un fine, si tratta di una «necessità accidentale». (La donna e i filosofi, p. 79). Che cosa vuol dire? i traduttori di questo difficile passo non si sono ancora messi d’accordo. L’idea però mi pare chiara: le femmine sono necessarie, ma il sesso femminile non è normale. Credo che questo lo pensino anche i combattenti del grande Califfato, solo per fare un esempio. Per parte mia, non mi sento di respingere come ovviamente sbagliato quel pensiero. Direi piuttosto che è un pensiero incompleto.
Restiamo nell’antichità. Per Aristofane, intendo il personaggio che parla nel Simposio di Platone, l’incidente sarebbe la decisione di Zeus di dimezzare delle entità che, in origine, erano rotonde combinazioni di uomo con uomo, oppure donna con donna oppure uomo con donna. Non mi dilungo. Ai nostri giorni molti aderiscono alla teoria che in ogni essere umano ci sarebbe una variabile combinazione di maschile e femminile. Credo che anche qui si tratti di una teoria che tenta di rendere conto di un sentire, un sentire che in questo caso sembra essere condiviso da donne e uomini. Io ci vedo inoltre una versione semplificata e pacificante della mancata coincidenza di sé con sé.
Queste e altre teorie, come ho detto, le considero più o meno sbagliate, inevitabilmente. Le teorie sono totalità coerenti, cioè trasparenti a sé stesse. L’epistemologia lo sa, una teoria non si fa aggiungendo cosa a cosa. Ma, nel caso della differenza sessuale, si tratta del nostro essere corpo e parola insieme, in un rapporto di insormontabile eterogeneità, e qualsiasi cosa si dica, c’è sempre altro che domanda la parola e c’è sempre qualcosa dentro che è di troppo.
Nondimeno possiamo trovare qualcosa di vero in ogni una. C’è, nella teoria-mito di Aristofane, un punto che trovo molto illuminante ed è il sentimento d’incompiutezza interpretato come sintomo o manifestazione della differenza sessuale. Sentimento che non si placa necessariamente con la complementarità. Infatti può dare adito a una ricerca senza fine di sé in altro da sé. Questa è l’interpretazione principale che del mito ha dato Simone Weil. Simile alla sua è quella di un’anonima giovane donna che mi disse: «La mia anima gemella è morta in un incidente di moto, prima del nostro incontro». Ero bambina e sono rimasta incantata dal trovarmi dentro una fiaba vivente.
La differenza sessuale è un tema inesauribile e io credo di immaginare il perché.
La sessuazione, come sapete, è un fatto primordiale, una invenzione della vita tesa di suo a durare. L’incontro del patrimonio genetico di due, uguali e differenti, pare che sia una mossa vincente. Ma c’è un imprevisto, che è l’umano. O, più precisamente, l’irruzione del fatto primordiale nella sfera della parola, cioè del vero, del giusto, del buono (e del suo contrario).
La questione diventa allora: come fare ordine?
Ecco svelato il significato del discorso di Aristotele, in quel punto del suo discorso in cui dice «ma». La riflessione sulla riproduzione degli animali lo spinge a elaborare la nozione di una necessità che non è necessaria ma accidentale, in quanto non è finalizzata a…, come invece le nostre azioni consapevoli. Nella strana nozione di una necessità accidentale traspare la tesi darwiniana che soppianterà il lamarckismo. Ma perché il filosofo antico dice «ma»? Per separare l’ordine naturale, dove le femmine sono il principio, dall’ordine giusto e vero delle cose, dove il primato è del maschio, cioè dell’uomo. Ai nostri occhi Aristotele sbaglia in quanto considera l’ordine patriarcale come l’unico degno di essere chiamato ordine. Ma non sbaglia a considerare che la differenza dei sessi sia una questione tutt’altro che semplice, infatti se la pone non soltanto come studioso del mondo animale ma anche e soprattutto come filosofo politico.
Tutte le civiltà, che io sappia, si sono misurate con la questione e le hanno cercato una qualche risposta, anzi una grande varietà di risposte, con la lingua, le arti, la moda, gli usi della buona creanza, i codici, i tabù, l’onomastica, i privilegi, le gerarchie, le esclusioni…
Sempre lavorando per immagini, ricordo i miei soggiorni alpestri con la vista degli animali al pascolo che ci guardavano con grandi occhi e mi pareva di capire che fossero stupiti di vederci come siamo, noi che saremmo apparentemente loro fratelli e sorelle, o quanto meno cugini. Mi pareva che notassero soprattutto i nostri vestiti: braghette e gonne, capelli lunghi con il nastro, capelli corti quasi rasati, e mutande per nascondere l’innominabile intimità.
Ma la sorpresa non finisce qui. Una mia studentessa adolescente ci raccontò che un giorno, tornata a casa prima del previsto e salita in camera sua, vi trovò il fratello minore vestito con i suoi vestiti e truccato con i suoi trucchi, che si ammirava allo specchio: la sorpresa la paralizzò al punto che non gli saltò addosso, come avrebbe fatto con una sorella, e lui ebbe il tempo di mettersi in salvo.
La differenza sessuale è un imprevisto che falsifica le teorie, ultima la gender theory. Nella prospettiva disegnata da Feyerabend descrivendo la cosmologia greca, la gender theory dei cinque generi ha qualcosa di doppiamente aberrante: perché solo cinque? Potrebbero essere tanti e tante, quanti e quante siamo su questa terra. Che cosa cercava quel ragazzino in camera della sorella? Era un viaggiatore, anzi un esploratore, in cerca di altro per trovare se stesso.
 
