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I giovani d’oggi: precari, derubati del proprio futuro. Problemi psicologici e sociali.

12 Nov 15

A cura di Leonardo Dino Angelini

A Reggio Emilia, all’inizio degli anni ’90, l’80% dei giovani che si affacciavano al mercato del lavoro “si sistemavano”, cioè trovavano un lavoro a tempo indeterminato, nel giro di un anno.
Una decina di anni dopo – nei primi anni 2000 – la situazione si era rovesciata, e solo il 20% di essi riusciva a trovare lavoro nel giro di un anno; mentre il restante 80% andava a costituire quella che l’economista Seravalli allora chiamò “la panchina lunga”: cioè un lavoro precario che durava a lungo, e che solo dopo qualche anno permetteva ai giovani di passare dalla panchina lunga alla prima squadra; vale a dire ad un lavoro a tempo indeterminato.
Ammoniva Seravalli che questa situazione era destinata a durare finché l’arrivo di una crisi non avesse bloccato questo passaggio, che ancora dava ai giovani reggiani la possibilità di proiettarsi in un futuro di relativa sicurezza (sappiamo che in altre parti d’Italia non era più così già da tempo).
L’arrivo della crisi infatti ha poi sconvolto anche qui questo fragile equilibrio, frutto già avvelenato delle politiche del lavoro che centrosinistra e centrodestra avevano intrapreso a partire da Treu. Per cui oggi a Reggio, come dappertutto, la condizione di precario è diventata la norma, contraddetta solo da un gruppo di sparute mosche bianche, e confermata drammaticamente dalla sempre più estesa moltitudine di coloro che a un certo punto si arrendono ed escono dal mercato del lavoro, o –peggio- passano alla condizione servile del  lavoro nero.
Ma io non voglio qui addentrarmi in un discorso di tipo economico, anche se una premessa di questo tipo a quanto sto per dire qui mi pare d’obbligo se non si vuol cadere in una visione psicologistica, riduttiva e à la Tanguy del problema.
Voglio parlare dell’impatto che questa condizione di precarietà e di “ritiro” ha su una generazione composta da soggetti passati – spesso insieme ai loro genitori – da una società che vedeva una netta prevalenza di profili di personalità di tipo anancastico abituati ad affrontare le emergenze del mondo interno ed i problemi di relazione sotto il segno della colpa, al sempre più netto prevalere di profili di tipo anaclitico, basati fin dalla nascita sul sostegno e sulle più ottimistiche attese e profezie circa il loro futuro, fatte dai genitori e da tutto l’ambiente più prossimo.
Solo se noi facciamo un’opera di coniugazione fra il modo di affrontare la realtà tipico di questi nuovi soggetti anaclitici e l’improvvisa e drammatica assenza di futuro che, come abbiamo visto, si para innanzi quand’essi raggiungono le sabbie mobili dell’odierno mercato del lavoro, riusciamo a comprendere la natura del loro dramma.
Oltretutto quasi sempre le generazioni che, a partire dal dopoguerra, sono venute prima di loro (compresa stavolta quella dei loro genitori) da una parte avevano potuto fruire di un ascensore sociale in ascesa, cioè di una mobilità verticale positiva che le aveva condotte al di là del livello di benessere dei propri genitori. Dall’altra di una più estesa possibilità di accesso agli studi che “dopo” – nel passaggio dal sogno al progetto – nella maggior parte dei casi si era tradotta in una occupazione non distante dalla proprie ultime e più realistiche aspirazioni: quelle della fine dell’adolescenza.
Dice Linda Gottfredson[1] – una psicologa del lavoro americana – che, a grandi linee, il livello di autorealizzazione e di benessere della generazione precedente costituisce per i figli il pavimento sotto il quale non ci si sente realizzati. Mentre i traguardi raggiunti sul piano formativo rappresentano il tetto oltre il quale non è realisticamente pensabile di andare.
Ebbene, fatte queste premesse (e lasciate da parte le caricature à la Tanguy!) cerchiamo ora di rivedere criticamente ciò che ci viene dai giovani che frequentiamo nella vita, o come nostri pazienti.
Il loro Ideale dell’Io è stato “pompato” oltremodo per tutta l’infanzia, l’adolescenza e la postadolescenza; ed ora all’improvviso viene “spompato” nel momento in cui si sentono non sostenuti, non amati, e neanche presi in considerazione, ma anzi spesso maltrattati, spremuti e gettati via come carta straccia dai vari datori di lavoro, che approfittano dell’asimmetria che nasce sia dalla condizione precaria dei giovani, sia della progressiva distruzione delle tutele per mostrarsi insensibili alle loro preghiere [lavoro precario = ottenuto per preghiera (e non per diritto)].
Le reazioni a questa profonda ferita narcisistica sono le più varie: si va dallo sprofondamento in una situazione di depressione, di cui l’autocancellazione dal mercato del lavoro è solo la parte emergente del problema, fino alla sua negazione ed al rifugio in una specie di progetto romantico circa il proprio futuro, che spesso si appoggia sulle illusioni che provengono dalla loro persistenza nella “famiglia lunga” (Scabini[2]), quando non dal sostegno, anche economico, dei genitori e degli altri parenti.
La maggior parte però finisce con l’adattarsi ad una condizione di subalternità, cercando quasi sempre soluzioni individuali ai propri problemi: l’individualismo è un’altra gramigna che è stata instillata nel loro animo e contro la quale neanche a livello tradunionistico pare esistano anticorpi capaci di cercare soluzioni collettive ai loro problemi (non è un caso che le lotte dei precari spesso vedano protagonisti i giovani immigrati).
Lo fanno attraverso varie strategie: che vanno dall’entusiasmo derivante dalla identificazione con i propri piccoli o grandi padroni, dai tentativi di imitarne filosofie e stili di vita, fino al prendersela con calma adattandosi e, magari, mettendo in piedi sul lavoro un sé compiacente, che poi si cerca di abbandonare a casa.
Dove peraltro vige da sempre la necessità di cercare conforto continuando a fare il pieno dei feticci che la società dei consumi impone, e che “permettono la separazione, ma non calmano” – come avrebbe detto Masud Khan[3] – imponendo una coazione alla bulimia consumistica senza mai sentirsi appagati. Una coazione che, poggiando su uno stato di perenne insicurezza, per perpetuarsi nel tempo necessita di una elevata propensione all’autoinganno.
Si viene così a determinare una situazione complessa che apparirebbe disperante se il neo-adulto autoctono si ponesse a fare i conti senza infingimenti con i segnali di autorealizzazione descritti dalla Gottfredson.
Infatti anche il percorso formativo più promettente viene messo in crisi dalla condizione di precario. Così come anche i più alti livelli di autorealizzazione, oltre che grondare delle lacrime e del sangue versate o fatte versare per raggiungerli, difficilmente vanno al di là dei traguardi della generazione precedente.
Il tutto appare come avvolto in un velo, che pudicamente cela la realtà e la trasforma in uno scenario in cui va in onda sempre la stessa commedia. Tutto è circonfuso nella patina dorata di una maniacalità consumistica che non ha mai fine, poiché la teoria infinita dei bisogni indotti (e veicolati da pifferai magici al soldo del capitale) procrastina il presente spostandolo sempre in avanti, e spogliandolo anche qui di ogni possibilità di incubare il futuro.

