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Settembre 2015 IV – Pixar & Freud

5 Ott 15

A cura di Luca Ribolini

LORENA PRETA: “IL FILM PIACE PERCHÉ È SEMPLICE MA LA VITA È MOLTO PIÙ COMPLESSA”. La psicoanalista è tra le migliaia di spettatori che sono andati a vedere Inside Out e riflette sul successo del film 
di Silvia Fumarola, repubblica.it, 22 settembre 2015

Come mai diventa tanto importante un film che racconta cosa sono le emozioni? Perché tanto clamore?”. La psicoanalista Lorena Preta è tra le migliaia di spettatori che sono andati a vedere Inside Out e riflette sul successo del film. Lo ha trovato “interessante”, con qualche riserva “perché se da una parte chiarisce che la vita mentale è basata sulle emozioni, dall’altra mi sembra che sia un film molto “meccanico””.
Dottoressa Preta, che ne pensa?
“Viene soprattutto da chiedersi perché tanta sorpresa. La psicoanalisi è molto diffusa nel mondo, è entrata nella nostra cultura da cento anni”.
Perché, allora, secondo lei “Inside Out” è diventato il film del momento dando corpo e volto alle emozioni?
“Perché è costruito in maniera semplice anche se non semplicistica. È buono dal punto di vista didattico perché considera le emozioni, meglio ancora sarebbe dire gli affetti, la base della vita mentale, spiega che non navigano nel cosmo, regolano l’esistenza e sono in rapporto tra loro”.
 
Segue qui:
http://www.repubblica.it/scienze/2015/09/22/news/lorena_preta_il_film_piace_perche_e_semplice_ma_la_vita_e_molto_piu_complessa_-123414252/

CONDOTTIERI O RAGIONIERI? 
di Alberto Angelini, italiani.net, 23 settembre 2015

Indebolite, se non estinte, quelle che, per molto tempo sono state le forme ufficiali di investitura e legittimazione dell’autorità, si constata oggi un emergente desiderio di leaderismo. Proprio nell’Occidente industrializzato, patria delle rivoluzioni liberali e della democrazia, sembra emergere una voglia di personalità politiche dalla forte impronta, capaci di funzionare da punto di riferimento sociale.
Certo, non è del potere repressivo e coercitivo che si ha nostalgia. Di questo tipo di autorità, purtroppo, ne esiste ancora, abbondantemente. Piuttosto, vi è un bisogno di autorevolezza e responsabilità, che si manifesta nello scenario politico italiano. Ma quali dovrebbero essere le caratteristiche di un leader, o meglio di un presidente, capace di rispondere alle esigenze contemporanee degli Italiani? E’ tramontata, da tempo, ogni concezione astratta e “borbonica” del potere. Un leader efficace viene immaginato capace di governare grazie al consenso, di dirigere attraverso la persuasione, di motivare tramite la consapevolezza. In effetti, sono cambiate le condizioni che fanno da sfondo all’esercizio del potere; quindi è cambiata la concezione della leadership.
 
Segue qui:
http://www.italiani.net/index.php/scienza/767-condottieri-o-ragionieri.html
 

LA NOSTRA BATTAGLIA CONTRO IL NIENTE. DIALOGO CON MIGUEL BENASAYAG. La nostra società non fa l’apologia del desiderio, fa piuttosto l’apologia delle voglie, che sono un’ombra impoverita del desiderio. Un dialogo con lo psicoanalista argentino Miguel Benasayag che ci ricorda la necessità del conflitto per una ridefinizione dello spazio comune. Perché “se le persone non trovano quel che desiderano, si accontentano di desiderare quello che trovano”  
di Marco Dotti, vita.it, 23 settembre 2015

