Bertolt Brecht
Ci sono segnali interessanti provenienti dal mondo della psicologia professionale italiana, sembra che qualcuno, in contraddizione con l'immagine Brechtiana, abbia smesso un attimo di segare e si stia guardando intorno.
Se così è perché non provare ad offrire qualche pensiero?
Dal mio punto di vista la situazione attuale è così riassumibile: la psicologia italiana che ha trovato un suo assetto un quarto di secolo fa (legge 56/89) oggi "annaspa" perchè:
1. Ha una organizzazione professionale rigida, novecentesca (la legge 56/89 è una delle ultime leggi istitutive di ordini professionali, ovvero di strumenti di regolamentazione appartenenti ad un passato le cui radici affondano in un paternalismo prefascista rafforzato poi dalle logiche corporative del ventennio)
2. Continua ad esercitare un grande fascino su un numero elevato di cittadini talché le facoltà di psicologia sono iperaffollate ed il numero di psicologi ogni anno sfornato dalle Università è molto elevato. A ciò non corrisponde una offerta di sbocchi occupazionali o di prospettive professionali.
3. Ha un assetto istituzionale che oltre ad essere viziato da quanto descritto al punto 1, soffre il fatto di essere giovane, giovanissimo (a venticinque anni una istituzione può essere considerata appena preadolescente ed inevitabilmente soffre di tutte le rigidità ed ingenuità collegate alla sua età anagrafica)
4. Ha una dimensione di "nicchia" (tanto per fare un esempio tra i tantissimi che si potrebbero fare, il gruppo Luxottica, che non è il più grande gruppo industriale italiano, con i suoi 70.000 dipendenti conta più addetti dell'intera psicologia professionale italiana… e fattura 7/8 volte tanto l'intera comunità degli psicologi). Nessuna storia poi se vogliamo confrontare il peso degli psicologi nel pubblico impiego (rispetto a medici, insegnanti etc…) o nel mondo libero professionale (rispetto ad avvocati, ingegneri etc…) od in quello della politica militante (psicologi sostanzialmente inesistenti in Parlamento e nelle Istituzioni).
5. E' un "brutto anatroccolo". Appartiene al mondo dei cigni ma si ostina a considerarsiun'anatra. E così invece di porsi come faro per la professionalizzazione delle scienze umane si ostina a voler essere fanalino di coda delle scienze mediche.
6. Non riesce ad esprimere una progettualità coerente e lungimirante e a difenderla con determinazione. Accade così che è costantemente soggetta a spinte demagogiche, giustizialiste, qualunquiste, rivendicazioniste e ottusamente corporative.
7. E' perfettamente e a pieno titolo inserita in quel processo di proletarizzazione dei ceti medi in atto in tutti i paesi occidentali ed in particolare in quelli dell'Europa continentale.
8. Deve (non che possa, deve) adeguarsi al cambiamento che investe tutto il mondo delle professioni. Cambiamento che, come scrivevo in un diverso articolo è centrato su due fondamentali principi dettati dall'Europa:
a. I professionisti sono imprenditori (di se stessi)
b. Il sistema deve trasformarsi da autorizzatorio ad accreditatorio
Ok. Queste le premesse. Mi rendo conto, non condivise dalla stragrande maggioranza dei colleghi. Per coloro che comunque si sentono di condividere almeno cinque delle otto premesse provo ad andare avanti. Stando così le cose che si fa? O meglio, cosa potremmo fare? Cosa realisticamente potremmo fare?
La mia idea, vecchia di migliaia di anni, è ancora quella che non c'è vento favorevole per il marinaio che non sa dove andare (Seneca)
Dunque rispondiamo intanto alla domanda "Sappiamo dove vogliamo andare"?
Ecco le mie risposte (solo mie, personalissime, che orientano le mie azioni ed i miei percorsi politico professionali)
a) Vogliamo andare verso una professione che sia autorevole perché rende un servizio prezioso alla collettività. E che come "prezioso" è riconosciuto non dagli addetti ai lavori, ma dalla collettività stessa.
b) Vogliamo andare verso una professione capace di produrre per chi la esercita in modo corretto un reddito dignitoso.
c) Vogliamo andare verso una professione protesa alla valorizzazione delle diversità quando queste abbiano a che fare con la dignità umana e capace di denuncia quando i diritti umani vengano violati.
d) Vogliamo andare verso una professione che sappia declinare il concetto di "cura" ancorandolo alle "risorse dei singoli individui" prima che a tecniche di intervento "sugli individui".
e) Vogliamo andare verso una professione capace in ogni momento di rispondere in modo trasparente delle proprie azioni, delle proprie responsabilità, dei propri percorsi, dei propri errori.
f) Vogliamo andare verso una professione consapevole dei propri limiti e capace di tenere sempre aperto un confronto con saperi e pratiche diverse che perseguono gli stessi obiettivi di arricchimento sociale.
g) Vogliamo andare verso una professione moderna dove il professionista sia competente, aggiornato, empatico, inserito in reti professionali e costantemente valutabile da parte della sua utenza.
h) Vogliamo andare verso una professione orgogliosa del fatto che la cultura alla quale appartiene, la cultura psicologica, sia patrimonio della collettività al punto da indurre decine di migliaia di giovani studenti universitari ad avvicinarsi ad essa.
i) Vogliamo una professione che si rapporti alla pari con le altre professioni, che cresca si sviluppi grazie alle proprie competenze, ricerche e prassi e non pietendo improbabili leggi e leggine a proprio favore.
