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Di che cosa è il nome la #Buonascuola?

16 Giu 15

A cura di Fabio Milazzo

Il blocco degli scrutini.

In questi giorni di inizio Giugno, un po’ in tutta Italia, stanno terminando le lezioni e contestualmente si stanno svolgendo le valutazioni finali, le prime, della nostra recente storia, ad essere interessate dal cosiddetto «blocco degli scrutini». Secondo i primi dati l’adesione è stata altissima:

«In Emilia-Romagna, Molise, Lazio e Lombardia, Puglia e Sicilia le percentuali dello sciopero oscillano tra l’80% e il 90%, mentre in tantissime scuole delle principali città il blocco è totale. Anche a Torino e provincia c'è una massiccia partecipazione secondo i dati della FLCCGIL; le stime dei sindacati abruzzesi, a livello regionale, parlano di adesioni al 70-80%; in Toscana lo sciopero degli scrutini ha registrato un'adesione media dell'80% nelle scuole con punte del 90% a Prato e Pistoia».
 

Da chi viene praticata questa forma di ostruzionismo? Dai docenti e dai lavoratori della scuola (personale Ata) impegnati o comunque necessari per l’espletamento degli scrutini di fine anno (ad esclusione delle classi quinte). E cosa si intende per «blocco degli scrutini»? In particolare per il personale docente lo sciopero degli scrutini si concretizza nel blocco di un’ora delle

 «attività funzionali all'insegnamento relative alle operazioni di scrutinio finale ad esclusione di quelle relative alle classi terminali solo nei casi in cui gli scrutini siano propedeutici agli esami conclusivi dei cicli di istruzione. Lo sciopero breve di un'ora si effettuerà per tutti gli scrutini di ciascuna delle classi non interessate agli esami conclusivi del ciclo, a partire dal primo giorno di effettuazione degli scrutini e fino al secondo giorno successivo alla data iniziale prevista dal calendario di ciascuna scuola»[1].
 
Insomma, una forma di sciopero che non penalizza gli studenti ma che serve a lanciare un segnale, l’ennesimo, per evidenziare il rifiuto netto che i lavoratori della scuola oppongono al progetto di riforma voluto dal Primo Ministro Renzi. Un progetto che sentono come una svolta autoritaria tesa a limitare il libero esercizio della didattica e a creare “cerchi magici” di potere costituiti dai preferiti del dirigente scolastico. Una forma di feudalizzazione della scuola, del tipo che abbiamo conosciuto sui manuali attraverso la classica piramide gerarchica, con i livelli più bassi occupati dai servi meno fedeli e meno utili alla politica del signore. La percezione della forzatura e dell’orizzonte di riferimento verso cui è indirizzata questa scuola è così netta che nessun Collegio Docenti si è espresso a favore della “Buona Scuola” (neanche quello della scuola in cui lavora la moglie di Renzi, l’Istituto Balducci di Pontassieve).

Ma cosa temono i docenti che protestano? Molto semplicemente il pieno dispiegarsi di quel progetto d’autonomia che la legge 59/1997 ha disegnato e che adesso si vuol portare a termine attraverso l’aziendalizzazione della scuola. Cos’altro è il preside-manager che si sceglie la squadra se non la figura cui viene dato l’onore – e l’onere – di  rendicontare i successi della propria azienda-scuola? Successi misurabili in termini di iscrizioni e di promozioni, cioè di numeri attraverso i quali dimostrare quanto la propria azienda produca in termini di fatturato annuo. Non è difficile immaginare come si possano raggiungere questi obiettivi: completando la trasformazione della scuola pubblica nel peggio di quella privata, in quei diplomifici tanto vituperati che però non patiscono cali di iscrizioni e che possono vantare bilanci in attivo, che è poi la vera posta in gioco di tutto il progetto.