La nostra è l’«epoca dei grandi proclami, delle notizie terrificanti e degli atti d’accusa». Eppure, osserva Miguel Benasayag, tutti questi discorsi non solo non conducono a nulla, ma neppure ci toccano più, tanto sono distanti dalla vita e dalla possibilità di intervenire concretamente nella realtà quotidiana. Il vero pericolo, in un’epoca come questa, è rappresentato dal niente. Un niente circondato dalle belle parole e dai grandi discorsi. Per Benasayag, filosofo e psicoanalista di origine argentina trapiantato da molti anni a Parigi, attendo osservatore dei problemi dell’infanzia e dell’adolescenza, quando ci rivolgiamo ai grandi discorsi, ci condanniamo anche a fare il contrario di ciò che quelle “belle parole” affermano. O, quanto meno, a fare qualcosa che non ha nulla, ma proprio nulla a che vedere con quello che realmente significano. Contro la mortificazione che orienta l’individuo contemporaneo verso un fondamento che persino definire nichilista è troppo – sarebbe troppo onore – Benasayag ha offerto alcune chiavi di lettura lucide, ben esemplificate in due dei suoi libri: L’epoca delle passioni tristi (scritto con Ghérard Schmit, Feltrinelli, Milano 2005) e Contro il niente (Feltrinelli, Milano 2005).
Il dono di sé
Viviamo in una società schiacciata dal peso e tra i “limiti dell’utile”. Non solo il discorso economico, la scuola, la formazione dei giovani, ma persino la “cura”, intesa in senso lato, sono oramai improntati a standard di mera efficienza e funzionalità. C’è un modo per sottrarsi a questa logica “triste” che antepone cifre e calcoli alla persona umana?
Il problema di questa visione utilitaristica, oramai dominante, è che rende assoluta una dimensione comunque reale, ma relativa. L’utilitarismo vorrebbe presentarsi come l’unica realtà possibile, cogliendo però una sola dimensione della vita. Per resistere a questa logica bisogna sviluppare e valorizzare altre dimensioni molteplici della vita sociale e personale. Soprattutto ora, in un momento di forte crisi, recuperando, ad esempio, la dimensione del dono e del gratuito. Il legame sociale è sempre stato fondato sulla logica del dono e del contro-dono, non solo su quella dell’utile. Quando lo studioso francese Marcel Mauss studiò questa logica, negli anni Venti, mise in evidenza il complesso rapporto tra la libertà del donatore e l’obbligo morale del ricevente. La consegna del dono si svolgeva all’interno di un rito, Mauss studiò infatti il potlàc, ossia la cerimonia che fondava l’economia del dono in alcune tribù indiane del nordamerica, ma presto comprese che la logica del dono era conservata anche nelle società più moderne, le sue tracce erano pero nascoste a una “profondità antropologica” profonda. Anche oggi possiamo affermare che ogni società, non solo quelle arcaiche, mantiene come modalità di regolamento del legame sociale pratiche più o meno “sacrificali”: si dona, sacrificando parte delle proprie ricchezze, rinunciando a parte del proprio possesso, garantendo al sistema di non divorarsi da sé.
 
Segue qui:
http://www.vita.it/it/article/2015/09/23/la-nostra-battaglia-contro-il-niente-dialogo-con-miguel-benasayag/136598/

 

INSIDE OUT, L’EMOZIONE NON È TUTTO. di Luigi Ballerini, Alessandro Zaccuri, avvenire.it, 24 settembre 2015 
La critica. Infanzia troppo spensierata. Ma l’uomo non è un cyborg

È attraente e seduttivo Inside Out, il nuovo bellissimo film della Pixar, così capace di suscitare un unanime entusiasmo che ne parlano tutti. Toccando sapientemente le corde giuste sa infatti commuovere e divertire, ammicca ai grandi e ai piccini con riferimenti studiati per i diversi target di età. La vicenda che fa da sfondo è ormai nota: Riley, felice undicenne del Minnesota, si trova a fronteggiare il disagio di un trasferimento a San Francisco legato alle vicende lavorative di suo padre. Ma chi sono i veri protagonisti del film? Ce lo chiediamo perché se apparentemente si tratta di Riley e della sua famiglia, in realtà le vere protagoniste sono le cinque emozioni che letteralmente si agitano nella sua testa: Gioia, Tristezza, Paura, Rabbia e Disgusto. Possiamo a questo punto decidere se lasciarci emozionare (appunto) dal film e farci ammaliare dalla sua godibilità oppure se fermarci un attimo a chiederci che idea di bambino, e di uomo, vi è sottesa… (Luigi Ballerini)
Segue al link riportato in basso.
 
La difesa. Un’indagine sui sentimenti tra Platone e i miti di oggi
Tempesta emotiva passata, allarme rientrato. E poi ormai Riley ha compiuto dodici anni: «Che altro può succedere?», si domanda Gioia, come al solito ottimista. Ma niente, tutt’al più la pubertà, l’adolescenza, sciocchezze di questo genere. Siamo alle ultime battute di Inside Out, i bambini pensano che la storia sia ormai finita, gli adulti sanno bene che è appena cominciata. Perché quello che il film descrive non è in effetti un meccanismo, bensì un processo: il passaggio dalle emozioni elementari dell’infanzia a una gamma più articolata di sentimenti, dove nessuna sensazione sarà più disgiunta dal suo opposto. L’ha capito anche Gioia, sia pure a fatica. Fino a quando si è ostinata a volere che le giornate di Riley restassero luminose e perfette come sempre erano state, non ha fatto altro che combinare disastri. Non appena Gioia ha accettato di collaborare con Tristezza, ecco che la bambina ha ritrovato se stessa… (Alessandro Zaccuri)
 
