TRAUMI
di Giuliano Castigliego, giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com, 14 novembre 2015
“Picture My Future, I See Nothing”
Con queste parole si apre il rapporto di Human Rights Watch sugli ostacoli all’istruzione dei bambini siriani rifugiati in Turchia. Vi si legge tra l’altro che più di 400.000 piccoli profughi stanno crescendo senza istruzione. Molti di loro – riferisce anche Monica Ricci Sargentini sul Corriere – cadono nella trappola del mercato nero lavorando fino a 12 ore al giorno; ma “ancora peggio va alle ragazzine che vengono date in sposa ad un turco in cambio del mantenimento della famiglia”. D’altro canto i profughi, soprattutto bambine/i ancor più se soli, sono, per la loro stessa condizione, a rischio di sfruttamento anche nei paesi europei, tra cui l’Italia. Ne dava recentemente conto Leonardo Cavaliere Anche se formalmente assistiti da fondazioni e istituzioni dai nomi benevolenti e celestiali, i minori stranieri non accompagnati (MNSA) diventano spesso vittime dello sfruttamento economico e della prostituzione minorile mentre la loro “gestione” si può trasformare in un affare assai lucrativo per gli affaristi e gli amministratori corrotti di Mafia Capitale.
Quanto mai benvenute sono dunque tutte le iniziative di solidarietà ed aiuto ai rifugiati perché possano sfuggire a ogni sfruttamento, approfittare di tutti gli aiuti pubblici e privati e organizzarsi al meglio nei vari paesi. Molte di queste iniziative, come illustra ad es. con dovizia di link Floriana Fernando sono digitali, create sia dalle istituzioni, che da associazioni e ngo ma anche e soprattutto dagli stessi rifugiati come la mappa collaborativa arriving in Berlin che illustra sedi e possibilità di accesso ai più disparati servizi per migranti. In Italia Mike Butcher, editor di Tech Crunch, partendo da “un gruppo di volontari disposti a collaborare per mettere il crowdsourcing al servizio della gestione dell’emergenza in Europa” ha dato vita a Techfugees Ma gli immigrati creano anche app innovative utili per tutti http://blog.startupitalia.eu/startup-migranti-lampedusa/Oltreoceano poi – come scrive Alberto Onetti “il 60% delle top 25 tech company ha tra i suoi fondatori immigrati di prima o seconda generazione. Tra queste le prime tre: Apple dal figlio di un siriano, Google da un immigrato russo (Sergey Brin), la stessa IBM da Herman Hollerith, tedesco di seconda generazione”.
Cosa rende allora l’emigrazione un trauma o invece una straordinaria molla per l’innovazione? Certo sono le condizioni politiche, sociali, culturali in cui avviene la migrazione a fare la differenza. Ma anche e soprattutto il significato che l’individuo finisce per attribuire alla migrazione. Il che dipende a sua volta da quello che lui/lei ha vissuto prima e vivrà dopo. Per un mio paziente proveniente da un altro continente, costretto agli orrori della guerra ancora bambino, la migrazione prima in un altro paese europeo e poi in Svizzera ha rappresentato una liberazione. Lavorare nel profondo buio delle gallerie autostradali e ferroviarie svizzere ha costituito per lui la realizzazione di un sogno, una vera e propria luce per la esistenza sua e di tutta la sua famiglia. Quando però un incidente non grave l’ha costretto ad abbandonare il suo faticoso lavoro, il mondo gli è crollato addosso. Pur se aiutato dalle istituzioni per la riabilitazione e l’acquisizione di un’altra attività lavorativa, non ha più visto futuro. Il trauma lo ha ripreso. Ora, malfermo sulle proprie gambe lui che era il ritratto della forza, se la prende con profughi e migranti che “senza fare nulla” vogliono assistenza ed un futuro.
Non è ingratitudine. E neanche l’effetto della propaganda demagogica che, facendo leva sulla paura, conquista anche gli ex-migranti. È una conseguenza del trauma. Che per sua natura minaccia l’esistenza (fisica/psichica), priva la vita di ogni rispetto, toglie ogni fiducia nella possibilità di un minimo di bene e in definitiva nell’umanità, sancisce la distruzione come regola unica e assoluta.
Segue qui:
http://giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com/2015/11/14/trauma/
Quanto mai benvenute sono dunque tutte le iniziative di solidarietà ed aiuto ai rifugiati perché possano sfuggire a ogni sfruttamento, approfittare di tutti gli aiuti pubblici e privati e organizzarsi al meglio nei vari paesi. Molte di queste iniziative, come illustra ad es. con dovizia di link Floriana Fernando sono digitali, create sia dalle istituzioni, che da associazioni e ngo ma anche e soprattutto dagli stessi rifugiati come la mappa collaborativa arriving in Berlin che illustra sedi e possibilità di accesso ai più disparati servizi per migranti. In Italia Mike Butcher, editor di Tech Crunch, partendo da “un gruppo di volontari disposti a collaborare per mettere il crowdsourcing al servizio della gestione dell’emergenza in Europa” ha dato vita a Techfugees Ma gli immigrati creano anche app innovative utili per tutti http://blog.startupitalia.eu/startup-migranti-lampedusa/Oltreoceano poi – come scrive Alberto Onetti “il 60% delle top 25 tech company ha tra i suoi fondatori immigrati di prima o seconda generazione. Tra queste le prime tre: Apple dal figlio di un siriano, Google da un immigrato russo (Sergey Brin), la stessa IBM da Herman Hollerith, tedesco di seconda generazione”.
Cosa rende allora l’emigrazione un trauma o invece una straordinaria molla per l’innovazione? Certo sono le condizioni politiche, sociali, culturali in cui avviene la migrazione a fare la differenza. Ma anche e soprattutto il significato che l’individuo finisce per attribuire alla migrazione. Il che dipende a sua volta da quello che lui/lei ha vissuto prima e vivrà dopo. Per un mio paziente proveniente da un altro continente, costretto agli orrori della guerra ancora bambino, la migrazione prima in un altro paese europeo e poi in Svizzera ha rappresentato una liberazione. Lavorare nel profondo buio delle gallerie autostradali e ferroviarie svizzere ha costituito per lui la realizzazione di un sogno, una vera e propria luce per la esistenza sua e di tutta la sua famiglia. Quando però un incidente non grave l’ha costretto ad abbandonare il suo faticoso lavoro, il mondo gli è crollato addosso. Pur se aiutato dalle istituzioni per la riabilitazione e l’acquisizione di un’altra attività lavorativa, non ha più visto futuro. Il trauma lo ha ripreso. Ora, malfermo sulle proprie gambe lui che era il ritratto della forza, se la prende con profughi e migranti che “senza fare nulla” vogliono assistenza ed un futuro.
Non è ingratitudine. E neanche l’effetto della propaganda demagogica che, facendo leva sulla paura, conquista anche gli ex-migranti. È una conseguenza del trauma. Che per sua natura minaccia l’esistenza (fisica/psichica), priva la vita di ogni rispetto, toglie ogni fiducia nella possibilità di un minimo di bene e in definitiva nell’umanità, sancisce la distruzione come regola unica e assoluta.
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PARIGI: COSA, COME, POSSIAMO COMPRENDERE? PSICANALIZZARE, EDUCARE, GOVERNARE. I MESTIERI IMPOSSIBILI
di Rolando Ciofi, psychiatryonline.it, 14 novembre 2015
E’ ovvio il fatto che io abbia una opinione. Con molta tristezza la devo riassumere con le parole di un personaggio che certo non incontra il mio plauso Bashar al Assad: “La Francia ha conosciuto ciò che viviamo in Siria da 5 anni”. Purtroppo una cruda verità poco o per nulla confutabile anche se in ciò che i siriani vivono da 5 anni lo stesso al Assad non è certo estraneo. Ma al di là delle mie radicali opinioni (che la dicono lunga su quanto non apprezzi la politica estera francese) voglio spostare il discorso sul campo nel quale più sono competente. E mi interrogo. Cosa fare per poter capire? (Sì capire, perché capire è l’unico modo di poter poi affrontare le situazioni).