Se assumiamo che ogni riforma della scuola risponde ad un disegno ideologico con delle finalità più o meno espresse, possiamo facilmente concludere che la “Buona scuola” è tale in ordine alla trasformazione paradigmatica del sistema di istruzione sul modello aziendale. Dopo la «scuola-nazione», quella ratificata attraverso la legge n. 3961  del 15 luglio 1877, la cosiddetta Coppino, che mirava ad alfabetizzare l’italiano e a facilitarne il processo di identificazione con la Nazione, dopo la «scuola-della-Costituzione», quella che doveva educare alla cittadinanza attiva e favorire la nascita di intelligenze critiche in grado di promuovere l’esercizio attivo del processo democratico, ecco la «scuola azienda», quella basata sulle «logiche del costo-beneficio»[2], che mira alla promozione dell’homo œconomicus, un soggetto che deve essere educato e accompagnato nel suo inserimento in azienda e sollecitato ad attivare un processo di autosviluppo personale utile per affinare il livello di produttività. In tal senso ben si chiariscono le ragioni del «Curriculum dello studente», previsto dal Disegno di Legge C-2994, che documenterà il percorso di studi dell’alunno, attesterà le sue esperienze formative in ambito extrascolastico e rappresenterà la sua carta d’identità in vista dell’inserimento in azienda. Non è difficile immaginare la finalità del portfolio che potrà essere utilizzato per far emergere le caratteristiche della persona e «verificare la congruenza tra la personalità dell’individuo e la cultura dell’azienda»[3]  in cui deve essere assunto. Non serve neanche citare più gli Invalsi, pratiche di misurazione, selezione e valutazione che altro non sono che «dispositivi meritocratici di misurazione oggettiva del valore delle persone»[4], per rendersi conto del disegno di fondo che sostiene questa idea di scuola basata sulla «forma-impresa».
 
«Il mercato assume il valore di criterio per organizzare e giudicare le politiche di governo che rispondono innanzitutto alla dialettica posta in essere dalla legge della domanda e dell’offerta. Non c’è altra procedura di veridizione: il mercato è il criterio di legittimità della politica. Nel caso della scuola questo significa innanzitutto procedure di razionalizzazione della spesa, mascherate attraverso i voli pindarici della retorica come quella messa in campo dal ministro Gelmini nel tentativo di obliare i colpi di machete inferti al bilancio della scuola (pubblica) durante il suo ministero: «razionalizzare la spesa non significa tagliare, ma liberare risorse per la qualità»[5]
 
Questa scuola, dietro gli slogan e gli inviti ad «allacciare le cinture perché l’Italia sta decollando» [qui], palesa una certa immagine di futuro in cui la ratio economica è l’unico criterio di veridizione (véridiction) per la società-azienda. Se il testo licenziato dalla Camera ha previsto lo stralcio della  norma che permetteva alle scuole di ricevere il 5Xmille [qui], sancendo inequivocabilmente la divisione tra scuole più attrezzate – quelle delle zone più “fortunate” – e scuole meno garantite – quelle delle “zone depresse” -, la norma che invece prevede la possibilità di detrarre le somme donate alle scuole non statali [qui] va nella direzione di favorire altri modelli d’istruzione, magari maggiormente compromessi con lo spirito del management. Il problema è che la Costituzione, al tanto citato art. 33, stabilisce che « Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato» [qui]. Dunque la forzatura del Governo si spiega non soltanto con l’ovvia considerazione che questo è un favore fatto ai gestori delle scuole paritarie – in primis gli enti ecclesiastici – ma anche con la volontà di favorire lo sviluppo di agenzie di formazione che hanno la propria mission, il proprio scopo ultimo, in modelli educativi che in prima istanza non si riconoscono necessariamente nella Costituzione Repubblicana, nel suo spirito.


