08/05/2015 anno 64 della mia era
Quando si compiono gli anni viene a volte di ripercorrere il proprio passato.
Il carcere è stato l'impegno professionale forse più pregnante di questi ultimi sette anni,
Realtà, quella del carcere, che sento spesso descrivere come immutabile negli anni, ed io stesso prima di conoscerla non ero lontano dalla convinzione della sua invariabilità, anche solo per il fatto di essere una “Istituzione Totale”.
Diversa è la realtà vissuta dall'interno, dove ripercorrendo la storia anche se di pochi anni si vede che il mutamento è comunque inevitabile, già a cominciare da me stesso nel cercare di incontrare i detenuti come utenti.
I detenuti sono la prima e più importante variabile che cambia continuamente nella storia dei carceri.
Già nei primi tempi, dalla narrazione del personale più anziano, veniva evidenziato come fossero sempre meno presenti le classiche figure della delinquenza che si identificavano ad associazioni criminose come la ligera, la mafia, la n'drangheta: associazioni che portavano con se, come valore implicito, dei vincoli gerarchici, delle norme etiche che normavano il comportamento dell'individuo mediando con le norme esplicite del carcere.
Chi infrangeva tali norme, svalorizzando l'autorità del leader, il boss, e mettendo a rischio quei piccoli privilegi che l'unità del gruppo assicurava, veniva rapidamente emarginato anche senza mezze misure contribuendo a mantenere gli equilibri stessi del sistema.
A questi piano piano si stava sostituendo una realtà frammentata, dove emergevano individualismi difficilmente controllabili e comportamenti sociali prima sconosciuti.
Immigrazione prima dall'Est Europa, poi dall'Albania, dal Nord Africa spostandosi attualmente più a Sud andava ad intersecarsi con le tematiche della tossicomania.
Al lato opposto, i colletti bianchi che difficilmente riuscivano ad integrarsi nelle dinamiche di sopravvivenza ed alienazione del carcere.
Mentre in qualche modo, prima, era verosimile una mediazione da parte del personale di vigilanza di fronte a norme di gruppo pur implicite ma identificabili, il rapporto si individualizzava sempre di più non esistendo appartenenze identificabili: 'o cafe di Don Rafaè che pure in carcere 'o sanno fa diventa antiquariato, il fornelletto a disposizione diventa sempre meno risorsa comune di cella per piccoli sollievi, e sempre più “sostanza d'abuso” per inalazione del gas butano, a rischio di decessi a cavallo tra errore e suicidio.
L'autolesionismo cutaneo da taglio diventa dramma quotidiano, anche esso a cavallo tra impulso di morte e agito culturalmente determinato delle tradizioni tribali.
Non più agito di genere, come conoscevamo sul territorio come specifico delle personalità femminili al limite, non più tatuaggio di appartenenza alla popolazione carceraria, ma contaminazione di intenti, di culture, di personalità.
Emergenza di aspetti individuali, o comunque difficilmente comprensibili nei parametri interpretativi noti, che hanno spostato sempre più l'attenzione degli psicologi dalla funzione precedente, di esperti criminologi coinvolti nella progettazione degli interventi dell'area educativa, a quella di identificazione e presa in carico individuale di comportamenti devianti: positivo per l'aumento di attenzione, ma non necessariamente per il rischio di “psicologizzazione” quando non “psichiatrizzazione” dell'esperienza detentiva.
Ma come sono mutati i detenuti, così il processo di cambiamento è stato anche degli operatori, a cominciare da quelli sanitari.
Prima di tutto, il passaggio di dipendenza dall'Amministrazione Penitenziaria all'Amministrazione Sanitaria: non più sanitari del carcere, ma terapeuti dei detenuti.
Consenso informato, segreto professionale, alleanza terapeutica, autonomia dall'Amministrazione Penitenziaria: già questo sufficiente a richiedere differenziazione di appartenenza, di obbiettivi, di linguaggio.
Una diversa professionalità dove, detto fuori dai denti, non è estranea la necessità di abbandonare il naturale “linguaggio di caserma” facilmente assorbibile in un ambito di istituzione totale militarizzata.
E per finire, last but not the least, il rinnovamento del personale di vigilanza. La polizia penitenziaria: informati, orgogliosi della professionalità e pure giovani, spesso per età ed esperienze maggiormente in grado di comprendere l'extracomunitario, l'abusatore magari già conosciuto, lui o chi a lui omogeneo, perché vicino di casa o il sabato sera in discoteca, tra un drink e magari uno spinello (qui lo dico e qui lo nego): e disponibili a mettersi in gioco ad esempio nella gestione dei reparti aperti, oggi sempre più diffusi, dove i detenuti vivono in comune e non più la maggior parte del tempo in cella.
Cambiamenti, imperfetti ancora, ma sensibili: e sicuramente necessari di un impegno, di un investimento in risorse, energie, formazione, da cui siamo ancora lontani.
A cui oggi si aggiunge un altro, impegnativo compito, che è quello collegato alla chiusura degli OPG, con un innesto sempre più invadente della Psichiatria ed un lacerante conflitto, all'interno della stessa, per il rischio di doversi rifare carico di un compito di sorveglianza, di controllo sociale rinnegando quanto da Basaglia in poi si è cercato di realizzare.
“My jailer cut off my head in prison/on your silvery platter to your queen” cantava Woody Guthrie, ma anche questo è antiquariato, preistoria.
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