Segue qui:
http://www.avvenire.it/Spettacoli/Pagine/Infanzia-troppo-spensierata-Ma-luomo-non-un-cyborg-.aspx

VITTORINO ANDREOLI: «POSSIAMO IMPARARE A VIVERE BENE». La scienza del “ben d’essere” a differenza della psicanalisi si occupa dell’uomo nella sua interezza e della sua gioia 
di Vittorino Andreoli, ilpiccolo.gelocal.it, 24 settembre 2015 

Benessere è un termine che usiamo molto spesso. “Sto bene”, “sto male”, sono modi ordinari di interloquire che usiamo nella nostra comunicazione quotidiana. Adesso noi proponiamo che questo termine acquisti un significato ancora maggiore, perché crediamo che sia il tempo per fondare una Scienza del benessere. O meglio, del “ben d’essere”, che significa esistere bene, essere bene. Siamo convinti che oggi ci sia una grande richiesta di promozione del ben d’essere. Alla New York Academy of Sciences, di cui sono membro, proprio l’altro giorno ci hanno comunicato che verrà organizzato un simposio sulla scienza della felicità: un segnale che ci indica che ormai termini come “felicità” e “ben d’essere” stanno diventando temi fondamentali. Lo si vede dalla proliferazione di centri del “ben d’essere”, dall’invito a svolgere attività per il “ben d’essere”. Per capire cos’è questa scienza possiamo iniziare a dire che la scienza del ben d’essere si differenzia completamente dalla medicina. La medicina si occupa delle malattie. Il termine malattia contiene la radice “male”, dà un messaggio sgradevole. Il ben d’essere ha invece al suo interno la radice “bene”. La medicina si occupa delle malattie, che si caratterizzano per un insieme di sintomi. Quando diciamo “sintomo” già indichiamo un male: l’idea è che la medicina curi il male e magari aiuti a prevenirlo. Ma è una visione in negativo, mentre invece il ben d’essere si occupa in positivo dell’essere, della vita di ciascuno di noi e si attiva per promuovere il nostro essere meglio, il nostro vivere meglio. Quindi medicina e scienza del benessere sono due campi separati: la medicina lavora per sottrazione, con l’obiettivo di togliere il male, nella disciplina del benessere invece si lavora per addizione, per aumentare la condizione di ben d’essere, quella che l’Academy definisce la felicità.

Segue qui:
http://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/cronaca/2015/09/24/news/andreoli-possiamo-imparare-a-vivere-bene-1.12148543

INSIDE OUT: PIANTO, RIMPIANTO, COMPIANTO 
di Andrea Bellavita, doppiozero.com, 25 settembre 2015