 

Il ruolo del preside-manager
 
Attraverso la promessa/minaccia dell'assunzione di tutti i precari si è proceduto al varo di un progetto che svuota dall'interno le ultime vestigia di scuola come "ambiente d'apprendimento costituzionale" (come sostengo in "Bisogna difendere la scuola!Biopolitica e istruzione in Italia") per sostituirla con una scuola-azienda, effetto di politiche di management, che per funzionare al meglio deve necessariamente essere sottoposta al potere di una figura unica, che non deve soltanto scegliere la squadra più idonea a raggiungere gli obiettivi di quello che fu il piano dell’offerta formativa (POF), ma deve anche identificare le competenze specifiche del lavoratore, al di là dell’abilitazione posseduta [qui], per dare visibilità a quelle potenzialità inespresse del lavoratore e migliorare l’efficacia lavorativa. L’enorme arbitrio riconosciuto di fatto al dirigente scolastico, al di là di qualche ritocco successivo alle proteste del 5 Maggio, non è in discussione e si spiega proprio in ordine al progetto di aziendalizzazione della scuola che non può fare a meno di una figura che non deve soltanto migliorare gli utili dell’impresa assegnatagli ma, soprattutto, deve eseguire le direttive dell’amministrazione centrale. Questa di cinghia di trasmissione unica tra il centro e la periferia è forse la funzione più importante tra quelle svolte da questa sorta di «prefetto-della-scuola» chiamato ad eseguire la volontà dei governanti senza alcuna concessione a mediazioni di sorta. Eseguire i disegni dell’autorità centrale significa imporre la «vision, cioè la proiezione di uno scenario futuro in cui i valori e gli obiettivi dell’impresa trovano realizzazione»[6]. Un dirigente scolastico che deve essere un po’ manager, con compiti di organizzazione, – anche sul piano comunicativo per sponsorizzare davanti ai privati dai quali si attendono investimenti la propria impresa – e pianificazione, un po’ leader in senso carismatico, chiamato a sollecitare le competenze emotive del proprio personale e a valutarne la performance in ordine alla mission dell’azienda, «i valori, le concezioni più profonde che guidano l’agire organizzativo: in una sola parola la cultura aziendale».[7]

Coordinare al fine di meglio attuare la capacità d’impresa, questo il ruolo principale di un dirigente che si vuole con poteri assoluti – o quasi, nella consapevolezza che «il neoliberismo non è semplice distruzione regolativa, istituzionale, giuridica, è almeno altrettanto produzione di un certo tipo di relazioni sociali, di forme di vita, di soggettività. Il modello di riferimento di questa scuola è l’impresa e la logica è quella di mercato che celebra la concorrenza spietata e la competenza degli attori in campo di re-inventarsi continuamente (flessibilità) per massimizzare gli utili possibili. In tutto ciò, contrariamente a quanto sostenuto dalla vulgata, lo Stato non arretra  per cedere il posto a quella categoria metafisica che è il mercato ma opera per predisporre le condizioni trascendentali affinché la «società di mercato» si realizzi effettivamente. Per questo ha bisogno di figure forti in grado di attuare sul campo le politiche decise in sede di governance. Ecco che la scuola assume una funzione centrale nel «progetto ideologico di addomesticamento dei giovani in relazione a una certa idea, a un certo modello di società». Il neo-liberismo scolastico si serve del dirigente scolastico e lo pone al centro del suo progetto di trasformazione della scuola da raggiungere attraverso condizioni giuridiche, sociali e culturali idonee alla costruzione del «modello-impresa» in cui gli individui (i docenti) sono educati per operare in un contesto all’interno del quale massimizzare il loro interesse in un clima di conflitto permanente. In relazione a ciò il Consiglio europeo di Lisbona del marzo 2000, in cui si sono gettate le linee guida per l’istruzione del primo ventennio del nuovo secolo, ha evidenziato la necessità di un maggiore coordinamento per le politiche scolastiche in Europa che non dovrà essere più «fondata su saperi da trasmettere in blocco ai discenti, ma sullo sviluppo e l’incremento di competenze, intese come capacità di mobilitare risorse interne di vario tipo – cognitive, affettive, motivazionali – in relazione ai sempre nuovi e mutevoli contesti»[8]. Una scuola che si adegua alle direttive della governance finanziaria necessita di un manager che dislochi queste politiche e le organizzi concretamente, le attualizzi.

