Lo Stato Islamico offre risposte e ricompense inestimabili a chi ha bisogno di certezze: il significato di una vita, il grado di eroi e martiri nella Storia della lotta agli infedeli. L’IS si legittima con la religione, ma le ragioni profonde della sua forza sono psicologiche. Fa leva sulla disperazione di chi vive in territori degradati, crea opportunità basate sul sogno di rivalsa, fa welfare alternativo per la soddisfazione del qui e ora: porta l’elettricità nei villaggi, apre mense e aggiusta strade, vaccina i bambini, paga le famiglie dei kamikaze. I capi lavorano per sottrazione: Al Baghdadi appare pochissimo sui media, nessuno sa con precisione chi siano i suoi luogotenenti. Questo accresce il loro alone di mistero, l’immagine di guerrieri e santi che sfidano il male, la paranoia dei militanti. Col risultato di facilitare reclutamento e radicalizzazione. L’IS offre le donne ai combattenti, sfrutta i social network per fare propaganda, usa la musica per creare identità e rafforzamento nell'immaginario collettivo, affina la manipolazione psicologica per reclutare foreign fighters. Mette in rete immagini virali che provocano eccitazione e indignazione (soprattutto in chi è suggestionabile), stuzzica i sentimenti d’ingiustizia, umiliazione e riscatto, elicita il bisogno di appartenenza, trasforma il profano nel sacro.
Psicologia del terrorista islamico
La letteratura scientifica è concorde nel ritenere che i terroristi non siano “matti”. L’arruolamento predilige gente affidabile, scarta chi dà segni di squilibrio. Non esistono criteri universali per definire la psicologia di un terrorista, ma si possono identificare alcune caratteristiche e meccanismi di pensiero comuni. Si tratta di giovani, single, astuti e ambiziosi, non sempre provenienti da famiglie disagiate, spesso di media cultura (come Mohamed Atta, il terrorista dell’11 settembre), indottrinati nelle scuole che insegnano il Jihad, con traumi alle spalle come la morte o il ferimento di familiari, mimetizzati nell’odiata cultura occidentale. Il terrorista è motivato, disciplinato, tollera lo stress, ha capacità di concentrazione sull’obiettivo prefissato e forti aspettative di riscatto e crescita sociale. Hannah Ardent diceva che l’azione morale nasce dal dialogo interiore, e che l’assenza di questo dialogo trasforma le persone normali in agenti del male. L’assenza di dialogo interiore mescolata al bisogno di sicurezza e identità spiegano, almeno in parte, l’alienazione del terrorista nel suo gruppo di iniziati. Un gruppo che giustifica tutto in nome di un ideale più elevato secondo il principio: “Qualsiasi cosa noi facciamo, voi fate molto peggio”. L’estremista accetta le responsabilità: le ritiene necessarie, minimizza la sofferenza delle vittime, disumanizza il nemico, reprime scrupoli morali e freni inibitori creandosi giustificazioni in cui crede ciecamente. Ha una fede incondizionata nel Corano che accetta senza critica: il fondamentalista islamico non pensa, perché i precetti del Corano pensano per lui. È ossessionato da un’idea, influenzato da figure carismatiche, non scende a compromessi: ha un’organizzazione di pensiero fanatica, che si estremizza in chi sceglie di farsi saltare in aria.
Il commando di Parigi si è mosso secondo strategie pianificate, incompatibili con disturbi mentali gravi. Il kamikaze esaspera pensieri che non sono esclusivi di un malato, ad esempio la capacità di visualizzare il Paradiso. Annulla la sua vita: è certo che quello sia il sistema più nobile per raggiungere l’aldilà, fede e nazione sono l’unica strada di salvezza e si immola in loro nome perché li considera valori più alti della vita stessa. Riconduce il suo suicidio al martirio per la fede islamica. Per prepararsi all'operazione militare si concentra sugli aspetti operativi in modo da evitare quelli emotivi, neutralizza i sentimenti negativi con la dissimulazione.
Psicologia delle vittime
Gli attentati di Parigi hanno conseguenze psicologiche sui familiari delle vittime, su chi era presente al Bataclan e nelle altre sedi degli agguati, sulla popolazione generale. Devono creare ansia, paura e insicurezza, e avranno ripercussioni sull’assetto delle famiglie, sui contatti sociali, sul senso di appartenenza. Il venerdì 13 dell’Occidente incrina la capacità di fare previsioni, compromette le certezze sulla possibilità di controllare il mondo esterno, determina vissuti d’impotenza. Nonostante la maggior parte delle persone non subisca gravi conseguenze psicologiche, la popolazione può avere reazioni emotive (rabbia, ansia, panico, terrore, tristezza, depressione, ecc.), cognitive (disorientamento, confusione, ridotta capacità di concentrazione, ecc.), somatiche (insonnia, affaticabilità, cefalea e altri disturbi), comportamentali (facilità al pianto, reazioni di allarme e altro). Sono più spesso lievi e transitorie: risposte normali a eventi straordinari che si riducono in pochi giorni anche senza interventi specialistici ma che interferiscono con la capacità di fronteggiare il trauma. Circa 1/3 di chi è direttamente esposto a eventi come quello di Parigi, però, può sviluppare un disturbo psichiatrico (più spesso dello spettro dello stress) che, a differenza dei problemi fisici, rimane generalmente sconosciuto, viene diagnosticato con difficoltà e non è adeguatamente trattato. Forse i problemi psicologici non saranno l’aspetto principale da affrontare dopo la strage di Parigi, ma bisognerà tenerli in grande considerazione per ridurre la percezione di vulnerabilità e restituire il senso della quotidianità a una civiltà colpita nella mente.
Articolo pubblicato online su L'Espresso il 17 novembre 2015
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ringrazio Corrado per l’articolo che si aggiunge ad altri pubblicati sul tema nella pluralità polifonica delle idee che è una cifra di proposta della rivista.
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