Bene, ho illustrato i miei obiettivi.
Siamo al dunque. Che possiamo fare, come comunità, per smettere di segare il ramo sul quale siamo seduti?
Realisticamente dobbiamo prendere atto di tre fatti che circoscrivono il nostro spazio di azione:
1. L'Ordine è una realtà che non verrà abolita in tempi brevi
2. La professione di psicologo è ormai diventata professione sanitaria
3. Esistono professioni limitrofe ormai completamente legittimate
Questi tre elementi, uniti al trend europeo (professionisti-imprenditori e sistema accreditatorio), ci raccontano tutta la complessità nella quale siamo immersi.
A mio modo di vedere il nodo più rilevante è costituito dalla contraddizione tra l'idea di professionista-imprenditore ed esistenza di un Ordine Professionale. Contraddizione insanabile fatalmente destinata a risolversi con l'abolizione degli Ordini o almeno con una loro molto radicale trasformazione. Infatti l'esistenza stessa dell'Ordine Professionale rappresenta un "cartello" un limite al principio cardine della libera concorrenza tra imprese.
Sulla scorta di questo ragionamento una decina di anni fa (all'epoca delle "lenzuolate" di Bersani) ero più che convinto che l'abolizione degli Ordini sarebbe stata imminente. Amaramente ho dovuto ricredermi. Oggi non penso più, anche se lo auspico, che l'abolizione dell'Ordine sia imminente.
Ma allora se realisticamente prendiamo atto del fatto che L'Ordine c'è e non svanirà a breve, cosa dovrebbe fare un Ordine lungimirante che tenga conto della complessità degli scenari?
Prima di rispondere alla domanda occorre ancora analizzare un poco il fatto che la psicologia sia diventata (o stia finendo di diventare) professione sanitaria. Scelta sciagurata a mio avviso. Ma (occorre accettare il dato) fortemente voluta dalla comunità professionale.
Il fatto di essere divenuti professione sanitaria comporta conseguenze:
1. I nostri colleghi che lavorano nelle ASL rafforzano la loro presenza, in termini di diritti, di ruoli, di carriera, nelle strutture nelle quali operano.
2. In generale la professione diventa "più forte" nell'ambito del settore pubblico ("sanitario" è parola magica che accresce il prestigio)
3. Le regole sanitarie (vedi ECM, ma vedi anche protezione del sistema Ordinistico) si estendono a tutta la comunità degli psicologi. Siano essi pubblici dipendenti oppure no.
4. Le professioni di aiuto "non sanitarie" (vedi counseling, mediazione etc…) per contrasto si definiscono con maggiore nitidezza (la differenza? Voi psicologi siete sanitari, noi aiutiamo chi non è malato…)
Bene. Oggi anche dirigenti di Altrapsicologia si interrogano. Constatano che la psicologia professionale è solo in parte professione sanitaria, si pongono interrogativi. Ma il dado sembra essere irrimediabilmente tratto.
C'è poi la questione del counseling e della legge 4/2013. Che il counseling sia una realtà nel nostro paese è un fatto. Avendo lavorato per anni all'affermazione di tale realtà personalmente ne sono soddisfatto. Il counseling rappresenta oggi lo sviluppo che la psicologia professionale avrebbe potuto avere ma non ha voluto avere, una professione improntata alle scienze umane centrata su saperi trasversali con forti capacità di penetrazione nel sociale. Dal mio punto di vista la psicologia professionale ha perso dunque un appuntamento storico abdicando al suo ruolo e contentandosi del "piatto di lenticchie" del ruolo di "aiuto" rispetto alla medicina.
Ma quelle sopra riportate sono le parole ed i pensieri di un "estremista", so bene non condivisi dalla maggioranza dei colleghi. Dunque cerchiamo di analizzare i fatti con maggiore freddezza ed imparzialità.
