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A scuola di #Valutocrazia.

12 Apr 15

A cura di Fabio Milazzo

Che cos’è la scuola?

E’ possibile analizzare la “scuola pubblica oggi”, i suoi paradossi e il mutato ruolo rivestito all’interno di una società che fa sempre più fatica a riconoscersi nelle Lyotardiane grandi narrazioni?
E che cos’è la scuola (oggi)? Da questo interrogativo apparentemente così scontato – chi non crede di sapere cosa sia la scuola?-, che con linguaggio filosofico si definirebbe di tipo ontologico, dovrebbe muovere ogni seria interrogazione sullo stato, la condizione e la funzione di quella che  non è soltanto la principale agenzia formativa dello Stato (quella almeno cui è affidato essenzialmente  il compito di formare la cittadinanza-democratica del domani), ma che è anche un «artefatto simbolico-immaginario attraversato da flussi di desiderio, proiezioni emotive, sollecitazioni affettive, e –soprattutto- il bersaglio dei più diffusi luoghi-comuni partoriti dalla collettività. Di questa scuola se ne parla tanto, in alcuni casi strategicamente, come avviene da parte delle governance, in altri semplicemente sulla base di credenze irriflesse e di retoriche non-argomentate che  fanno leva su una serie di stereotipi e luoghi comuni molto lontani dalla realtà delle cose»[1].
 
La scuola, infatti, è anche -soprattutto?- uno spazio di iscrizione per le retoriche irriflesse dell’immaginario collettivo, tanto che Roberto Sandrucci, in un saggio molto interessante fa riferimento nel descriverla a «La scuola sotto il genere della commedia»[2], una rappresentazione tragicomica di una realtà molto complessa catturata nei suoi aspetti ridicoli, disfunzionali e paradossali. Questa scuola, di cui si ride e ci si lamenta, descritta come un paradiso per fannulloni con tre mesi di vacanze all’anno, è in realtà un orizzonte complesso di contraddizioni – come la società di cui è lo specchio- che elude ogni facile rappresentazione, ogni tentativo di cattura attraverso narrazioni qualunquiste che mostrano, incidentalmente, il loro carattere osceno tipiche di una collettività che fa fatica ad elaborare ragionamenti e discorsi articolati, argomentati. La scuola, proprio per il particolare ruolo di ambiente di apprendimento entro il quale si costituisce la personalità dell’individuo che sarà, è particolarmente esposta ad almeno due rischi: quella di essere oggetto indiscriminato della ricetta risolutiva del sig. Mario Rossi, convinto per il semplice fatto di aver frequentato i corridoi e le aule di poter dire la sua e pretendere che questa sia la verità; quella di essere oggetto di rappresentazioni e distorsioni prospettiche frutto dei ricordi e degli effetti di senso prodottisi durante quel particolare segmento di maturazione onto-genetica che è l’adolescenza.


Valutare o controllare?

I rischi menzionati sono particolarmente evidenti nei giudizi espressi dal senso-comune sul tema della “valutazione” che, come ha mostrato Valeria Pinto in un saggio tanto critico quanto documentato – «Valutare e punire. Una critica della cultura della valutazione»[3], è l’architrave della retorica sul rilancio delle università, della scuola – e più in generale dell’amministrazione pubblica- italiana.

«L’insistenza sul dispositivo preventivo/educativo contrapposto a punitivo, l’enfasi su controllo, responsabilizzazione, qualità e suo miglioramento, nonché una precisa etica del lavoro, addirittura del lavoro intellettuale. Il tutto in una pretesa asetticità tecnica. È fin troppo facile osservare che questa neutralità è un inganno. Qualunque strumento veicola valori»[4].
 