I miei strumenti sono di nicchia. Mi viene in mente il “maestro”, il buon vecchio Freud: ”Quello dello psicanalizzare sembra essere il terzo dei mestieri impossibili il cui esito insoddisfacente è evidente. Gli altri due, noti da tempo, sono quelli dell’educare e del governare” (Sigmund Freud come tradotto da Giancarlo Ricci).
Per un qualche misterioso “crocicchio” di destini mi è stato dato, nella vita, il difficile compito di svolgere tutti e tre questi mestieri. Naturalmente nel mio piccolo, non ad alti livelli. Ma sono stato educatore, analista e anche “governante” (Sindaco di un piccolo Comune). Ho imparato molto. E ho cercato di fare ciò che potevo. L’impossibilità dei mestieri sta nel fatto, a mio avviso, che hanno a che fare contemporaneamente con i valori, con la relatività, con il rispetto della soggettività, e con la “verità”. Tutte questioni di difficile condivisione, ancor più difficile quando, come in questi mestieri, vi sia forte asimmetria tra l’educatore e l’educato, tra l’analista e l’analizzato, tra il governante ed il governato.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/5909
E’ ovvio il fatto che io abbia una opinione. Con molta tristezza la devo riassumere con le parole di un personaggio che certo non incontra il mio plauso Bashar al Assad: “La Francia ha conosciuto ciò che viviamo in Siria da 5 anni”. Purtroppo una cruda verità poco o per nulla confutabile anche se in ciò che i siriani vivono da 5 anni lo stesso al Assad non è certo estraneo. Ma al di là delle mie radicali opinioni (che la dicono lunga su quanto non apprezzi la politica estera francese) voglio spostare il discorso sul campo nel quale più sono competente. E mi interrogo. Cosa fare per poter capire? (Sì capire, perché capire è l’unico modo di poter poi affrontare le situazioni).
I miei strumenti sono di nicchia. Mi viene in mente il “maestro”, il buon vecchio Freud: ”Quello dello psicanalizzare sembra essere il terzo dei mestieri impossibili il cui esito insoddisfacente è evidente. Gli altri due, noti da tempo, sono quelli dell’educare e del governare” (Sigmund Freud come tradotto da Giancarlo Ricci).
Per un qualche misterioso “crocicchio” di destini mi è stato dato, nella vita, il difficile compito di svolgere tutti e tre questi mestieri. Naturalmente nel mio piccolo, non ad alti livelli. Ma sono stato educatore, analista e anche “governante” (Sindaco di un piccolo Comune). Ho imparato molto. E ho cercato di fare ciò che potevo. L’impossibilità dei mestieri sta nel fatto, a mio avviso, che hanno a che fare contemporaneamente con i valori, con la relatività, con il rispetto della soggettività, e con la “verità”. Tutte questioni di difficile condivisione, ancor più difficile quando, come in questi mestieri, vi sia forte asimmetria tra l’educatore e l’educato, tra l’analista e l’analizzato, tra il governante ed il governato.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/5909
INTERVISTA A ELISABETH ROUDINESCO. “HANNO COLPITO LA LAICITÀ ADESSO LA PAURA CI SPINGE ALL`ESTREMISMO”. La psicoanalista Roudinesco: “L’islamismo seduce i più fragili. Ma l’indebolimento dei valori repubblicani ha aperto la strada”
di Cesare Martinetti, la Stampa, 16 novembre 2015
Cominciamo da una piccola frase presa dal «Journal du Dimanche». Racconta una testimone scampata al massacro del Bataclan: «Parlavano francese come me e tè e ci hanno detto: questo è quello che voi fate in Siria e in Iraq…». Ecco, Madame Roudinesco: parlavano un francese impeccabile. I killer di venerdì sono figli di immigrati nati qui, come Ismail, il primo ad essere identificato: è dunque una guerra interna?
«Dall’ll settembre non ragiono in termini di nemici interni o esterni ma di nuova forma di guerra in un mondo globale. L’Islam fanatico offre una facile identità a ragazzi fragili, prima o seconda generazione di immigrati o francesi convertiti, poco importa. Sono i sintomi di un male che rischia di far riemergere tutti i peggiori demoni francesi».
Con Elisabeth Roudinesco, psicanalista e storica della psicanalisi, tentiamo di scavare nel sottosuolo delle viscere emotive del Paese. Madame è appena rientrata dall’Italia dove ha presentato il «Freud nel suo tempo e nel nostro» edito da Einaudi e immersa tra i libri del suo studio non nasconde l’angoscia.
«Siamo di fronte a una regressione radicale verso fenomeni religiosi ostili ai diritti dell’uomo. Le ragazze che spontaneamente mettono il burqa come una forma di rivendicazione secondo me esprimono un rifiuto fanatico dell’Illuminismo. Che si richiamino ad Al Qaeda o all’Isis poco importa e bisogna essere radicali nella lotta contro questa politica: non una guerra razzista agli arabi, ma all’integralismo religioso».
Perché colpiscono la Francia?
«Perché è una repubblica fondata sull’universalismo laico, sulla tolleranza e sul diritto di ciascuno di avere nel privato la sua religione. Anche Robespierre non ha spinto fino al fondo la lotta al clericalismo. Diceva: meglio Dio di una setta. E io sono d’accordo. Questa natura laica ci rende più fragili. Siamo il Paese dell’affare Dreyfuss: possiamo diventare i più antisemiti del mondo o essere al tempo stesso i più generosi, il Paese dei Lumi e insieme del peggio espresso nella collaborazione al nazismo».
Vuoi dire che la Francia può facilmente scivolare nell’estremismo?
«Direi nel fascismo. Il crollo del comunismo ha fatto perdere alle masse l’illusione di un mondo migliore e ora il rischio concreto è che la classe operaia e il voto popolare si sposti tutto a destra come sta succedendo con Marine Le Pen che ha surrogato i valori di sinistra sostituendoli con dei falsi. II rischio è che la Francia scivoli nel fascismo e il voto popolare si sposti tutto a destra Marine Le Pen ha surrogato i valori di sinistra con dei falsi. È questa la nuova peste politica che non a caso si nutre e prende forza da ogni attacco dell’Islam radicale. Si fan forza l’uno con l’altro».
Ma cosa è successo in Francia per provocare un tale desiderio di estrema destra?
«C’è stata una relativizzazione dei valori repubblicani, la rivoluzione è stata ridicolizzata, la resistenza anche, giornalisti e polemisti come Eric Zemmour o Michel Onfray hanno preso il posto degli intellettuali. C’è un’enorme responsabilità nella televisione che per puro bisogno di auditel ha costruito mostri trasformando in fenomeni mediatici personaggi che flirtano con l’estrema destra anche se vengono dall’estrema sinistra. Viviamo in un clima detestabile: si è arrivati persino a riabilitare Pétain».
Madame Roudinesco, lei ci sta dicendo che il massacro di venerdì è precipitato dentro un Paese in crisi nei suoi fondamenti. Come si esprime questa crisi?