Nel suo sorprendente e disturbante (e per questo necessario) L’infanzia non è un gioco. Paradossi e ipocrisie dei genitori di oggi, Stefano Benzoni scrive: “Che cosa desideriamo noi dai bambini? Come desideriamo che siano? Li vogliamo docili e appagati, meglio se appagati di spettacoli che piacciono anche a noi. In questo senso, l’onnipresenza del fantastico negli intrattenimenti per bambini è forse uno dei fenomeni più evidenti del modo in cui i genitori oggi tendono a confondere l’educazione al gioco con il proprio intrattenimento, il bimbo buono sa starsene buono e godere degli spettacoli fantastici che piacciono anche a mamma e papà”. A supporto della sua tesi mette insieme, non senza una certa pindarica forzatura, le saghe di Harry Potter e de Il Signore degli Anelli, i Teletubbies e le “moltiplicazione di marchi di fabbrica Pixar”.
Quando Pixar, ovvero Disney, decide di proporre un film che mette a tema la definizione dell’identità del bambino (Riley, undici anni, pre-adolescente, un attimo prima che sul suo pannello di controllo cerebrale compaia il terribile tasto rosso di allarme nucleare “pubertà”) e la sua relazione all’interno del nucleo familiare, è inevitabile che si trasformi in un “film mondo”, in una presa di posizione ideologica e socio-culturale.
Tesi n. 1 (del film, e del coro unanime di consenso di pubblico, genitoriale soprattutto, critica e commentatori variamente assortiti): apparentemente la nostra identità e il nostro comportamento relazionale dovrebbe essere diretto dalla tensione alla gioia (lasciare a Joy il comando della consolle: leggi edonismo sfrenato e superficiale tensione alla felicità totale), ma è necessario conservare il giusto spazio per la tristezza, rispettarla, conviverci, negoziare un ruolo, accettarla. Perché la tristezza può anche essere buona, risolutrice: la vera eroina del film è Sadness, che quando “sporca” i ricordi di base con le sue manine blu in realtà non sta commettendo un errore, ma sta facendo la sua parte.
D’altronde non c’è da stupirsi che Pixar sposi la funzione salvifica di Sadness (non si può dire che WALL-EUp fossero esattamente film allegri…), all’interno di un macro-sistema di costruzione dell’immaginario familiare e para-familiare (The Walt Disney Company) che di fatto funziona esattamente come il Quartier Generale della testolina di Riley. Pixar è Sadness: la tristezza come strumento di ri-costruzione della famiglia e del nucleo sociale. The Walt Disney Studios (per semplicità: animazione, original movieseoriginal series) è Joy: che bello avere una famiglia! L’anima disneyana è quella che sembra animare la prima parte del film, fino alla scena madre di presentazione nella nuova scuola, e dello scatenamento della crisi: la mamma dice “grazie! Nonostante tutto questo caos sei riuscita a rimanere la nostra… la nostra ragazza felice!”, si preme il pulsante del sorriso e Anger conviene che “non si discute con la mamma: e felicità sia…”. Poi papà fa il verso della scimmia e si va a scuola tutti felici. A Marvel lasciamo il ruolo di Hungry e Fear, con tutte quelle storie di mostri e super-eroi arrabbiati, e ABC (Family) non può che essere Disgust, la mocciosa stilosa che definisce il concetto di coolness e di accettazione sociale sulla base del gusto e del disgusto (estetici prima di tutto).
In questa prospettiva Pixar, e Inside Out, appaiono come l’avanguardia illuminata e progressista di un sistema di costruzione dell’identità collettiva, prima ancora che individuale: è la visione che ha sancito l’approvazione collettiva del film. Insieme, diciamolo subito per fugare ogni dubbio, alla straordinaria qualità cinematografica, sotto tutti i punti di vista, che fanno di Inside Out uno dei più sorprendenti film di animazione di tutti i tempi.
 
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/materiali/odeon/inside-out-pianto-rimpianto-compianto

“INSIDE OUT È UN FILM A FAVORE DEI GUFI. MATTEO RENZI DOVREBBE VEDERLO”. Maria Rita Parsi, psicoanalista e scrittrice, parla ad Huffpost 
di Nicola Mirenzi, huffingtonpost.it, 27 settembre 2015

C’è qualcosa di Inside out – il film animato della Pixar che racconta le emozioni di una ragazzina e la ricchezza della sua (e nostra) vita interiore – che non è stato scritto, detto, pensato? «Che è un film a favore dei gufi e che Matteo Renzi dovrebbe correre a vederlo». Maria Rita Parsi è una psicoanalista e una scrittrice. Vive a Roma ma noi la raggiungiamo al telefono mentre sta prendendo un aereo per andare a un convegno di specialisti, uno di quegli appuntamenti in cui – se fossero invitate – le persone non addette ai lavori non capirebbero una parola di ciò che si dice: rimozioni, proiezioni, coazioni a ripetere… Invece, Inside out ha questa capacità: «Mostrare in maniera accessibile i meccanismi della mente umana, il modo in cui sentiamo e pensiamo, come selezioniamo i ricordi, il modo in cui i sentimenti s’intrecciano e si intersecano tra di loro». Il film, secondo la professore Parsi, ha anche una dimensione politica molto chiara. E ci arriviamo, a dire quale. Prima però bisogna ricordare che Inside out è il film più visto nei cinema italiani. In poco più di una settimana, ha incassato oltre sei milioni di euro, riscuotendo l’entusiasmo del pubblico e gli apprezzamenti della gran parte della critica. Racconta cosa succede nell’animo di una ragazzina che è costretta a trasferirsi con i suoi genitori in una città diversa da quella in cui è cresciuta: la girandola di emozioni, la difficoltà di accettare la separazione, la battaglia – perdente e insensata – per non farsi travolgere dalla tristezza, un sentimento che il film, invece, invita ad accettare e accogliere.
Perché piace così tanto questo film, professoressa?
Piace perché insegna a riconoscere i sentimenti e le emozioni. Sa, moltissime persone non sono affatto capaci di farlo. Non parlo solo dei bambini, ma anche degli adulti. Sono tantissimi gli uomini e le donne che non sono in grado di avvertire ciò che gli succede dentro.
Ma perché proprio adesso le persone avrebbero tutta questa voglia di capirsi?
Siamo immersi in un mondo pieno di confusione, in balia di forze che condizionano la nostra vita – pensi all’economia, alla crisi – e gli individui hanno sempre più bisogno di orientarsi almeno dentro se stessi. La gente ha necessità di capirsi per prendere in mano la propria vita. Quanto tu capisci il modo in cui funzioni, il perché senti alcune cose anziché altre, smetti di essere in balia dei sentimenti e impari a governarli, a essere il protagonista. Io credo che il film intercetti questo bisogno. Un bisogno diffuso, a giudicare dal successo.
 