La valutazione, così come viene auspicata negli intenti moralizzatori che vogliono rendere la scuola “buona”, nasconde degli intenti da «società di controllo» che mirano a determinare una nuova soggettività da realizzare attraverso un’opera sottile che si serve di una narrazione apparentemente «tacita, neutrale, anonima»[5], meglio: di una retorica che fa dell’apparente buon-senso il suo punto di forza. Eppure ad uno sguardo smaliziato non possono sfuggire alcuni paradossi. Innanzitutto l’ottica “moraleggiante” che pervade l'ideologia "valutocratica" animata da un dispositivo ben poco asettico e neutrale che, a fatica, cela il risentimento e l’invidia sociale verso un ambito che deve essere raddrizzato, corretto, in base ad un progetto di ingegneria sociale da svolgersi sul medio-lungo periodo. La scuola deve essere valutata ma non per migliorarne il servizio, quanto per punire il personale sfaticato assunto con leggerezza durante congiunture sociali troppo diverse da quella attuale. Come ha recentemente dichiarato il sottosegretario (ex) all’istruzione Roberto Reggi: «La scuola italiana non potrà più essere – "e non sarà più" – un ammortizzatore sociale»[6].  Questo perché finora il dipendente pubblico è stato al centro degli interessi delle politiche scolastiche mentre l’alunno è stato relegato ai margini? Forse, di certo c’è che simili dichiarazioni – assolutamente opinabili- vengono sbandierate per annunciare un piano che, nelle intenzioni dei tecnici, dovrebbe rivoluzionare la scuola italiana garantendo maggiore equilibrio tra «chi fa zero e chi fa troppo»[7]. Oggi questi propositi sono stati inglobati nel più ampio piano della #Buona scuola che vuole sottoporre la scuola tutta ad un processo, quanto più oggettivo possibile, di valutazione al fine di razionalizzare le risorse: «un metodo non esatto ma affidabile, perché basato su criteri trasparenti, pubblicamente discussi ed emendabili»[8]. Apparentemente siamo davanti alla “svolta buona”: cosa c’è di più meritocratico che una valutazione fatta con criteri quasi oggettivi? Eppure alcuni dubbi da malpensante persistono: siamo sicuri che questo tipo di politiche governamentali non nascondano l’intento di realizzare una sorta di mercato-scolastico, cioè «un sistema formativo e culturale subalterno a interessi di natura privatistica e profondamente legato alle contemporanee trasformazioni della politica del lavoro»[9]? Lo lascerebbe pensare il riduzionismo ingenuo che anima il proposito di valutare il mestiere di insegnante sulla base di criteri di presunta produttività – «criteri trasparenti»-  da misurarsi nelle forme più diverse: in base al numero di giorni o di ore lavorative, in base al risultato che gli alunni conseguono agli Esami di Stato o nei Test Invalsi, comunque sulla scorta di rigidi parametri quantitativi ritenuti gli unici idonei per misurare il rendimento e il valore di un ambito di prestazioni.

«Il fatto è che nella valutazione – lo dice la parola, ma lo si dimentica di continuo – sono in gioco valori. E i valori in base ai quali la valutazione valuta sono nuovi valori, finora tradizionalmente estranei al mondo della ricerca. Quando si parla di valutazione dell’università, valutazione della ricerca e simili, cioè, il genitivo va inteso nel senso sempre di un genitivo oggettivo, anche quando ad attuarla siano, come nelle forme di autovalutazione, gli stessi ricercatori o studiosi: non è la ricerca che valuta se stessa – sulla base di un sapere, spesso tacito, che è tutt’uno con l’esercizio del lavoro intellettuale – ma è la ricerca che è valutata, a scopi di direzione e controllo in vista di obiettivi extrascientifici»[10].
 