«Con il terrore di perdere la famiglia, il padre, la nazione, tutto. Anche la caduta delle frontiere ha contribuito a far smarrire la bussola. Domina un senso di vuoto. Le manifestazioni di massa contro il matrimonio omosessuale hanno saldato tutto questo con l’estrema destra. La sinistra riformista è schiacciata tra due fuochi. E Hollande, che pure è eccellente, non sa essere il buon zio com’erano Mitterrand e a suo modo anche Chirac: uno da uomo di destra faceva una politica di sinistra, l’altro riusciva ad essere un uomo di sinistra pur affermando valori di destra. La presidenza della République, già ridicolizzata da Sarkozy, con Hollande ha perso capacità di rappresentanza».
Segue qui:
http://www.lastampa.it/2015/11/16/esteri/hanno-colpito-la-laicit-adesso-la-paura-ci-spinge-allestremismo-LHKGPWaEaHF29uQ8SnwiEP/pagina.html;jsessionid=6BF6CB15736FB7B443D166C6881A37D9
Cominciamo da una piccola frase presa dal «Journal du Dimanche». Racconta una testimone scampata al massacro del Bataclan: «Parlavano francese come me e tè e ci hanno detto: questo è quello che voi fate in Siria e in Iraq…». Ecco, Madame Roudinesco: parlavano un francese impeccabile. I killer di venerdì sono figli di immigrati nati qui, come Ismail, il primo ad essere identificato: è dunque una guerra interna?
«Dall’ll settembre non ragiono in termini di nemici interni o esterni ma di nuova forma di guerra in un mondo globale. L’Islam fanatico offre una facile identità a ragazzi fragili, prima o seconda generazione di immigrati o francesi convertiti, poco importa. Sono i sintomi di un male che rischia di far riemergere tutti i peggiori demoni francesi».
Con Elisabeth Roudinesco, psicanalista e storica della psicanalisi, tentiamo di scavare nel sottosuolo delle viscere emotive del Paese. Madame è appena rientrata dall’Italia dove ha presentato il «Freud nel suo tempo e nel nostro» edito da Einaudi e immersa tra i libri del suo studio non nasconde l’angoscia.
«Siamo di fronte a una regressione radicale verso fenomeni religiosi ostili ai diritti dell’uomo. Le ragazze che spontaneamente mettono il burqa come una forma di rivendicazione secondo me esprimono un rifiuto fanatico dell’Illuminismo. Che si richiamino ad Al Qaeda o all’Isis poco importa e bisogna essere radicali nella lotta contro questa politica: non una guerra razzista agli arabi, ma all’integralismo religioso».
Perché colpiscono la Francia?
«Perché è una repubblica fondata sull’universalismo laico, sulla tolleranza e sul diritto di ciascuno di avere nel privato la sua religione. Anche Robespierre non ha spinto fino al fondo la lotta al clericalismo. Diceva: meglio Dio di una setta. E io sono d’accordo. Questa natura laica ci rende più fragili. Siamo il Paese dell’affare Dreyfuss: possiamo diventare i più antisemiti del mondo o essere al tempo stesso i più generosi, il Paese dei Lumi e insieme del peggio espresso nella collaborazione al nazismo».
Vuoi dire che la Francia può facilmente scivolare nell’estremismo?
«Direi nel fascismo. Il crollo del comunismo ha fatto perdere alle masse l’illusione di un mondo migliore e ora il rischio concreto è che la classe operaia e il voto popolare si sposti tutto a destra come sta succedendo con Marine Le Pen che ha surrogato i valori di sinistra sostituendoli con dei falsi. II rischio è che la Francia scivoli nel fascismo e il voto popolare si sposti tutto a destra Marine Le Pen ha surrogato i valori di sinistra con dei falsi. È questa la nuova peste politica che non a caso si nutre e prende forza da ogni attacco dell’Islam radicale. Si fan forza l’uno con l’altro».
Ma cosa è successo in Francia per provocare un tale desiderio di estrema destra?
«C’è stata una relativizzazione dei valori repubblicani, la rivoluzione è stata ridicolizzata, la resistenza anche, giornalisti e polemisti come Eric Zemmour o Michel Onfray hanno preso il posto degli intellettuali. C’è un’enorme responsabilità nella televisione che per puro bisogno di auditel ha costruito mostri trasformando in fenomeni mediatici personaggi che flirtano con l’estrema destra anche se vengono dall’estrema sinistra. Viviamo in un clima detestabile: si è arrivati persino a riabilitare Pétain».
Madame Roudinesco, lei ci sta dicendo che il massacro di venerdì è precipitato dentro un Paese in crisi nei suoi fondamenti. Come si esprime questa crisi?
«Con il terrore di perdere la famiglia, il padre, la nazione, tutto. Anche la caduta delle frontiere ha contribuito a far smarrire la bussola. Domina un senso di vuoto. Le manifestazioni di massa contro il matrimonio omosessuale hanno saldato tutto questo con l’estrema destra. La sinistra riformista è schiacciata tra due fuochi. E Hollande, che pure è eccellente, non sa essere il buon zio com’erano Mitterrand e a suo modo anche Chirac: uno da uomo di destra faceva una politica di sinistra, l’altro riusciva ad essere un uomo di sinistra pur affermando valori di destra. La presidenza della République, già ridicolizzata da Sarkozy, con Hollande ha perso capacità di rappresentanza».
Segue qui:
http://www.lastampa.it/2015/11/16/esteri/hanno-colpito-la-laicit-adesso-la-paura-ci-spinge-allestremismo-LHKGPWaEaHF29uQ8SnwiEP/pagina.html;jsessionid=6BF6CB15736FB7B443D166C6881A37D9
ATTENTATI PARIGI: I CONFLITTI PSICOLOGICI DELLE DIVERSE GENERAZIONI DI IMMIGRATI
di Luciano Casolari, ilfattoquotidiano.it, 16 novembre 2015
Quando ero un giovane ricercatore assieme ad altri colleghi di diversi paesi Europei avevamo fatto una riflessione sulla frequenza del disagio psicologico nelle diverse generazioni di immigrati suffragata da studi epidemiologici. Emergeva che la prima generazione di immigrati, quella cioè che si era trasferita dal paese di origine, e la quarta, i figli dei nipoti dei primi migranti, erano le più stabili emotivamente.
La prima era totalmente legata alle sue tradizioni, portava con se la propria religione, gli usi e i costumi e la mentalità del paese di origine. La quarta generazione era ormai completamente europea e si sentiva integrata nelle nuove tradizioni e cultura. Il disagio colpiva maggiormente la seconda e, soprattutto, la terza generazione che si trovavano, per così dire, in mezzo al guado. Costoro vivevano una sorta di conflitto interiore in quanto si sentivano di dover attuare una scelta fra la nuova e la vecchia cultura. Avevano la sensazione di tradire le loro origini se abbracciavano nuovi modelli di pensiero e, allo stesso tempo, non vivevano come proprie le tradizioni originarie. L’uso della lingua simboleggiava più di ogni altro parametro questo conflitto.
La prima generazione era totalmente madrelingua del paese di origine e solo conoscente della nuova lingua europea. La quarta generazione possedeva totalmente la madrelingua europea anche se capiva la lingua dei bisnonni. La seconda e terza generazione erano fondamentalmente bilingui ma spesso con rilevanti difficoltà in entrambe, soprattutto quando si trattava di esprimere concetti filosofici complessi. Seguendo il pensiero di Lacan, psicoanalista francese che afferma che l’inconscio si struttura attraverso il linguaggio che il bimbo introietta dalla figura materna, si può pensare che la seconda e la terza generazioni vivano un conflitto inconscio. I modelli di convivenza che venivano all’epoca prospettati erano fondamentalmente di due tipi: quello socializzante inclusivo rappresentato dalla scelta francese di far frequentare a tutti le scuole pubbliche mescolando il più possibile i figli dei francesi coi figli degli immigrati e quello liberista rappresentato dalla scelta inglese di permettere ad ogni gruppo etnico di costruire proprie scuole e ad ogni famiglia di fare una scelta.