Se assumiamo un punto di vista giuridico trovo che la mossa dell'Ordine Nazionale degli Psicologi di ricorrere al TAR avverso l'inserimento di Assocounseling nell'elenco MISE sia stata, non so se consapevolmente da parte del CNOP, la definitiva legittimazione del counseling nel nostro paese. Infatti, comunque vadano le cose al TAR, si è stabilito il principio o constatato la realtà che CNOP e Assocounseling sul piano istituzionale sono "uguali". Le cause tra TAR, Consiglio di Stato, Cassazione, Corte Europea, potranno durare anni e anni… ma ogni passaggio, positivo o negativo che sia, non farà che rafforzare una realtà che nei fatti anche gli avversari considerano esistente.
Scontate le critiche della maggior parte dei colleghi a questi miei ultimi passaggi. Perchè uno psicologo è così favorevole al counseling? Vi stupirò, non sono particolarmente favorevole al counseling, sono favorevole ad una psicologia professionale che abbia in sè tutte le sue sfaccettature, il counseling, la mediazione, il coaching, la psicopedagogia etc, e che non pretenda che tali sfaccettature siano tutte prerogativa di chi è laureato in psicologia ed iscritto all'Ordine degli psicologi, ma che sappia assumere un ruolo di guida e di orientamento di questa immensa famiglia.
Credo di avere finito di sviluppare le riflessioni di base. Torniamo dunque alla domanda: Cosa potrebbe fare oggi un Ordine Nazionale degli Psicologi non votato al suicidio (cosa non pretendibile) ma capace di pensare realisticamente alle trasformazioni necessarie?
Naturalmente non ho risposte operative (non ho mai fatto parte del gruppo dirigente ordinistico, nè ciò accadrà in futuro in quanto continuerò a non candidarmi, a non andare a votare, a lavorare per l'abolizione degli Ordini).
Qualche "linea di indirizzo" però, in base alle riflessioni suesposte, mi sentirei di poterla esporre. Non fosse altro per stimolare riflessioni da parte di chi governa le nostre Istituzioni.
Ecco le mie "perle":
1. Occorrerebbe pensare, seriamente, che l'organizzazione delle professioni sta cambiando. Sempre più il modello diventerà quello accreditatorio. Perchè non pensare a forme che vadano in questa direzione? (ad esempio ho visto ed apprezzato un tentativo di un collega di dar vita ad una associazione professionale di counselor psicologici ma il tentativo è stato così maldestro….che non merita alcun commento positivo). Gli Ordini potrebbero pensare ad aggregare, sia pure su base volontaria, i propri iscritti, dividendoli per competenze, per esperienza professionale, riconoscendo "credit" etc… Molti anni fa con l'amico Robert Bergonzi avevamo cercato di avviare un simile percorso in Lombardia.
2. Occorrerebbe cominciare a lavorare sul "sanitario sì, sanitario no". Non vi è dubbio sul fatto che parte della nostra professione è sanitaria. Si tratta però di una piccola parte. Come veniamo incontro alle specifiche esigenze di tutti gli altri colleghi? E' possibile, allo stato dei fatti scorporare qualcosa dal sanitario?
3. Perché l'Ordine non si impegna nel creare interfacce con la società produttiva? Ho visto alcune convenzioni che l'Ordine Nazionale ha stipulato con alcuni Enti ed associazioni, mi sono sembrate però più dichiarazioni di principio che veri accordi operativi…. In altri termini la rete che l'Ordine gestisce è potente… ma sottoutilizzata.
4. Una comunità autorevole si fa carico delle proprie resposabilità. Abbiamo l'obbligo dell'aggiornamento permanente che oggi significa ECM. Piantiamola con gli isterismi ed aderiamo al programma nel quale, volendo essere "sanitari" abbiamo voluto entrare. E da dentro cerchiamo di renderlo più adeguato alle nostre esigenze.
5. Precorriamo i tempi. Le professioni nel terzo millennio devono essere vive. E' psicologo chi ha i titoli che servono per esserlo più altre cose. Avere i titoli è prerequisito necessario ma non sufficiente. L'altro è l'aggiornamento, è la dimostrazione periodica di esercitare la professione. Ed in base a ciò che effettivamente si fa si sviluppa la carriera, si acquisiscono titoli. Cominciamo a disegnare delle strade congruenti con questi principi.
6. Le professioni con noi confinanti (dal counseling alla psicoanalisi laica etc..) sono per noi fonte di ricchezza e non "nemiche". Cominciamo ad aprire dei tavoli di confronto. Ci accorgeremmo del grande potere di interlocuzione che ancora possediamo. Ad esempio, una nostra istituzione, l'ENPAP, non potrebbe aprire un tavolo sulla previdenza con le professioni ex legge 4/2013 a noi confinanti? A mio avviso (presentai senza successo una proposta quando ero nel cda nel lontano 2003) saremmo ancora in tempo per raggiungere accordi interessanti.
Mi fermo qui.
Ringrazio chi è arrivato a leggermi sino in fondo e chiedo perdono per la prolissità. Ma si tratta di questioni che io vivo come davvero molto importanti:
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