Rick Genest è nato in Canada nel 1985. Forse il suo nome non vi dirà nulla ma a parlare chiaramente potrebbe essere la foto di copertina di questo articolo. Rick è un bel ragazzo, è un modello ed è conosciuto in tutto il mondo come “Zombie Boy”.
Cercando nel web informazioni su di lui si apre una rosa di siti, siti specialistici e non, di riviste di gossip, di blog che raccontano la sua storia: Rick è il “cadavere vivente”, completamente ricoperto di tatuaggi che lo fanno sembrare uno scheletro, ed è il ragazzo che conobbe l’abbraccio della morte ma ne uscì (quasi) vivo. All’età di quindici anni, infatti, fu operato al cervello a causa di un tumore. Si salvò, sembra, “per miracolo”. Questa avventura al limite della vita e della morte lasciò nella sua psiche segni indelebili, gli stessi segni che – ciò appare evidente – compaiono ovunque sulla sua pelle. La Persona “Zombie Boy” narra il significato profondo di una creatura umana attraverso la traccia visibile, riconoscibile, indubbia di un passaggio, di una zona di confine resa tappa fissa.
La morte, forse, è andata via ma resta in vita ogni giorno la sua rappresentazione come immagine incarnata: un tributo? Un ringraziamento? Oppure si tratta di una “affiliazione”? Lo “zombie”, diciamolo, è il figlio della nera signora, il morto/non morto e non certamente il resuscitato.
Rick Genest è diventato un tatuaggio totale; il suo corpo è come una tavolozza realizzata minuziosamente, con estrema cura, dall’artista dell’inchiostro Frank Lewis. Ci sono voluti molti anni per realizzare quest’opera. Possiamo definirla arte. Possiamo definirla rituale? Possiamo chiamarlo percorso alchemico nel quale l’elemento esteriore riflette un sentire profondo fatto di paure, timori, fascinazioni eppure bellezza, armonia nell’orrore?
“Zombie Boy” è un disegno di anatomia perfetta, un simbolo vivente ribaltato da interno ad esterno e porta sulla pelle il disegno di centinaia di ossa umane e numerosissimi insetti, larve, vermi, farfalle notturne, mosche, e innumerevoli muscoli marciti, e lembi di pelle in decomposizione. Si è trasformato in quel che sarebbe stato davvero, se la morte non lo avesse lasciato scappare.
Il percorso di espressione di sé ha aiutato Rick a farsi notare nel mondo della moda (soprattutto da Thierry Mugler) ma non si può dire che lo scopo principale dell’operazione fosse l’ottenere popolarità in un mondo inflazionato e presenzialista. La questione appare ben più profonda anche a prima vista. Nel 2014 il ragazzo diventa testimonial per una nota casa di cosmetici: lo spot mostra Rick “com’era prima”, con la pelle rosea e pulita; il tutto grazie ad un particolare tipo di fondotinta. Nel video si possono ammirare le fasi della trasformazione illusoria, della riconquista di una pelle fittizia e “normale”. Un inganno visivo, poiché nulla è come appare. “Giudica il libro andando oltre la copertina” è il messaggio pubblicitario esplicitato dall’azienda “L’Oreal”. Un messaggio decisamente azzeccato, non c’è che dire.
Rick Genest porta letteralmente la morte in faccia ma lo fa controllandola in un sistema di disegni, in uno schema di pelle, decidendo lui stesso come mostrarla; la rende, almeno in parte, quotidiana vittoria nei confronti dell’angoscia che ci accomuna tutti, chi più consapevolmente e chi meno, nella “impermanenza”. Sul corpo viene impresso il marchio indelebile del paradosso: il tatuaggio permanente, definitivo, dichiara la finitudine dell’essere. L’innegabile fascino di un soggetto “imago-genico” è il porsi come Persona paradossale. Il paradosso di “Zombie Boy” è diventato fisso, immutabile (cancellabile apparentemente solo con un buon fondotinta), eterno – finché morte non lo separi dalla pelle.