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http://27esimaora.corriere.it/articolo/la-differenza-sessuale-ce-e-dentro-di-noi/ 

 

ANDREAS LUBITZ, DECIDERE DI SCHIANTARSI PERCHÉ NON SI RIESCE PIÙ A “VOLARE” 
di Luigi Campagner, ilsussidiario.net, 27 marzo 2015

Ieri ho seguito le notizie sollecitato e aiutato da amici che mi hanno mandato messaggi a ripetizione per tenermi aggiornato e forse per avere in cambio un parere o un responso, che comunque non ho. Chiara, la figlia di un’amica che mi ha informato in un pomeriggio bombardato dalle news, ha battuto tutti sul tempo, anche il procuratore di Marsiglia, Brice Robin, che conduce le indagini: “l’ha fatto apposta!”. Intuito femminile? Analisi lucida di una giovane mente priva di pregiudizi? A ogni modo la traiettoria dell’aereo è apparsa subito a tutti troppo regolare per lasciare spazio all’ipotesi di un guasto. Poi stiamo parlando di tecnologia tedesca. Meglio scommettere sull’errore umano. Andreas Lubitz, 27 anni, pilota. Andreas Lubitz, 27 anni, pluriomicida. Le due frasi non sono conseguenti, infatti c’è un salto logico che sta tenendo in sospeso i consumatori di notizie di tutto il mondo (e gli utilizzatori di Airbus low cost, pure). Com’è possibile collegare un giovane di successo, secondo canoni universalmente condivisi, con un’azione così tragicamente distruttiva da evocare le figure nichiliste dei più riusciti romanzi di Dostoevskij?
 
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http://www.ilsussidiario.net/News/Cronaca/2015/3/27/AEREO-CADUTO-1-Andreas-Lubitz-decidere-di-schiantarsi-perche-non-si-riesce-piu-a-volare-/594687/ 

 

EUGÈNE IONESCO, “ASSURDO” NON RICORDARLO OGGI 
di Angela D’Errico, linkiesta.it, 28 marzo 2015 