ORA SUL LETTINO C’È ANCHE GESÙ
di Alessandro Pagnini, Il Sole 24ore, 27 settembre 2015
 
Il testo di Freud, proposto in edizione critica con l’originale tedesco a fronte nella eccellente curatela e nell’ampio commento di Manfred Heinz e di Roberto Righi, risale a un periodo incerto, tra il 1930 e l’inizio del ’32, ed è un testo che Freud destinò a rafforzare le premesse psicoanalitiche della biografia del Presidente americano Woodrow Wilson che il suo paziente William Bullitt, in quegli anni, aveva in animo di scrivere. Il libro di Bullitt uscirà solo nel ’67, e proprio nel primo capitolo conterrà il testo di Freud; riportato però con significative correzioni e omissioni (soprattutto relative alla teoria freudiana dell’omosessualità), a rimarcare più che altro differenze insanabili tra lui cristiano credente e Freud ebreo agnostico, pur nel comune giudizio negativo sull’umanitarismo sciocco e velleitario di Wilson, sul suo messianismo politico e sull’idea che una pace perpetua tra i popoli potesse essere garantita dalla Lega delle Nazioni.
 
Segue qui:
http://www.spiweb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=6329:freud-inediti-sul-cristianesimo-il-sole-domenica-27-settembre-2015&catid=812&Itemid=353
http://www.zeroviolenza.it/rassegna/pdfs/27Sep2015/27Sep2015ba4202918042d3155d1315e39a367942.pdf
Sigmund Freud, Manoscritto 1931. Inedito in edizione critica, La casa Usher, Firenze-Lucca, pagg. 106, € 11,00. In libreria dall’1 ottobre. A fianco uno stralcio in anteprima

LE PULSIONI DI WILSON. La richiesta di un parere sul carattere del presidente americano fu l’occasione per dimostrare la validità della ricerca psicoanalitica. E paragonarsi a Newton… 
di Sigmund Freud, Il Sole 24ore, 27 settembre 2015

Sono stati scritti molti libri su Thomas Woodrow Wilson e molte persone che gli furono vicine hanno tentato di dare a sé stesse e ad altri una spiegazione della sua natura. Tutti questi tentativi di spiegazione hanno in comune di terminare con un punto interrogativo. Per i suoi stessi biografi e confidenti, Wilson è rimasto un personaggio pieno di contraddizioni, un enigma. Il colonnello House scrive nel suo diario il 10 giugno 1919: «Non ho mai conosciuto un uomo di cui si potessero avere da un’ora all’altra impressioni così alterne. E non è soltanto l’espressione del suo volto che cambia. Egli possiede un carattere talmente difficile e contraddittorio che non è affatto semplice formarsi un giudizio su di lui». Tutti gli amici e i biografi di Wilson sono giunti più o meno esplicitamente alla medesima conclusione.
Wilson fu certo una personalità complessa e non sarà facile trovare il cammino per arrivare alle visioni che possano stare a fondamento delle apparenti contraddizioni della sua natura. Non vogliamo abbandonarci a illusorie speranze, apprestandoci a sottoporre ad analisi la sua vita psichica. Questa analisi non può riuscire in modo completo e pienamente soddisfacente, perché di molti lati della sua vita e della sua natura non sappiamo nulla. Quel che in generale sappiamo di lui sembra meno rilevante di quel che non sappiamo. Tutte le cose che vogliamo sapere di lui potremmo apprenderle se fosse in vita e si sottoponesse alla fatica di un’indagine psicoanalitica. Ma egli non è più in vita e quindi nessuno conoscerà mai quelle cose. Non abbiamo probabilità alcuna di comprendere i fatti decisivi della sua vita psichica, con tutti i suoi dettagli e il suo intero contesto, e perciò non abbiamo nemmeno il diritto di definire come una psicoanalisi di Wilson il nostro lavoro. Esso piuttosto è uno studio psicologico, basato sul materiale a cui, per l’appunto, abbiamo avuto accesso: non avanziamo pretese maggiori.
D’altra parte, però, non vogliamo sottovalutare il fatto di sapere varie cose su molti aspetti della vita e del carattere di Wilson. Anche se non possiamo aspirare a un’analisi completa, le nostre conoscenze sono abbastanza ampie per giustificare la nostra speranza che possa riuscirci di individuare correttamente le linee principali del suo sviluppo psichico. A ciò che sappiamo su Wilson in quanto singolo individuo, possiamo anche aggiungere quel che la psicoanalisi ci ha insegnato, in via assai generale, su tutti gli esseri umani. Wilson, in fondo, era un uomo come un altro e soggetto alle stesse leggi dello sviluppo psichico. La validità universale di queste leggi è stata dimostrata dalla ricerca psicoanalitica attraverso l’esame di innumerevoli individui.
 