In un testo molto interessante del 1990, “Sexual Personae: arte e decadenza da Nefertiti a Emily Dickinson” edito da Einaudi, Camille Paglia – saggista, sociologa e antropologa femminista – descrive magistralmente le Personae erotiche e mortifere del mondo contemporaneo, le figure che qui io delineo come “imago-geniche” (lo fa andando però ad esplorare la storia dell’arte e della letterature da Nefertiti a Emily Dickinson).
L’autrice parla della cultura popolare di massa come di una “nuova Babilonia”, “il tempio supremo dell’occhio occidentale” nel quale il simbolo è decaduto a segno. Nel quale l’immagine dell’androgino non ha una finalità realmente individuativa. La totalità psichica diventa molteplicità e ambiguità, perdendo la propria ambivalenza. La pienezza della personalità non è più la meta interiorizzata, non è la strada verso il centro dell’essere, la strada per riconoscersi – in un’ottica psicologica – individui “individuati”. La prospettiva in cui ogni avventura identitaria, ogni desiderio di congiunzione tra parti di sé, viene realizzata oggi è scenografia nel mondo esterno. L’androgino degli alchimisti, il Sé con le sue molteplicità simboliche divine e demoniche radunate intorno al centro dell’essere, decade volentieri nell’idolo concretizzato, nell’androide che degenera, troppo spesso nell’avanspettacolo. Nella prima parte di questo articolo ho già sottolineato come dall’Olimpo sconsacrato gli dei si siano perduti nella materia (cito James Hillman tra tutti – in linea con questo argomento può andar bene che cominciate le vostre letture da “Re-visione della psicologia”, Adelphi Edizioni)
Sta a noi tutti, singolarmente e attraverso le nostre relazioni affettive, recuperare il senso delle immagini interiori prima di incarnarle attivamente; se le rappresentiamo potremo farlo senza lasciarci inflazionare da esse. Perché dovremmo seguire questa via della coscienza? Perché lo spirito del tempo ci porta a materializzare ogni moto dell’animo ma nella letteralizzazione rischiamo di perderci poiché ogni immagine diventa definitiva, ogni ruolo si fa rigido e con la fissità si perdono gli dei, i demoni, le forze psichiche vitali e arricchenti.
La sfilata degli Io provvisori e la fissità del molteplice
Nel mondo contemporaneo Psiche cerca Eros ma va di fretta, si perde dentro le ricette per la felicità offerte dai media, tra le regole del benessere interiore a prezzo di saldo e rischia di non incontrare lo sposo interiore, che per ogni creatura umana è l’equivalente dello proprio spirito vitale.
Sempre più spesso gli uomini e le donne che si rivolgono allo studio dello psicoterapeuta giungono alla soglia dello stesso con il proprio Io precario, con il proprio “Io provvisorio”, inquietudini incarnate alle quali accenna Silvia Di Lorenzo, psicologa analista milanese. Si tratta di coscienze permeabili ai dettami dell’inconscio collettivo, facilmente confuse, fortemente stimolate, che si lasciano coinvolgere nella relazione in modo parziale. I pazienti che arrivano in studio oggi sono sempre più spesso portatori di contenuti non integrabili ed esperienze non facilmente elaborabili nel profondo, e di una impossibilità di adeguamento al “setting classico”.
Claudio Risé, Marina Valcarenghi, Silvia Di Lorenzo raccontano in “L’Io a più dimensioni, la formazione dell’Io in un mondo che cambia” – Red, 1989 – storie di pazienti con un Io mutevole, mercuriale, incapace di far fronte ai tempi di cottura – di coltura, della cultura come cura della conoscenza di sé – dell’anima e di attenersi ad uno spazio definito, stabile, progettuale e, almeno in parte, stanziale. Ciò sembra vero, in effetti, se guardo al mio lavoro e di fatto così emerge dal confronto con i miei colleghi terapeuti. Parrebbe di avere di fronte viaggiatori inquieti, pronti a partire con il prossimo treno per Dove, pur senza avere il biglietto. Alla terapia queste persone chiedono di essere “breve”, rapida, indolore: una macchinetta che fornisca rapidamente quanto richiesto, piuttosto che un ufficio informazioni. Tutto ciò che è attesa e dilatazione diventa difficile da gestire.