 
 
 



[1] Gottfredson L., Gottfredson’s Theory on Circumscription Compromise end Self-creation, in: D. Brown, Ed. 2002, Career Choice end Developement, San Francisco, Jossey-Bass
[2] E. Scabini e P. Donati, La famiglia lunga del giovane adulto. Verso nuovi compiti evolutivi, Vita e Pensiero, Mi
[3] Masud Khan, Le figure della perversione, Boringhieri, Torino

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2 Commenti

  1. mori@ipsnet.it

    Dalla “panchina lunga” alla
    Dalla “panchina lunga” alla “tribuna” per usare sempre il termine sportivo-calcistico.
    E’ così. Non esiste più il mondo ordinato e fatto a scale che prevede un ‘ascesa graduale in funzione dell’età che avanza e dell’adattamento e impegno che profondi. L’ideale dell’io oggi è l’efficienza e il raggiungimento degli obiettivi in termini di riuscita economica e di visibilità sociale. Non ci sono alternative.
    La prima conseguenza sembra proprio quella che viene ben descritta del passaggio da una personalità di tipo anancastico a quella di tipo anaclitico con tutti i disagi conseguenti.
    A ben guardare però ciò che sta emergendo sempre di più nella società è anche una specie di ritrosia e rigetto di questo stato di cose da cui sembra non si possa uscire e dove oltre il caos regna la disperazione, la precarietà, la sfiducia e la rassegnazione.
    Le nuove iniziative intraprese dai giovani in tutti i campi, dalla riscoperta dell’agricoltura all’utilizzo creativo del Web, dall’offerta infinita di approcci ai problemi quotidiani alla flessibilità assoluta al cambiamento continuo nelle proprie iniziative…lascia intravvedere una società “nuova” che sembra non aver bisogno dei valori tradizionali e non si aspetta nulla se non ciò che deriva dal frutto delle proprie mani. La crisi della politica tradizionale, la messa in discussione di ogni principio che vincoli la libera iniziativa, la voglia di libertà individuale esplicitata anche dalla diminuzione di matrimoni… sembrano dare consistenza a questa nuova visione della vita e del modo in cui viverla.

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    • dinange

      Grazie Giuseppe! hai ridato
      Grazie Giuseppe! hai ridato “aria” al post, all’interno del quale effettivamente avevo omesso di parlare di queste nuove prospettive, finendo col chiudermi anch’io nella dimensione claustrale e afosa del presente.

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