Segue qui:
http://www.spiweb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=6329:freud-inediti-sul-cristianesimo-il-sole-domenica-27-settembre-2015&catid=812&Itemid=353

MA QUALE ‘SACRIFICIO’? ISACCO È TORNATO A CASA CON LE SUE GAMBE… 
di Luigi Campagner, ilsussidiario.net, 28 settembre 2015
 

Le prime notizie dell’ecatombe di oltre 700 persone alla Mecca in occasione della festa del sacrificio, Eid al Adha, le ho ascoltate alla trasmissione radiofonica La zanzara e comprendo che anche il semplice ricorso a questa fonte di informazione per commentare un fatto così drammatico potrebbe meritarmi una nota di biasimo, ancor prima di iniziare. Ma per me come per altri milioni di automobilisti le informazioni radiofoniche, in mezzo a giornate fitte di appuntamenti e impegni, sono spesso un prezioso spiraglio su quello che succede nel mondo. Se resta poi la forza per un approfondimento serale navigando qua e là, si vedrà. Intanto meglio prendere al volo “l’uovo di oggi” perché della “gallina di domani” non v’è certezza. La regola vale anche se “l’uovo” è avvolto da un packaging ridanciano perché si sa: “Chi ascolta La zanzara vuole ridere, ridere!”. Mi riferisco alla puntata del 24 settembre, condotta — come sempre — con maestria da don Giuseppe Cruciani, il parroco del peggio “de noantri”, che prima lo suscita (il peggio) e poi lo benedice con gaudio, e da fra David Parenzo che tiene il conto delle malefatte del primo con la scusa di riportarlo sulla retta via, in perfetto stile Leporello con Don Giovanni. L’impatto della notizia sulla giornata comunicativa fa sì che due parole, tra una goliardata e l’altra, non possano mancare. Inizia così un carosello di opinioni contrastanti che forse è non lontano dal rendere il disagio che la notizia della strage alla Mecca, e il ricordo delle altre pesantissime tragedie dal 1990 — quando i morti furono 1400 — a oggi, suscita in un cittadino europeo medio.

Segue qui:
http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2015/9/28/ISLAM-Ma-quale-Sacrificio-Isacco-e-tornato-a-casa-con-le-sue-gambe-/641954/
 
FREUD AD ATENE E QUEL DISTURBO DELLA MEMORIA SULL’ACROPOLI 
di Glauco Maria Genga, culturacattolica.it, 29 settembre 2015
 