“La commedia umana non mi assorbe abbastanza: non appartengo interamente a questo mondo”, scriveva Eugène Ionesco nei suoi Diari in frantumi. Francese di origini romene, Ionesco fu tra i drammaturghi più emblematici del secolo scorso. Morì il 28 marzo 1994, nella sua casa di Parigi. Le sue oltre trenta opere costituiscono la proiezione di un mondo interiore, di un dramma individuale. Il suo, per l’appunto. Un’espressione dell’irrazionale dove il palcoscenico diventa un mezzo per interrogarsi su chi si è davvero. Ionesco mise in scena l’angoscia esistenziale generata dal secondo dopoguerra, quando il quadro dei valori tradizionali crollò miseramente ricostituendosi in forma diversa, quella della società del benessere. Una società priva di ideali, dimentica del dramma trascorso, alienata e chiusa alla comunicazione. Era il “teatro dell’assurdo”, espressione coniata dal critico Martin Esslin nel saggio The theatre of absurd del 1961, che accomunava anche l’irlandese Samuel Beckett (1906-1989) e l’esistenzialista francese Jean-Paul Sartre (1905-1980).
Il risultato sulla scena non è realismo, né filosofia, né psicanalisi, né storia. È comico, ma neanche semplice divertimento. Le situazioni sono paradossali: l’azione è circolare, riportando lo spettatore al punto di partenza, o in salita precipitosa verso un’estremità assurda. “Bisognava esasperare gli effetti del teatro, ingrandirli, sottolinearli, accentuarli al massimo. Spingere il teatro al di là di quella zona intermedia che non è né teatro, né letteratura. Spingere tutto al parossismo, là dove sono le fonti del tragico. Fare un teatro di violenza: violentemente comico, violentemente drammatico.” (Ionesco, Note e contronote, 1962).
I personaggi sono intrappolati in un mondo incomprensibile. Elementari, meccanici come robot e marionette, si trovano in una situazione di vuota immobilità. Sono fantocci, conchiglie vuote, manichini che “non sanno più parlare perché non sanno più pensare, non sanno più pensare perché non sanno più commuoversi, non hanno più passioni, non sanno più esistere”. Sono schiavi di un linguaggio che non favorisce la comunicazione, anzi la ostacola. Le parole, ripetitive e senza importanza, si dimostrano del tutto inadatte a esprimere il pensiero. Poco a poco, il meccanismo verbale disintegra il linguaggio: proverbi, onomatopee, vaniloquio, luoghi comuni, banalità. Il tutto in un ritmo folle e sempre più accelerato, come se i personaggi dibattessero per ragioni importanti, “per arrivare […], se questo fosse realizzabile, alla disarticolazione dei personaggi stessi. L’ideale sarebbe vedere le loro teste e le loro gambe progettarsi sul pavimento. Sfortunatamente, questo è impossibile”.
Come ne La cantatrice calva, prima opera teatrale, che appare nel 1950 a Parigi sulle scene del Théâtre des Noctambules. Ionesco, per il testo di quest’opera, si ispirò a un manuale di conversazione inglese, composto di frasi banali che non ammettono replica (“la settimana è composta di sette giorni”, “il pavimento è in basso, il soffitto in alto”, “Mr. Smith è impiegato”, “Mr. Smith e Mrs. Smith hanno tre figli”). Le relazioni sociali tornano a essere pura apparenza, prive di veri sentimenti, di desiderio di conoscenza. È un’”anticommedia”, una parodia del teatro senza sviluppo alcuno della narrazione. I due protagonisti, i borghesi Mr. e Mrs. Smith, recitano una serie di luoghi comuni, prendendo atto dello squallore di una società ormai massificata. L’arrivo del capitano dei pompieri in cerca di un incendio da spegnere, che ovviamente non c’è, costituisce il pretesto di un altro andirivieni di banalità che trova il suo culmine nella domanda “A proposito, e la cantatrice calva?”, e alla risposta: “Si pettina sempre allo stesso modo”.
Ionesco è in guerra contro il théâtre de divertissement degli anni Quaranta. In guerra contro il teatro engagé, veicolo di ideologie, strumento per asservire le masse e illusione di contare qualcosa. In guerra contro il théâtre réaliste, che condanna lo spettatore a una psicologia superficiale e obsoleta. È affascinato dai mezzi d’investigazione della psicanalisi, capaci di sondare l’ignoto e di aprire la scena alla rappresentazione poetica dell’immaginazione, degli incubi, delle visioni fantastiche. “Tout est permis au théâtre”. I generi possono essere mescolati, passando dal registro più alto a quello grottesco, ai meccanismi del teatro dei burattini, della music-hall, o del circo. Il pubblico deve essere continuamente stimolato: deve ridere, e un attimo dopo spaventarsi. Deve identificarsi con i personaggi in scena. Deve dimenticare dove si trova per tentare di svelare il proprio inconscio.
Una contemporaneità paradossale, quella di Ionesco, dove il paradosso non è solo critica di costume ma sembra ormai l’unico strumento per capire la realtà. Un tentativo che, ahimè, in tutte le opere fallisce, poiché nell’autore non c’è risposta. L’uomo sembra dunque incapace di vivere felice perché divorato dall’incomprensibile nostalgia di un altrove che nessuno riesce a definire.
 
http://www.linkiesta.it/blogs/faber-fabri/eugene-ionesco-assurdo-non-ricordarlo-oggi

 

LA LEZIONE PIÙ PREZIOSA. L’UOMO È UN PERICOLO PUBBLICO. Un ruolo decisivo l’ha avuto il fattore umano 
di Pietro Ostellino, ilgiornale.it, 28 marzo 2015  