Segue qui:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/16/attentati-parigi-i-conflitti-psicologici-delle-diverse-generazioni-di-immigrati/2222425/
Quando ero un giovane ricercatore assieme ad altri colleghi di diversi paesi Europei avevamo fatto una riflessione sulla frequenza del disagio psicologico nelle diverse generazioni di immigrati suffragata da studi epidemiologici. Emergeva che la prima generazione di immigrati, quella cioè che si era trasferita dal paese di origine, e la quarta, i figli dei nipoti dei primi migranti, erano le più stabili emotivamente.
La prima era totalmente legata alle sue tradizioni, portava con se la propria religione, gli usi e i costumi e la mentalità del paese di origine. La quarta generazione era ormai completamente europea e si sentiva integrata nelle nuove tradizioni e cultura. Il disagio colpiva maggiormente la seconda e, soprattutto, la terza generazione che si trovavano, per così dire, in mezzo al guado. Costoro vivevano una sorta di conflitto interiore in quanto si sentivano di dover attuare una scelta fra la nuova e la vecchia cultura. Avevano la sensazione di tradire le loro origini se abbracciavano nuovi modelli di pensiero e, allo stesso tempo, non vivevano come proprie le tradizioni originarie. L’uso della lingua simboleggiava più di ogni altro parametro questo conflitto.
La prima generazione era totalmente madrelingua del paese di origine e solo conoscente della nuova lingua europea. La quarta generazione possedeva totalmente la madrelingua europea anche se capiva la lingua dei bisnonni. La seconda e terza generazione erano fondamentalmente bilingui ma spesso con rilevanti difficoltà in entrambe, soprattutto quando si trattava di esprimere concetti filosofici complessi. Seguendo il pensiero di Lacan, psicoanalista francese che afferma che l’inconscio si struttura attraverso il linguaggio che il bimbo introietta dalla figura materna, si può pensare che la seconda e la terza generazioni vivano un conflitto inconscio. I modelli di convivenza che venivano all’epoca prospettati erano fondamentalmente di due tipi: quello socializzante inclusivo rappresentato dalla scelta francese di far frequentare a tutti le scuole pubbliche mescolando il più possibile i figli dei francesi coi figli degli immigrati e quello liberista rappresentato dalla scelta inglese di permettere ad ogni gruppo etnico di costruire proprie scuole e ad ogni famiglia di fare una scelta.
Segue qui:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2015/11/16/attentati-parigi-i-conflitti-psicologici-delle-diverse-generazioni-di-immigrati/2222425/
COME SPIEGARE AI BAMBINI COSA È SUCCESSO A PARIGI
di Redazione, internazionale.it, 16 novembre 2015
Davanti a episodi violenti come gli attentati a Parigi si può provare l’istinto di proteggere i bambini dalle notizie che potrebbero turbarli, ma secondo gli esperti può essere un errore ritardare il momento in cui scoprono che è successo qualcosa di terribile. L’approccio da seguire, per genitori e insegnanti, dipende dall’età dei bambini. La prima regola, valida in ogni caso, è trovare il tempo per rispondere alle domande con calma e chiarezza: spesso succede che vengano a sapere cosa è successo da qualcuno fuori dall’ambiente familiare e i genitori devono riuscire a chiarire i dubbi e ad allontanare ansie e paure. Ecco alcuni consigli, pubblicati da Time, per affrontare il discorso con bambini di diverse età.
Bambini in età prescolare. Prima dei sei anni si può evitare di esporre i bambini a queste notizie. I bambini che hanno meno di cinque anni possono confondere i fatti con le paure e per questo è meglio aggiungere dettagli solo per rispondere a domande dirette.
Bambini tra i sei e i dieci anni. Secondo Harold Koplewicz, presidente del Child mind institute, “a questa età conoscere i fatti può aiutare ad alleviare l’ansia”. Ma è meglio evitare l’eccesso di dettagli, come il numero dei morti, e l’uso di parole che possono spaventare. Secondo la psicoanalista francese Claude Halmos è inutile parlare del gruppo Stato islamico, della religione e delle operazioni militari in Siria. I bambini devono essere rassicurati: se gli adulti sembrano tristi non è perché c’è una minaccia diretta alla famiglia, ma solo per le vittime. È importante far capire ai bambini che sono al sicuro: questi attacchi sono molto rari, “i cattivi” sono stati catturati e i feriti guariranno.
Bambini tra i dieci e i quattordici anni. I bambini più grandi potrebbero voler conoscere maggiori dettagli, ma gli esperti consigliano di non dargliene troppi. A questa età è importante chiedergli cosa hanno saputo e come si sentono, devono sapere che si può essere tristi anche se non si sente il bisogno di piangere. I bambini potrebbero mostrarsi indifferenti o voler passare del tempo da soli, ma può essere utile incoraggiarli a esprimere le loro paure ed eventualmente parlare di come comportarsi in caso di emergenza.
Adolescenti, tra i 14 e i 18 anni. I ragazzi che frequentano le scuole superiori probabilmente ricevono informazioni sui più importanti eventi di attualità attraverso i social network e per questo è molto importante aiutarli a distinguere i fatti dalle bufale e dalle congetture. Gli adolescenti potrebbero rifiutare questo tipo di conversazione: per questo è consigliabile affrontare l’argomento mentre si fa qualcos’altro insieme a loro, secondo Koplewicz. Non crederanno di essere al sicuro dagli attacchi terroristici con una semplice rassicurazione, bisogna invitarli a considerare le probabilità e decidere insieme cosa fare in caso di emergenza, cosa dovrebbero fare nel caso in cui non fossero in grado di tornare a casa o contattare i genitori. Infine, è importante parlare con gli adolescenti dell’uso della violenza, dei suoi effetti e delle alternative.
Segue qui:
http://www.internazionale.it/notizie/2015/11/16/attentati-parigi-spiegare-bambini
Davanti a episodi violenti come gli attentati a Parigi si può provare l’istinto di proteggere i bambini dalle notizie che potrebbero turbarli, ma secondo gli esperti può essere un errore ritardare il momento in cui scoprono che è successo qualcosa di terribile. L’approccio da seguire, per genitori e insegnanti, dipende dall’età dei bambini. La prima regola, valida in ogni caso, è trovare il tempo per rispondere alle domande con calma e chiarezza: spesso succede che vengano a sapere cosa è successo da qualcuno fuori dall’ambiente familiare e i genitori devono riuscire a chiarire i dubbi e ad allontanare ansie e paure. Ecco alcuni consigli, pubblicati da Time, per affrontare il discorso con bambini di diverse età.
Bambini in età prescolare. Prima dei sei anni si può evitare di esporre i bambini a queste notizie. I bambini che hanno meno di cinque anni possono confondere i fatti con le paure e per questo è meglio aggiungere dettagli solo per rispondere a domande dirette.
Bambini tra i sei e i dieci anni. Secondo Harold Koplewicz, presidente del Child mind institute, “a questa età conoscere i fatti può aiutare ad alleviare l’ansia”. Ma è meglio evitare l’eccesso di dettagli, come il numero dei morti, e l’uso di parole che possono spaventare. Secondo la psicoanalista francese Claude Halmos è inutile parlare del gruppo Stato islamico, della religione e delle operazioni militari in Siria. I bambini devono essere rassicurati: se gli adulti sembrano tristi non è perché c’è una minaccia diretta alla famiglia, ma solo per le vittime. È importante far capire ai bambini che sono al sicuro: questi attacchi sono molto rari, “i cattivi” sono stati catturati e i feriti guariranno.