«Dunque, quello che ci guastò la gioia del viaggio ad Atene fu un sentimento di “pietà filiale”» (1)
Così Freud conclude una breve pagina autobiografica, Un disturbo della memoria sull’Acropoli: un bellissimo documento del suo modo di lavorare a partire da quel che osserva, anzitutto nella propria vita quotidiana. Essa è sempre e per ciascuno vita psichica (non esistono “fatterelli”). Qui è in primo piano il tema del rapporto con il padre: «È come se l’essenziale del successo consistesse nel fare più strada del padre, e che fosse tuttora proibito voler superare il padre (…)». È una questione che riguarda tutti, non soltanto chi si occupa professionalmente di psicoanalisi.
Il fatto (1904)
Freud era solito concedersi una lunga pausa estiva dal suo lavoro compiendo molti viaggi, spessissimo in Italia: non è esagerato dire che visitò il nostro Paese in lungo e in largo. Nel 1904 decise di trascorrere una settimana a Corfù in compagnia del fratello minore Alexander. Ma a Trieste, poco prima di imbarcarsi, un amico consigliò loro di evitare quell’isola, troppo calda in quei giorni, e di dirigersi invece ad Atene. Dapprima entrambi rimasero contrariati e incerti se prendere davvero il piroscafo per Atene. Ma dopo alcune ore si recarono tutti e due a cambiare i biglietti.
Così il 30 agosto s’imbarcarono per Brindisi e il 3 settembre raggiunsero Atene. Il suo biografo, E. Jones, racconta: «La mattina dopo trascorsero due ore sull’Acropoli: per la circostanza Freud aveva indossato la sua camicia più bella. Nello scrivere a casa raccontò che quella visita aveva superato qualunque altra esperienza che avesse mai fatto o immaginato prima (…). Più di vent’anni dopo ripeté che le colonne color ambra dell’Acropoli erano la cosa più bella che avesse mai visto in vita sua.» (2)
Questa visita fuori programma nel luogo più rappresentativo della civiltà greca classica, che egli ben conosceva e ammirava fin dagli anni liceali, produsse in lui un momentaneo disturbo della memoria (Erinnerungstörung): una curiosa esperienza sintomatica, di quelle che egli stesso aveva imparato ad apprezzare e a descrivere pochi anni prima in Psicopatologia della vita quotidiana (1901). Egli «fu colto da un senso di dubbio sulla realtà di ciò che aveva davanti agli occhi, tanto che stupì il fratello col chiedergli se si trovavano davvero sull’Acropoli». (3)
Trent’anni dopo (1936)
Nel gennaio 1936, Freud analizzò quell’episodio: «Quando poi il pomeriggio dopo l’arrivo mi trovai sull’Acropoli e abbracciai con lo sguardo il paesaggio, mi venne improvvisamente il pensiero singolare: “Dunque tutto questo esiste veramente, proprio come l’abbiamo imparato a scuola?!”».
Fu come sentirsi sdoppiato in due persone, una delle quali si interrogava sulla realtà delle proprie percezioni mentre l’altra, con meraviglia, ne «prendeva nota». Del resto, prosegue Freud, «vedere una cosa coi propri occhi è del tutto differente dal sentirne parlare o leggere». Di qui la sua incredulità: «Noi arriveremo a vedere Atene? Non è possibile, è troppo difficile. (…) Sarebbe stato così bello! (…) E’ un caso di “too good to be true” [troppo bello per essere vero], come ne incontriamo così frequentemente. (…) Un’incredulità di questo tipo è palesemente un tentativo di ricusare un frammento della realtà, ma qui c’è qualcosa di strano.» Non si sarebbe stupito se si fosse trattato di evitare un dispiacere, «ma perché una tale incredulità verso qualcosa che invece promette un intenso piacere? Un comportamento veramente paradossale!». Il caso è analogo a quel che accade a quanti «soccombono al successo» perché in preda al «senso di colpa o d’inferiorità che si può tradurre: “Non sono degno di tanta felicità, non la merito.»
 
Segue qui:
http://www.culturacattolica.it/?id=516&id_n=37804

SACRALITÀ. Il deputato che beve dal bicchiere del Papa e l’equipaggio che non rialza Francesco quando cade 
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 30 settembre 2015

Bisogna difendere la sacralità”, predica il Papa all’Onu; sante parole che maestose echeggiano in un’aula troppe volte sconsacrata da opportunismi e tornaconti. Il Papa predica, ma poi che accade? Accade che per via del forte vento che scuote il JFK e per la stanchezza, il Papa inciampa sugli scalini del velivolo davanti agli occhi dell’equipaggio e degli addetti; occhi attoniti, corpi paralizzati, nessuno che si precipiti a sollevare il Santo Padre, nessuno gli tende la mano. Tanti giornali hanno fatto titoli scandalizzati, ma noi scartiamo subito la sciocca e maligna ipotesi che in cima alla scaletta possano esserci dei sadici che godono alla vista di un vecchio che cade, o dei pigri che non muovono un dito, o dei cinici che se ne fottono. Niente di tutto ciò, quindi due ipotesi. Prima ipotesi: il Papa, che vediamo di spalle, con la parola o con un’occhiata ha bloccato i suoi addetti perché voleva rialzarsi da solo, fiero della sua forza residua, un vecchio che non ha bisogno di nessuno per risorgere. Seconda ipotesi: un’esplosione di sacralità, la sacralità dell’uomo, in particolare.
 
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2015/09/30/sacralit___1-vr-133308-rubriche_c385.htm
 

FINGERE DI ESSERE FREUD CI FA PENSARE COME LUI 
di Carla Reschia, La Stampa, 30 settembre 2015
 