Nel disastro dell’aereo della Germanwings schiantatosi sulle alture della Provenza, un ruolo decisivo l’ha avuto il fattore umano. È stato il copilota, stressato e infelice, a condurre consapevolmente l’aereo contro la montagna per suicidarsi, pur sapendo che, così facendo, avrebbe ammazzato decine di innocenti passeggeri.
Ora, il mondo dell’aviazione civile riflette sul caso, non riuscendo a darsi una spiegazione razionalmente attendibile che consenta di trovare un rimedio certo, in futuro, per evitare incidenti analoghi. Ci sono tanti modi tecnici per controllare l’efficienza di un aereo e, sotto questo profilo, chi viaggia può farlo, salvo imprevedibili incidenti, con la certezza che arriverà a destinazione senza correre alcun pericolo. Ma non ce n’è uno che attenga alla natura umana per individuare l’imperscrutabile che passa per la mente di un uomo, nella fattispecie di un pilota, in modo da, se individuato, conoscerlo e consegnare l’interessato a terra affinché non incorra in decisioni irreparabili per la sua stessa incolumità e per quella dei suoi passeggeri. Certo, ad un esame psicologico accurato – a cui peraltro le compagnie sottopongono regolarmente i propri piloti – la presenza di un qualche disagio psicologico può saltar fuori ed è possibile individuarlo, ma non c’è mai la certezza che nel profondo di una coscienza non sia rimasta una scoria che può portare a comportamenti irragionevoli.
Il caso umano del copilota della Germanwings rientra nella casistica dell’incessante ricerca psicoanalitica che l’uomo conduce da qualche decennio su se stesso per cercare di conoscersi.
 
Per continuare:
 
http://www.ilgiornale.it/news/politica/lezione-pi-preziosa-luomo-pericolo-pubblico-1110526.html

 

LA LETTURA DIVENTI UN VIRUS CONTAGIOSO. Libri per ragazzi, una sfida per gli adulti 
di Luigi Ballerini, avvenire.it, 28 marzo 2015

Capita che chiediamo ai ragazzi di fare quello che noi non facciamo, di vivere come noi non viviamo. Può essere un desiderio buono, anche legittimo, ossia che siano meglio di noi, che non cadano nei nostri errori, ma almeno non illudiamoci che così la strada diventi facile per loro, soprattutto non illudiamoci che basti dare certe indicazioni perché le cose automaticamente accadano. Un esempio è proprio la lettura, al centro dell’attenzione in questi giorni della Fiera del Libro per Ragazzi a Bologna. Desideriamo tanto che i giovani leggano, ma può accadere che siamo noi adulti i primi a non concederci una pagina sul divano; spesso in casa non si trovano libri appoggiati sui tavoli e sui comodini, a volte non girano nemmeno riviste e giornali.
Non si eredita la biblioteca di casa, con i suoi pochi o tanti volumi, si eredita il piacere della lettura. Così diventa tutto più facile, non altrimenti. Perché leggere è proprio un piacere. Tutte le statistiche e le analisi dicono che i lettori più forti sono quelli che non sanno ancora leggere, la cosiddetta fascia prescolare. Sembra un paradosso, ma non lo è.
 
Per continuare:
 
http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/la-lettura-diventi-contagiosa.aspx 

 

AUDIO

LUIGI BALLERINI A ‘FAHRENHEIT’ SU “IO SONO ZERO” 
di Redazione Fahrenheit, rai.it, 26 marzo 2015

Zero sta per compiere quattordici anni. Non ha mai toccato un altro essere vivente, non ha mai patito il freddo o il caldo, non sa cosa siano il vento o la neve. Zero è vissuto nel Mondo, un ambiente protetto, dove è stato educato, allenato e addestrato a combattere attraverso droni e a raggiungere obiettivi. A suo modo, Zero è felice. Quando un giorno il Mondo si spegne e diventa tutto buio, Zero pensa si tratti di una nuova grande prova. Cerca delle porte, involontariamente esce. Dal Mondo virtuale in cui è cresciuto entra nel mondo, quello reale, dove nevica e fa freddo, non si comunica attraverso schermi, non c’è nulla che lui sappia riconoscere. Inizia da qui la seconda storia di Zero che, in una fuga sempre più pericolosa da chi l’ha cresciuto, dovrà capire la ragione della sua esistenza e dovrà trovare un modo per vivere nel mondo reale, quello complicato dove dentro e fuori, sapori e odori, amore e ribellione esplodono. E poi la scelta. Tornare indietro? O affrontare una nuova vita? A quale mondo appartiene Zero?
Luigi Ballerini, Io sono Zero, Il Castoro
 
Vai al link:
http://www.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-dce9fe08-5af6-44fa-9f87-aa9d11babd9f.html
http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/puntata/ContentItem-6dc0ff52-8fc8-4291-9410-60510c0937f0.html  

I più recenti pezzi apparsi sui quotidiani di Massimo Recalcati e Sarantis Thanopulos sono disponibili su questo sito rispettivamente ai link:  
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4545  
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4788 

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com

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