Bambini tra i dieci e i quattordici anni. I bambini più grandi potrebbero voler conoscere maggiori dettagli, ma gli esperti consigliano di non dargliene troppi. A questa età è importante chiedergli cosa hanno saputo e come si sentono, devono sapere che si può essere tristi anche se non si sente il bisogno di piangere. I bambini potrebbero mostrarsi indifferenti o voler passare del tempo da soli, ma può essere utile incoraggiarli a esprimere le loro paure ed eventualmente parlare di come comportarsi in caso di emergenza.
Adolescenti, tra i 14 e i 18 anni. I ragazzi che frequentano le scuole superiori probabilmente ricevono informazioni sui più importanti eventi di attualità attraverso i social network e per questo è molto importante aiutarli a distinguere i fatti dalle bufale e dalle congetture. Gli adolescenti potrebbero rifiutare questo tipo di conversazione: per questo è consigliabile affrontare l’argomento mentre si fa qualcos’altro insieme a loro, secondo Koplewicz. Non crederanno di essere al sicuro dagli attacchi terroristici con una semplice rassicurazione, bisogna invitarli a considerare le probabilità e decidere insieme cosa fare in caso di emergenza, cosa dovrebbero fare nel caso in cui non fossero in grado di tornare a casa o contattare i genitori. Infine, è importante parlare con gli adolescenti dell’uso della violenza, dei suoi effetti e delle alternative.
Segue qui:
http://www.internazionale.it/notizie/2015/11/16/attentati-parigi-spiegare-bambini
FRIVOLI E SANGUE: TIRO A SEGNO A PARIGI
di Giacomo B. Contri, giacomocontri.it, 17 novembre 2015
Non c’è nulla che rifiutiamo di più che chiamare le cose con il loro nome, così come le vediamo, cronaca, senza “chiacchiere da psicoanalista”: a Parigi hanno fatto il tiro a segno a delle sagome, con la frivolezza del poligono di tiro: e includendo sé stessi tra le sagome quando si fanno saltare in aria.
Non è nemmeno guerra, in cui le sagome sono altrui ma non proprie. Questo articolo potrebbe intitolarsi “Eccitare la frivolezza”, la fatuità (dolorosa e sanguinaria poco importa): “sagoma” significa che non c’è corpo.
Com’è o come non è, è così. Ancora una volta, reale è il corpo, non un “valore”: questi islamici in fondo sono dei missionari, a evangelizzarci all’idea che non siamo che sagome.
Magari un giorno nel dialogo ecumenico converranno – come nella Convenzione di Ginevra – che la sagoma è un “valore”, come tale da rispettare: al che il solito cristianuccio farà eco dicendo che proprio così, che “persona” = sagoma + valore: bravo!
Compito: individuare la condizione della frivolezza.
Non c’è nulla che rifiutiamo di più che chiamare le cose con il loro nome, così come le vediamo, cronaca, senza “chiacchiere da psicoanalista”: a Parigi hanno fatto il tiro a segno a delle sagome, con la frivolezza del poligono di tiro: e includendo sé stessi tra le sagome quando si fanno saltare in aria.
Non è nemmeno guerra, in cui le sagome sono altrui ma non proprie. Questo articolo potrebbe intitolarsi “Eccitare la frivolezza”, la fatuità (dolorosa e sanguinaria poco importa): “sagoma” significa che non c’è corpo.
Com’è o come non è, è così. Ancora una volta, reale è il corpo, non un “valore”: questi islamici in fondo sono dei missionari, a evangelizzarci all’idea che non siamo che sagome.
Magari un giorno nel dialogo ecumenico converranno – come nella Convenzione di Ginevra – che la sagoma è un “valore”, come tale da rispettare: al che il solito cristianuccio farà eco dicendo che proprio così, che “persona” = sagoma + valore: bravo!
Compito: individuare la condizione della frivolezza.
http://www.giacomocontri.it/BLOG/2015/2015-11/2015-11-17-BLOG_frivoli_sagome_parigi.htm
JULIA KRISTEVA: «I GIOVANI JIHADISTI? SONO DEI MALATI, INTOSSICATI DALL’INTEGRALISMO». «Non si tratta sempre di giovani nati e cresciuti in un milieu musulmano» spiega la famosa psicanalista, «Tra loro anche cattolici laici, persino ebrei, in cerca di ideali che noi non offriamo più e intossicati da armi e droghe»
di Farian Sabahi, iodonna.it, 17 novembre 2015
«Il banditismo integralista e islamista ha scelto il suo obiettivo: le Lumières francesi. Questi barbari hanno ragione: siamo il bastione delle libertà, e ne usciranno sconfitti. Oggi, cantando la Marsigliese, i cittadini si riscoprono fieri di essere francesi, siamo uniti e portatori di un messaggio universale. La Francia prostrata è una Francia sicura di vincere». Inizia così la conversazione con la psicanalista e intellettuale Julia Kristeva. Classe 1941, nata in Bulgaria e naturalizzata francese, è una delle figure più eminenti del panorama culturale europeo Siamo a Parigi, a ridosso dei Jardins de Luxembourg, nell’appartamento di Julia Kristeva e del marito Philippe Sollers, saggista e filosofo. È lei ad aprire la porta dell’appartamento al terzo piano. Ci osserva incuriosita, si aspettava un giornalista, non una mamma con dodicenne al seguito… Sembra presa in contropiede ma, quando spiego che siamo a Parigi anche per qualche giorno di vacanza, indica una poltrona e mio figlio si immerge nella lettura. Mi accompagna al divano e, su un vassoio d’argento, mi offre un bicchiere di Perrier in un bicchiere di cristallo. Percepisco un’intelligenza rara e un carattere rigoroso, per certi versi spigoloso. Per un attimo mi sento intimidita dal personaggio, dall’ambiente. Le domande sul taccuino, già in ordine, mi ridanno sicurezza. Accendo il registratore.
Partiamo dagli attentati di Parigi, messi in atto da giovani nati e cresciuti in Francia. Nel suo lavoro di psicanalista, quale disagio percepisce tra i ragazzi delle banlieues?
Lavoro da decenni con i ragazzi che entrano nel vortice della radicalizzazione e partono per la Siria in cerca di ideali che noi, in Europa, evidentemente non siamo in grado di offrire. Una decina di anni fa avevo tenuto un seminario all’Università Paris-VII, che ora abbiamo organizzato all’ospedale Cochin dove c’è una sezione dedicata agli adolescenti diretta da una mia amica, la professoressa Marie Rose Moro. Lì riceviamo gli adolescenti su indicazione dei loro genitori oppure degli insegnanti che hanno avuto modo di constatare come questi giovani abbiano intrapreso la via della radicalizzazione. Sono animati da un ideale, talvolta religioso, e cadono nell’intossicazione del banditismo integralista. Lo chiamo così perché si diffonde attraverso l’uso di droghe e di armi. In queste casi psicologi e psichiatri non sanno da che parte prenderli. E quindi tengo dei corsi, partecipo a dibattiti per offrire a queste figure professionali una formazione che dia loro gli strumenti per meglio affrontare le problematiche sollevate da questi giovani.
Si tratta sempre di una radicalizzazione religiosa, e in particolare nell’Islam?
Sì, da quello che abbiamo potuto rilevare, nel mio gruppo di lavoro, si tratta sempre di una radicalizzazione che fa riferimento alla religione musulmana. Ma attenzione: non si tratta sempre di giovani nati e cresciuti in un milieu musulmano, si può anche trattare di cattolici, di laici o persino di ebrei che vanno in direzione di una radicalizzazione islamica. La definisco una “malattia di ideali” nel senso che si tratta di giovani che, come tutti gli adolescenti, hanno bisogno di ideali. La loro radicalizzazione rappresenta un fallimento dell’umanesimo.