Dunque è vero che l’articolo 9, dopo i ritocchi apportata dall'aula della Camera, prevede che il dirigente scolastico, nel conferire gli incarichi ai docenti di ruolo assegnati all'ambito territoriale di riferimento, «è tenuto a dichiarare l'assenza di cause di incompatibilità derivanti da rapporti di parentela o affinità entro il secondo grado con i docenti iscritti nel relativo ambito territoriale» [qui], ma questo non intacca il disegno di fondo che ha nella formazione, nella costruzione della propria squadra la sua ragion d’essere. In altre parole non è tanto importante assumere il docente di filosofia Rossi, piuttosto che il prof. Bianchi, l’importante è convertirli alla propria strategia aziendale, alla propria cultura d’impresa, anche attraverso l’adesione a «sistemi adeguati di significati condivisi, di valori, di credenze, linguaggi, norme, cerimonie, finanche leggende e miti relativi agli “eroi aziendali”»[9]  (la mitica prof.ssa Verdi, l’indefesso prof. Giallo, l’instancabile maestro Marrone, etc.). Queste nuove figure di dirigenti sono innanzitutto «agenti del cambiamento a cui è demandato il compito di produrre nuove forme di coscienza e filosofia aziendali»[10]. Si comprende bene che la vera posta in gioco è l’adesione ad un sistema di valori, ad uno spirito d’impresa che rappresenterà la mission della scuola, il suo marchio aziendale presso l’immaginario collettivo. Quale spazio resta per l’esercizio del costituzionale art. 33 comma 1°? Quello che afferma che «L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento»? Insomma se è valido quanto ribadito dalla Corte Costituzionale (sent. n. 16/1980) sulla libertà nell’insegnamento, con riferimento al profilo metodologico e contenutistico (c.d. autonomia didattica), di certo l’accentramento di poteri nella mani del dirigente e, soprattutto, il progetto di fondo che lo sostiene va in direzione ostinata e contraria a quanto stabilito dalla Costituzione. Insomma, il margine di arbitrio nella scelta della squadra ma, soprattutto, la necessaria identificazione del personale con l’organizzazione dell’azienda-scuola risponde bene alle attuali politiche di gestione delle risorse umane nell’impresa. Termini come cooperazione, sinergia, flessibilità, performance, indicano la necessità di aderire innanzitutto ad un progetto di scuola al fine di identificarsi con esso tanto da non poter distinguere più i propri valori da quelli dell’azienda. La scuola statale smette così di educare alla cittadinanza costituzionale, all’esercizio, cioè, delle necessarie competenze per una partecipazione politica attiva sulla base della Costituzione, per formare alla cultura del business.
Ecco, all’interrogativo del titolo adesso siamo in grado di offrire una risposta: il nome della “Buona scuola” è «managerializzazione dello Stato».  Siamo sicuri che sia la soluzione migliore alla crisi (presunta o reale che sia) della scuola?

 
 



[1] Cfr. Chiedilo a Lalla, Sciopero scrutini. Quali sindacati partecipano, modalità docenti, Ata e personale infanzia, proclamazione ufficiale sul sito del Miur, «Orizzonte Scuola», http://www.orizzontescuola.it/news/sciopero-scrutini-quali-sindacati-partecipano-modalit-docenti-ata-e-personale-infanzia-proclama [ultima visualizzazione 11/06/2015],
[2] Cfr. F.Milazzo, Bisogna difendere la scuola!Biopolitica e istruzione in Italia in Claudia Boscolo (a cura di), Non fate i bravi. Educare e normalizzare in Italia oggi, e-book, PSYCHIATRY ON LINE ITALIA 2014 [qui scaricabile gratuitamente]
[3] Cfr. M.Nicoli, Le risorse umane, Ediesse, Roma 2015, p.28.
[4] Ivi, p.33.
[5] Cfr. F.Milazzo, Bisogna difendere la scuola!Biopolitica e istruzione in Italia…cit.
[6] Cfr. M.Nicoli, Le risorse umane…cit., p.38.
[7] Ivi, p.37.
[8] Cfr. M.Salbego, A cosa servono le “competenze”?, Doppiozero, http://www.doppiozero.com/materiali/sala-insegnanti/cosa-servono-le-competenze.
[9] Cfr. M.Nicoli, Le risorse umane…cit., p.38.
[10] Ibidem.

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