Questa valutazione dovrebbe risultare quantomeno problematica anche per il sig.Mario Rossi edotto del fatto che mancano criteri standard di apprendimento o una pacifica normativa internazionale sul tema. Come si viene valutati? Quali valori determinano il premio o la sanzione? Chi decide come si indirizzano le pratiche di selezione? Sullo sfondo di questi interrogativi rimane celata la natura di un mestiere – quello di insegnante- che Freud definiva impossibile, soggetto ad innumerevoli variabili, quali quelle legate ai processi di soggettivazione e di costruzione identitaria che vi sono implicati. L'apprendimento è un evento che nessuna retorica sulle competenze potrà mai rendere calcolabile, poiché interessa le singole esistenze degli alunni e dei docenti nel loro inter-relazionarsi. Valutare oggettivamente il costituirsi di un ambiente di apprendimento funzionale allo sviluppo di adeguate dinamiche di cittadinanza attiva sembra essere nulla di più che uno slogan che non tiene in considerazione il compito fondamentale di una scuola-democratica: favorire la nascita di intelligenze critiche in grado di promuovere l’esercizio attivo del processo democratico. Un sistema di governo quale la «democrazia» (dal greco δῆμος -démos “popolo” e κράτος -kràtos “potere”), che etimologicamente significa "governo del popolo", ovvero sistema di governo in cui la sovranità è esercitata, direttamente o indirettamente, dall'insieme dei cittadini, esiste di fatto solo se tutti i cittadini sono in grado di esercitare attivamente la loro funzione politica[11]. E’ il motivo per cui Piero Calamandrei, politico e costituente, riteneva indispensabile la conoscenza e la metabolizzazione della Costituzione da parte tutti i cittadini affinché si potesse parlare di una “vera” democrazia e non di un semplice simulacro[12].
La Costituzione, come antidoto nei confronti della barbarie costituita da ogni forma di totalitarismo, prevede una scuola – pubblica– che si faccia garante del pluralismo, della differenza, al fine di educare gli studenti alla cittadinanza attiva, sancendo così quella svolta che dovrebbe segnare il post-illuminismo in politica: la trasformazione della moltitudine da sudditi a cittadini. La Costituzione, sorta dalle ceneri della tragedia fascista, era per Calamandrei la condizione per l’esercizio di un diritto politico attivo in grado di rendere ogni cittadino qualcosa di più che un «suddito»:

«Vera democrazia non si ha là dove, pur essendo di diritto tutti i cittadini ugualmente elettori ed eleggibili, di fatto solo alcune categorie di essi dispongano dell’istruzione sufficiente per essere elementi consapevoli ed attivi nella lotta politica. La democrazia non è, come i suoi critici hanno cercato di raffigurarla deformandola, la tirannia della quantità sulla qualità, […] della massa analfabeta sui pochi competenti colti; ma deve, per dare i suoi frutti, essere consapevole scelta dei valori individuali operata non in una ristretta cerchia di privilegiati dalla cultura, ma nell’ambito di tutto un popolo reso capace dall’istruzione di giudicare i più degni»[13].
 
Ritenere di poter valutare oggettivamente il processo di strutturazione del «cittadino», l'attore politico senza il quale non esiste la «democrazia» in atto, è quantomeno ingenuo. Insensato se si ammette come fine dell'apprendimento lo sviluppo di quelle competenze necessarie per la convivenza civile sulla base delle regole generali affermate nella Costituzione. Tutt'altro discorso, invece, se il fine risulta essere- molto più realisticamente – la preparazione dell'individuo allo spietato clima di un ordine politico in cui vige la sovranità del consumatore (C.Laval) e il diritto posto in essere dalla legge della domanda e dell’offerta.



 



[1] Cfr. F.Milazzo, Cartografie della #Buonascuola, Recensione a: Marco Ambra (a cura di ), «Teste e colli. Cronache dell’istruzione ai tempi della Buona Scuola», collana gli ebook  de il lavoro culturale, 2015. In corso di pubblicazione su Carmillaonline.
[2] Cfr. R.Sandrucci, La scuola sotto il genere della commedia. Rappresentazione della scuola pubblica italiana: studio su sette casi, edizioni ETS, Pisa 2012.
[3] Cfr. V.Pinto, Valutare e punire. Una critica della cultura della valutazione, Cronopio, Napoli 2012.
[4] Ivi, p.24.
[5] Ibidem.
[6] Cfr. C.Zunino, Patto sulla scuola: "Un premio ai prof ma dovranno lavorare di più" in «La Repubblica», 02/07/2014
[6] Ibidem
[7] Ibidem.
[8] Cfr.: http.indice.openpolis.it/info.html
[9] Cfr. V.Pinto, Valutare e punire. Una critica della cultura della valutazione…cit., p.28.
[10] Ivi, p.32.
[11] In queste righe esprimo considerazioni già sviluppate in: F.Milazzo, Bisogna difendere la scuola! Biopolitica e istruzione in Italia in (a cura di) Claudia Boscolo, Non fate i bravi. Educare e normalizzare in Italia oggi, collana gli ebook  di PSYCHIATRY ON LINE ITALIA, 2014.
[12] Calamandrei, Piero, Difendiamo la scuola democratica in Per la Scuola, Palermo, Sellerio, 2008, p. 94.
[13] Ivi, pp.112-113
 

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