Dobbiamo avere paura della religione, in questo caso di quella musulmana?
No, non dobbiamo avere paura. Occorre trasmettere a questi giovani la memoria religiosa – ebrea, cristiana e musulmana – perché altrimenti sono gli imam a riempire loro la testa con le interpretazioni più estremiste della fede. In altri termini i giovani devono studiare le religioni, interpretarle, farle proprie. Come strumento di apprendimento dobbiamo usare le scienze umane, l’antropologia, l’etnologia, la psichiatria, la psicanalisi. Materie, queste, che permettono di separare quello che della religione rappresenta una minaccia e quello che invece può essere di beneficio per i giovani e i meno giovani. Occorre intraprendere questo lavoro di analisi e di rivalutazione delle religioni che un tempo era la vocazione dell’umanesimo ma di questi tempi è stato trascurato.
Segue qui:
http://www.iodonna.it/attualita/in-primo-piano/2015/11/17/julia-kristeva-i-giovani-jihadisti-sono-dei-malati-intossicati-dallintegralismo/?refresh_ce-cp
«Il banditismo integralista e islamista ha scelto il suo obiettivo: le Lumières francesi. Questi barbari hanno ragione: siamo il bastione delle libertà, e ne usciranno sconfitti. Oggi, cantando la Marsigliese, i cittadini si riscoprono fieri di essere francesi, siamo uniti e portatori di un messaggio universale. La Francia prostrata è una Francia sicura di vincere». Inizia così la conversazione con la psicanalista e intellettuale Julia Kristeva. Classe 1941, nata in Bulgaria e naturalizzata francese, è una delle figure più eminenti del panorama culturale europeo Siamo a Parigi, a ridosso dei Jardins de Luxembourg, nell’appartamento di Julia Kristeva e del marito Philippe Sollers, saggista e filosofo. È lei ad aprire la porta dell’appartamento al terzo piano. Ci osserva incuriosita, si aspettava un giornalista, non una mamma con dodicenne al seguito… Sembra presa in contropiede ma, quando spiego che siamo a Parigi anche per qualche giorno di vacanza, indica una poltrona e mio figlio si immerge nella lettura. Mi accompagna al divano e, su un vassoio d’argento, mi offre un bicchiere di Perrier in un bicchiere di cristallo. Percepisco un’intelligenza rara e un carattere rigoroso, per certi versi spigoloso. Per un attimo mi sento intimidita dal personaggio, dall’ambiente. Le domande sul taccuino, già in ordine, mi ridanno sicurezza. Accendo il registratore.
Partiamo dagli attentati di Parigi, messi in atto da giovani nati e cresciuti in Francia. Nel suo lavoro di psicanalista, quale disagio percepisce tra i ragazzi delle banlieues?
Lavoro da decenni con i ragazzi che entrano nel vortice della radicalizzazione e partono per la Siria in cerca di ideali che noi, in Europa, evidentemente non siamo in grado di offrire. Una decina di anni fa avevo tenuto un seminario all’Università Paris-VII, che ora abbiamo organizzato all’ospedale Cochin dove c’è una sezione dedicata agli adolescenti diretta da una mia amica, la professoressa Marie Rose Moro. Lì riceviamo gli adolescenti su indicazione dei loro genitori oppure degli insegnanti che hanno avuto modo di constatare come questi giovani abbiano intrapreso la via della radicalizzazione. Sono animati da un ideale, talvolta religioso, e cadono nell’intossicazione del banditismo integralista. Lo chiamo così perché si diffonde attraverso l’uso di droghe e di armi. In queste casi psicologi e psichiatri non sanno da che parte prenderli. E quindi tengo dei corsi, partecipo a dibattiti per offrire a queste figure professionali una formazione che dia loro gli strumenti per meglio affrontare le problematiche sollevate da questi giovani.
Si tratta sempre di una radicalizzazione religiosa, e in particolare nell’Islam?
Sì, da quello che abbiamo potuto rilevare, nel mio gruppo di lavoro, si tratta sempre di una radicalizzazione che fa riferimento alla religione musulmana. Ma attenzione: non si tratta sempre di giovani nati e cresciuti in un milieu musulmano, si può anche trattare di cattolici, di laici o persino di ebrei che vanno in direzione di una radicalizzazione islamica. La definisco una “malattia di ideali” nel senso che si tratta di giovani che, come tutti gli adolescenti, hanno bisogno di ideali. La loro radicalizzazione rappresenta un fallimento dell’umanesimo.
Dobbiamo avere paura della religione, in questo caso di quella musulmana?
No, non dobbiamo avere paura. Occorre trasmettere a questi giovani la memoria religiosa – ebrea, cristiana e musulmana – perché altrimenti sono gli imam a riempire loro la testa con le interpretazioni più estremiste della fede. In altri termini i giovani devono studiare le religioni, interpretarle, farle proprie. Come strumento di apprendimento dobbiamo usare le scienze umane, l’antropologia, l’etnologia, la psichiatria, la psicanalisi. Materie, queste, che permettono di separare quello che della religione rappresenta una minaccia e quello che invece può essere di beneficio per i giovani e i meno giovani. Occorre intraprendere questo lavoro di analisi e di rivalutazione delle religioni che un tempo era la vocazione dell’umanesimo ma di questi tempi è stato trascurato.
Segue qui:
http://www.iodonna.it/attualita/in-primo-piano/2015/11/17/julia-kristeva-i-giovani-jihadisti-sono-dei-malati-intossicati-dallintegralismo/?refresh_ce-cp
JULIA KRISTEVA. «ORA È GIUSTO COMBATTERE NO AI RIFLESSI DELLA MIA SINISTRA»
I giovani a rischio «All’ospedale Cochin vedo i ragazzi tentati dall’integralismo, vanno presi in tempo». Intervista di Stefano Montefiori, Il Corriere della Sera, 18 novembre 2015
«Bisogno di credere – Un punto di vista laico» è un’opera importante pubblicata quasi 10 anni fa (in Italia da Donzelli) da Julia Kristeva, grande personalità — «scrittrice, donna, madre di famiglia e analista, non mi chiami intellettuale» — della cultura europea. Oggi che il «bisogno di credere» insopprimibile in tanti giovani prende la strada del delirio jihadista, il lavoro di Julia Kristeva resta in primo piano. La scrittrice nata in Bulgaria e francese da mezzo secolo lavora alla «casa degli adolescenti» dell’ospedale Cochin di Parigi per aiutare con i mezzi della cultura e della psicanalisi i ragazzi tentati dall’islamismo.
Intanto, signora Kristeva, come descriverebbe la reazione della società francese in queste ore?
«Posso parlare di quello che vedo, che sento dai miei pazienti, e dei miei sentimenti. Per la prima volta da quando sono in questo Paese, e sono passati oltre cinquant’anni, le persone credono nell’unità nazionale. Non quella dei politici ma quella del popolo».
I politici sono divisi?
«Mi sembra che stia accadendo il contrario rispetto ai giorni di Charlie Hebdo. Allora la classe politica era compatta ma i cittadini in difficoltà, alcuni musulmani esitavano per la questione delle caricature del profeta. Oggi i politici continuano a litigare, ma la gente mi sembra più compatta, anche i musulmani si sentono attaccati nel loro essere francesi e reagiscono. Per la prima volta ho sentito dignitari musulmani condannare certi imam che magari non predicano la jihad, ma comunque criticano il modo di vita occidentale, la gioia di amare, cantare, bere. Trovo che sia un buon segno».
Che cosa pensa dell’affermazione di Hollande e del governo? La Francia è davvero in guerra?