I giovani e i meno giovani sono sempre più spesso identificati con una Persona per la quale una coscienza storica di sé, del proprio trans-generazionale e un progetto di vita da costruire nel tempo vengono visti come valori marginali. Spesso queste persone si raccontano con la pelle e con il corpo, con la sessualità, con la presenza nel mondo esterno e vogliono continuare a mantenere lo sguardo sulla superficie, a rappresentarsi come immagini archetipiche dei propri complessi psichici.
Nel mondo di oggi la materialità del vivere quotidiano è un piano irrinunciabile. I dialoghi con se stessi avvengono come status, come diario puntuale e preciso nello spazio di un social network; le nuove tecnologie permettono allo specchio riflettente di diventare “Selfie”. Lo sguardo da dentro di sé è molto facilmente chiamato “fuori”, spinto a dichiarare le proprie identità multiformi e ad operare sul corpo, piuttosto che con l’anima o, in ogni caso, non rifacendosi direttamente al piano psichico.
L’analista junghiana Marina Valcarenghi sottolinea due pericoli e due fenomeni in aumento nel mondo di oggi. Il primo pericolo è il rischio psicotico o, al limite – e dire limite quando si dice “borderline” è paradossale – la situazione borderline perché, immergendosi nell’Ombra, l’Io abdica alla sua funzione di guida della personalità. Il secondo rischio è il rafforzamento della Persona ma ciò più che un rischio sembra ormai una norma.
Ci sono pazienti fragilissimi ma forniti di una Persona “impeccabile” – nel bene e nel male, in luci ed ombre, adattata ad un ruolo piuttosto che ad un altro, fissata completamente nell’essere pro o contro un certo sistema di aspettative – che confondono con la propria identità.
Nella prima parte di questo articolo ho ricordato un’espressione utilizzata spesso da Giulio Gasca, il quale è stato mio professore alla Coirag di Torino alle soglie del 2000. Sono passati quindici anni e siamo ancora immersi di più in quella che lui definì “un’epoca borderline”, indubbiamente. Il collettivo ci invade non con un modello ma con la molteplicità dei modelli e la miriade di possibilità diventa il nostro stesso caos interiore; per dirci, allora, rischiamo di scegliere un ruolo unico, definitivo, incarnando l’impossibilità di essere fluidamente noi stessi. In questo tempo nel quale ogni cosa sembra andare più veloce della nostra capacità fisica di stare al ritmo delle macchine che noi stessi costruiamo, il corpo con la sua finitudine di carne e pelle continua a limitarci ma noi, anziché ascoltare il “limite” come ricchezza vitale, come contenimento alchemico della trasformazione di noi stessi da piombo a oro, diventiamo volentieri seguaci delle dee scienza e tecnologia sperando di raggiungere e concretizzare ogni possibilità. Ma ogni volta che concretizziamo, le possibilità sono… finite.
Rushi Ledermann (ancora in “L’Io a più dimensioni”) parla di pseudo-adattamento e di personalità “robot” in aumento tra i pazienti che fanno richiesta di terapia, di corpi-bambola per coscienze (incoscienze) reificate, corpi “al servizio” della ricerca di identità. Il collettivo ci invade sia inconsciamente che a livello conscio e – come sottolinea Claudio Risé – ciò rende difficile se non addirittura vietato riconoscere e distinguere ciò che è proprio da ciò che è altrui e magari ostile, dannoso per la propria integrità.
Nel regno dell’eterno presente, nella società degli “eterni adolescenti” descritta da Robert Bly – “La società degli eterni adolescenti – Quando gli adulti rimangono bambini e i bambini si rifiutano di diventare adolescenti” – tutto sembra assumere valenza simbolica, eppure, grattando un poco la superficie smagliante e patinata delle offerte mediatiche, troviamo un ingorgo di segni che seguono le regole del caos.