Immaginate di essere Sigmund Freud, fategli una domanda e datevi una risposta. I volontari che hanno partecipato agli esperimenti di «embodiment» di Sofia Adelaide Osimo, ricercatrice della Sissa di Trieste, si saranno sentiti in un film, un film con una sceneggiatura un po’ strampalata, come quella scritta da Charlie Kaufman per Essere John Malkovich dove tutti, per un quarto d’ora potevano entrare nella mente del famoso attore e viverne in soggettiva i pensieri e le azioni.
La ricerca, appena pubblicata sulla rivista Scientific Reports, è ovviamente serissima. Si trattava di verificare se l’impersonamento (l’embodiment, appunto) può influire anche sui processi del pensiero. Detto altrimenti: essere un altro ci fa ragionare in maniera differente? La risposta è sì.
Nell’esperimento condotto in collaborazione con l’Event Lab dell’Università di Barcellona, le «cavie» dovevano prima chiedere consiglio su un problema di natura psicologica e poi darsi una risposta vestendo però i panni di Sigmund Freud. Perché proprio lui? «Abbiamo sottoposto dei questionari a un campione con caratteristiche simili a quelle dei soggetti che abbiamo scelto per gli esperimenti. E il padre della psicanalisi è risultato perfetto: autorevole, conosciuto, con un aspetto molto caratteristico».
Per l’esperimento è stata usata la «realtà virtuale immersiva», ovvero una stanza virtuale dove, dotati di casco e sensori, i soggetti dell’esperimento potevano vivere fisicamente la sensazione di trovarsi letteralmente nei panni del dottor Freud.
 
Segue qui:
http://unipi.waypress.eu/cgi/ImageCgi.cgi?f=20150930/SIL3037.TIF&t=PDFOCR
 

EDUCARE ALL’USO DELLE CHAT? SÌ, A PARTIRE DAI GENITORI 
di Luigi Ballerini, Paola e Tiziano Gottarelli, avvenire.it, 30 settembre 2015

Siamo genitori di quattro figli. Ci siamo accorti che negli ultimi anni la tecnologia è entrata (prepotentemente) a far parte dei rapporti con i nostri figli e tra di loro. Oggi, soprattutto WhatsApp è diventato uno strumento di controllo di quello che i nostri figli fanno o dicono. In particolare a tutti i livelli ha preso piede la moda (la mania?) di utilizzarlo come strumento di comunicazione anche fra genitori, quasi affidando alla tecnologia compiti di controllo e organizzazione delle giornate….
No news, good news. Niente nuove, buone nuove. È un vecchio detto che dovremmo rivalutare, testimonia infatti l’assenza della melanconia che è sempre lì ad aspettarsi qualcosa che non va, una disgrazia dietro l’angolo, una sciagura tanto paventata quanto attesa. La bontà del detto ha anche a che fare con la tentazione di tenere tutto sotto controllo, segna la caduta del bisogno di un monitoraggio continuo della situazione. In fin dei conti ci dice che se accadrà qualcosa di rilevante, qualcuno me ne informerà; nel frattempo posso continuare a occuparmi delle mie questioni personali…
 
La lettera e la risposta seguono qui:
http://www.avvenire.it/rubriche/Pagine/Giovani%20storie/Educare%20all%20uso%20delle%20chat%20%20Si%20%20a%20partire%20dai%20genitori_20150930.aspx?rubrica=Giovani+storie
 
 
I più recenti pezzi apparsi sui quotidiani di Massimo Recalcati e Sarantis Thanopulos sono disponibili su questo sito rispettivamente ai link:
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4545
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4788
 
Da segnalare le seguenti rubriche: "Laicamente, Dialoghi su psichiatria, arte e cultura" di Simona Maggiorelli, al link 
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/5673
"Mente ad arte, percorsi artistici di psicopatologia nel cinema ed oltre, di Matteo Balestrieri al link 
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4682
 
(Fonte dei pezzi della rubrica: http://rassegnaflp.wordpress.com

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1 commento

  1. egidiotommasoerrico

    nside out IT. La
    nside out IT. La frammentazione della soggettività in cinque emozioni fondamentali: gioia, tristezza, paura, rabbia e disgusto che, in un rapporto di causalità lineare con l’esterno, gestiscono la vita della bambina da una centrale operativa altamente tecnologica secondo i principi dell’efficienza e della congruità. Regolano inoltre i pensieri (che corrono su un trenino che non si ferma mai) e i ricordi (raffigurati come palle colorate ordinate in una miriade di scaffali). Le esperienze familiari, amicali, ludiche, scolastiche ecc. sono isole ben distinte e funzionanti autonomamente. Il subconscio (così viene definito) è una discarica buia e spettrale dei “piantagrane”. Insomma una rappresentazione trionfalistica della psicologia delle emozioni e del comportamentismo che riducono in effetti l’essere umano, sin da bambino, ad un insieme di parametri e funzioni che, come ingranaggi e meccanismi, sono tecnicamente -e singolarmente- controllabili, aggiustabili e adattabili alle aspettative dei diversi contesti di vita. Personalmente ho provato orrore, come un brutto sogno -un incubo, perché “Inside out IT” è un film dell’orrore. Un horror. Fortunatamente l’essere umano, il Soggetto, è un’altra cosa

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