«Sì, la guerra è arrivata in Francia, ed è giusto combatterla. Non voglio restare nei riflessi consueti della mia famiglia politica, la sinistra. La guerra non è una cosa da americani, bisogna farla quando è necessario, prendersi la responsabilità della più grande fermezza e anche andare oltre, chiedere conto a Stati come l’Arabia Saudita o il Qatar della ricchezza sospetta dell’Isis. E domandare di più all’Europa, la cui impotenza è scandalosa».
La società francese è pronta?
«Le persone si rendono conto della situazione e sono fiere di essere francesi. Le racconterò questa piccola storia. Io ho imparato la Marsigliese in Bulgaria, e piangevo quando la cantavo perché pensavo che non mi avrebbero mai lasciato andare a conoscere questo popolo. Poi sono venuta in Francia e in cinquant’anni non ho mai pianto cantando la Marsigliese. Adesso, anche davanti alla tv, canto e piango, e come me fanno in tanti. È una svolta nell’opinione pubblica. I politici continueranno pure a litigare, ma la popolazione è sconvolta e unita intorno ai simboli della Repubblica. Ognuno si darà da fare come può».
«Bisogno di credere – Un punto di vista laico» è un’opera importante pubblicata quasi 10 anni fa (in Italia da Donzelli) da Julia Kristeva, grande personalità — «scrittrice, donna, madre di famiglia e analista, non mi chiami intellettuale» — della cultura europea. Oggi che il «bisogno di credere» insopprimibile in tanti giovani prende la strada del delirio jihadista, il lavoro di Julia Kristeva resta in primo piano. La scrittrice nata in Bulgaria e francese da mezzo secolo lavora alla «casa degli adolescenti» dell’ospedale Cochin di Parigi per aiutare con i mezzi della cultura e della psicanalisi i ragazzi tentati dall’islamismo.
Intanto, signora Kristeva, come descriverebbe la reazione della società francese in queste ore?
«Posso parlare di quello che vedo, che sento dai miei pazienti, e dei miei sentimenti. Per la prima volta da quando sono in questo Paese, e sono passati oltre cinquant’anni, le persone credono nell’unità nazionale. Non quella dei politici ma quella del popolo».
I politici sono divisi?
«Mi sembra che stia accadendo il contrario rispetto ai giorni di Charlie Hebdo. Allora la classe politica era compatta ma i cittadini in difficoltà, alcuni musulmani esitavano per la questione delle caricature del profeta. Oggi i politici continuano a litigare, ma la gente mi sembra più compatta, anche i musulmani si sentono attaccati nel loro essere francesi e reagiscono. Per la prima volta ho sentito dignitari musulmani condannare certi imam che magari non predicano la jihad, ma comunque criticano il modo di vita occidentale, la gioia di amare, cantare, bere. Trovo che sia un buon segno».
Che cosa pensa dell’affermazione di Hollande e del governo? La Francia è davvero in guerra?
«Sì, la guerra è arrivata in Francia, ed è giusto combatterla. Non voglio restare nei riflessi consueti della mia famiglia politica, la sinistra. La guerra non è una cosa da americani, bisogna farla quando è necessario, prendersi la responsabilità della più grande fermezza e anche andare oltre, chiedere conto a Stati come l’Arabia Saudita o il Qatar della ricchezza sospetta dell’Isis. E domandare di più all’Europa, la cui impotenza è scandalosa».
La società francese è pronta?
«Le persone si rendono conto della situazione e sono fiere di essere francesi. Le racconterò questa piccola storia. Io ho imparato la Marsigliese in Bulgaria, e piangevo quando la cantavo perché pensavo che non mi avrebbero mai lasciato andare a conoscere questo popolo. Poi sono venuta in Francia e in cinquant’anni non ho mai pianto cantando la Marsigliese. Adesso, anche davanti alla tv, canto e piango, e come me fanno in tanti. È una svolta nell’opinione pubblica. I politici continueranno pure a litigare, ma la popolazione è sconvolta e unita intorno ai simboli della Repubblica. Ognuno si darà da fare come può».
SENSI DI COLPA. I troppi “non” del Papa e il nostro timore di fare torto Agli islamici, di non comprenderli
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 18 novembre 2015
Non si può non condannare l’inqualificabile affronto alla dignità della persona umana”, tuona Papa Francesco, ma più diritto alla meta avrebbe potuto buttar lì un: “Condanniamo…”, bello secco, senza tutti quei “non si può non” che fanno montagna russa; e anche il “può” indebolisce, e “l’inqualificabile affronto” è moscio, sembra una faccenda tra gentiluomini; la “dignità della persona umana” poi è astratta, qui si tratta piuttosto della pelle di centotrenta ragazzi. Papa Ratzinger andava subito al sodo: a Ratisbona, per bocca di Manuele II Paleologo disse le cose come stavano e poi si guardò attorno, smarrito: attorno a lui erano tutti imbarazzati e fin contriti, come se avesse detto una bestemmia. Dovette andare in una moschea a scusarsi di avere detto la verità.
Insiste con i “non” Papa Francesco: “Ciò che è avvenuto non è umano”, dice da buon teologo esperto di diavoli, tra i quali quelli dell’Isis, setta satanica pronta a morire per volare al patrio inferno dove bivaccano le Uri tutte scosciate. Sulla scia papalina Obama e molti altri, tutti a parlare di satanassi. E sarebbe già meglio, più confortante, se davvero gli assassini fossero epigoni di un’antica lotta celeste, noi umani salveremmo la faccia; purtroppo gli Isis sono umani, orrendamente umani e più che immaginari zombi ricordano ben più reali delinquenti, i più grandi odiatori della storia dell’umanità, i nazisti. Sulla loro scia gli Isis spandono il peggiore dei gas, quell’odio che mette ovunque zizzania e che cercano di attirare su di sé uccidendo e offrendosi alla vendetta, sicché anche le persone dabbene sfrenatamente odiandoli diventino mostri. Nobilmente risponde loro Antoine Leiris, marito di una donna uccisa al Bataclan: “Non avrete mai il mio odio”. Salvo alcune eccezioni, gli europei non riescono più a essere feroci come un tempo, quando tante volte in nome di Dio portavano il sopruso e la morte. Gli europei si sono molto educati negli ultimi settant’anni, hanno abolito il diritto di ammazzare gratis la moglie e altre amenità del genere. Sono gente tranquilla e ammodo, fino a prova contraria, tollerano l’altrui religione e si azzuffano solo per il pallone. E’ ora di dire chiaramente che il razzismo non è più un vizio diffuso tra gli occidentali quanto piuttosto tra gli orientali, che un tempo furono peraltro assai larghi di vedute, ancor più dei cristiani.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2015/11/18/sensi-di-colpa___1-vr-135089-rubriche_c206.htm
BOLOGNINI: “OVVIO AVER PAURA MA AMATE LA VITA”. “Qui sappiamo bene cos’è il terrorismo Ma non per questo ci siamo bloccati, anzi”
di Ilaria Venturi, bologna.repubblica.it, 19 novembre 2015
Sul lettino dello psicoanalista Stefano Bolognini, la paura dopo gli attentati di Parigi non è patologica. L’importante, mette in guardia lo specialista, “è avere il coraggio di provare un po’ di paura senza bloccare al tempo stesso le nostre vite”.
Da Parigi a Bologna, coi falsi allarmi e la telefonata prima della partita Italia-Romania: come legge questi fatti professore?
“Bologna è l’equivalente di un paziente post-traumatico: dopo la bomba alla stazione non è più una città come le altre, ha patito qualcosa di potente, che non dimentica. È una città che conosce il terrorismo e sa cosa è la paura. Ma Bologna è anche città importante per le sue connessioni, il suo aeroporto è cresciuto come luogo di grande circolazione. I bolognesi si vivono meno provinciali e più connessi al resto del mondo rispetto a un tempo”.