L’anima saggia sta nell’enigma. Non lo incarna. Le immagini connesse all’istinto sono entità psichiche sostanziali ma non materiali. La ricerca individuativa non può prescindere dal corpo ma non può usare solo il corpo per dire. Deve usare il verbo e ancor più la produzione creativa che va oltre se stessa, in cui l’opera è altro da sé.
A noi è data la possibilità di mutare i connotati attraverso la tecnologia la chirurgia e altre tecniche. Ma la fissità del mutamento ci aspetta al varco. Una volta che hai esaurito le possibilità di immagine, non puoi uscire dalla gabbia. Una gabbia che ti appare come diritto alla presunta libertà, lontano dal corpo con i suoi veri bisogni, ritmi, dal sentire sessuato e incarnato.
Per la legge degli opposti, più un’immagine archetipica si fa concreta, canalizzata, più una creatura umana diventa “imago-genica”, inflazionandosi, assumendo in se stessa le caratteristiche dei propri complessi, diventando nella Persona ciò che sta accucciato nell’Ombra, meno l’immagine è compresa internamente e realizzata come senso del Sé cosciente. L'Io, dunque, per mantenere la propria identità tende a negare i contenuti psichici che non riconosce e che sfuggono al suo controllo, e li relega nell'inconscio.
I contenuti che “scottano” vengono rappresentati in quella funzione psichica che Carl Gustav Jung chiama "Ombra". Quando i contenuti rimossi diventano autonomi e agiscono in modo inconsapevole nel soggetto, è l'Ombra a guidare la faccenda. Allora l'Io, per differenziarsi dalla psiche collettiva ma, allo stesso tempo, per potersi riconoscere ed essere riconosciuto dal contesto sociale, tende ad identificarsi in atteggiamenti, valori e contenuti che lo caratterizzano come unico e particolare – o affine ad un certo tipo di gruppo. Questa funzione psichica è stata denominata Persona e corrisponde alla maschera teatrale (pensiamo, negli aspetti più definiti della Persona al teatro No giapponese), al modo di apparire all'esterno. Questo aspetto dell’uomo e della donna comprende il sistema di valori dei quali si è coscienti e nel quale l'Io si identifica. Persona e Ombra sarebbero antinomie ma direi che tendono a confondersi in assenza di coscienza e ad esprimersi in modo commisto nel soggetto “imago-genico”, la rappresentazione del quale diventa unico modo di dire il Sé totale, di approcciarlo e di avvicinarlo tenendolo, come si può intuire, a distanza. La commistione di elementi della personalità va di pari passo con la rigida separazione: gli equilibri sono precari, in assenza di luce.
Per Carl Gustav Jung l'inconscio ha per la coscienza una funzione compensatoria e, più l'Io irrigidisce il sistema della Persona, più l'Ombra costituisce una spinta inconsapevole finalizzata a ridare vitalità al blocco dell’energia psichica conseguente alla contrapposizione delle due tendenze opposte (vedi, se non sei addetto ai lavori, il volume “L’uomo e i suoi simboli”, edito da TEA).
Occorre ritrovare la via per un dialogo aperto con l'inconscio, per attingere da esso nuove possibilità di esistenza che superino la prospettiva materialistica e lo stallo energetico, offrendo al dire del corpo e al dire dell’anima la stessa libertà di parola.
Imago-genico: un mio neologismo; lo ritengo sufficientemente d’impatto per dire quei soggetti che offrono in se stessi, come propria qualità, la medianicità sufficiente per attrarre pubblico, e la buona forma per attirare – rispetto all’individuo – una “maggiorazione” delle proiezioni diventando schermi perfetti per la rappresentazione degli dei perduti (i propri e gli altrui) Per l’utilizzo del termine Imago vedi dal 1912 – Carl Spitteler – Jung in "Psicologia dell’inconscio", volume 5 – Opere, Bollati Boringhieri.
(continua)
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