Segue qui:
http://bologna.repubblica.it/cronaca/2015/11/19/news/bolognini_ovvio_aver_paura_ma_amate_la_vita_-127740354/
Sul lettino dello psicoanalista Stefano Bolognini, la paura dopo gli attentati di Parigi non è patologica. L’importante, mette in guardia lo specialista, “è avere il coraggio di provare un po’ di paura senza bloccare al tempo stesso le nostre vite”.
Da Parigi a Bologna, coi falsi allarmi e la telefonata prima della partita Italia-Romania: come legge questi fatti professore?
“Bologna è l’equivalente di un paziente post-traumatico: dopo la bomba alla stazione non è più una città come le altre, ha patito qualcosa di potente, che non dimentica. È una città che conosce il terrorismo e sa cosa è la paura. Ma Bologna è anche città importante per le sue connessioni, il suo aeroporto è cresciuto come luogo di grande circolazione. I bolognesi si vivono meno provinciali e più connessi al resto del mondo rispetto a un tempo”.
Segue qui:
http://bologna.repubblica.it/cronaca/2015/11/19/news/bolognini_ovvio_aver_paura_ma_amate_la_vita_-127740354/
ŽIŽEK. MA I MIGRANTI SONO VITTIME DUE VOLTE
di Slavoj Žižek, la Repubblica, 19 novembre 2015
Certo, gli attentati terroristici di venerdì 13 a Parigi vanno condannati senza riserve, ma… bando alle scuse, vanno condannati davvero, quindi non basta il patetico spettacolo di solidarietà di tutti noi (persone libere, democratiche, civili) contro il Mostro musulmano assassino. Nella prima metà del 2015, a preoccupare l’Europa erano i movimenti radicali di emancipazione (Syriza, Podemos) mentre nella seconda l’attenzione si è spostata sulla questione “umanitaria” dei profughi — la lotta di classe è stata letteralmente repressa e rimpiazzata dalla tolleranza e dalla solidarietà tipiche del liberalismo culturale. Ora, dopo le stragi del 13 novembre, questi concetti sono stati eclissati dalla semplice opposizione di tutte le forze democratiche, impegnate in una guerra spietata contro le forze del terrore — ed è facile immaginarne gli esiti: ricerca paranoica di agenti Is tra i rifugiati. I più colpiti dagli attentati di Parigi saranno i rifugiati stessi e i veri vincitori, al di là degli slogan stile je suis Paris, saranno proprio i sostenitori della guerra totale da entrambe le parti. Ecco come condannare davvero le stragi di Parigi: non limitiamoci alle patetiche dimostrazioni di solidarietà, ma continuiamo a chiederci a chi giova. I terroristi dell’Is non vanno “capiti”, vanno considerati per quello che sono, islamofascisti, in antitesi ai razzisti europei anti-immigrati, due facce della stessa medaglia.
Ma esiste un ulteriore aspetto che dovrebbe farci riflettere — la forma stessa degli attentati: un estemporaneo, brutale, sconvolgimento della normale quotidianità. Questa forma di terrorismo, una turbativa momentanea, è caratteristica soprattutto degli attentati nei paesi occidentali sviluppati, in contrasto con paesi del Terzo Mondo in cui la violenza è realtà permanente. Pensiamo alla quotidianità in Congo, Afghanistan, Siria, Iraq, Libano… quando mai si manifesta solidarietà internazionale di fronte a qualche centinaio di morti in questi paesi? Dovremmo ricordarci ora che noi viviamo in una “sfera” in cui la violenza terrorista esplode di quando in quando, mentre altrove (con la complicità occidentale) la quotidianità è terrore e brutalità.
Segue qui:
http://cartadiroma.waypress.eu//RassegnaStampa/LeggiArticolo.aspx?codice=SIF4039.TIF&subcod=20151119&numPag=3&
Certo, gli attentati terroristici di venerdì 13 a Parigi vanno condannati senza riserve, ma… bando alle scuse, vanno condannati davvero, quindi non basta il patetico spettacolo di solidarietà di tutti noi (persone libere, democratiche, civili) contro il Mostro musulmano assassino. Nella prima metà del 2015, a preoccupare l’Europa erano i movimenti radicali di emancipazione (Syriza, Podemos) mentre nella seconda l’attenzione si è spostata sulla questione “umanitaria” dei profughi — la lotta di classe è stata letteralmente repressa e rimpiazzata dalla tolleranza e dalla solidarietà tipiche del liberalismo culturale. Ora, dopo le stragi del 13 novembre, questi concetti sono stati eclissati dalla semplice opposizione di tutte le forze democratiche, impegnate in una guerra spietata contro le forze del terrore — ed è facile immaginarne gli esiti: ricerca paranoica di agenti Is tra i rifugiati. I più colpiti dagli attentati di Parigi saranno i rifugiati stessi e i veri vincitori, al di là degli slogan stile je suis Paris, saranno proprio i sostenitori della guerra totale da entrambe le parti. Ecco come condannare davvero le stragi di Parigi: non limitiamoci alle patetiche dimostrazioni di solidarietà, ma continuiamo a chiederci a chi giova. I terroristi dell’Is non vanno “capiti”, vanno considerati per quello che sono, islamofascisti, in antitesi ai razzisti europei anti-immigrati, due facce della stessa medaglia.
Ma esiste un ulteriore aspetto che dovrebbe farci riflettere — la forma stessa degli attentati: un estemporaneo, brutale, sconvolgimento della normale quotidianità. Questa forma di terrorismo, una turbativa momentanea, è caratteristica soprattutto degli attentati nei paesi occidentali sviluppati, in contrasto con paesi del Terzo Mondo in cui la violenza è realtà permanente. Pensiamo alla quotidianità in Congo, Afghanistan, Siria, Iraq, Libano… quando mai si manifesta solidarietà internazionale di fronte a qualche centinaio di morti in questi paesi? Dovremmo ricordarci ora che noi viviamo in una “sfera” in cui la violenza terrorista esplode di quando in quando, mentre altrove (con la complicità occidentale) la quotidianità è terrore e brutalità.
Segue qui:
http://cartadiroma.waypress.eu//RassegnaStampa/LeggiArticolo.aspx?codice=SIF4039.TIF&subcod=20151119&numPag=3&
UCCIDONO E SI UCCIDONO SENZA SAPERE
di Ferdinando Camon, avvenire.it, 19 novembre 2015
Abbiamo documenti, testimonianze, reperti, e contiamo che siano autentici, sulle ore e i minuti in cui i terroristi si preparavano alla strage. Dov’erano, dove dormivano, su quale auto arrivavano, come parcheggiavano, che faccia avevano (quindi che nervi, che mente), se e come parlavano tra loro. Abbiamo la descrizione delle stanze d’albergo, due, in cui avevano passato l’ultima notte, e dalle quali sono partiti in fretta e furia. Un sito ‘caldo’, come dice la polizia.
Abbiamo la testimonianza di alcuni cittadini che li han visti parcheggiare, maldestramente, le auto a 300 metri dal Bataclan. Sono convinto che la stanza dove uno dorme, il modo in cui lascia il bagno, il lavandino, il letto, le tracce del suo passaggio, della sua presenza e della sua vita, tutto questo ha a che fare con la missione che lui sta per compiere, specialmente se sta per uccidere e per uccidersi.
Uccidere e uccidersi, fare la strage e farsi esplodere, sono il vertice della sua parabola, ma le ore precedenti, gli atti precedenti, sono la premessa e la spiegazione. Dobbiamo tener presente che il perché uno uccide e perché si uccide resta in buona parte sconosciuto a lui stesso. Girava un video, poche settimane fa, di un kamikaze-bambino, che entrava in un blindato, salutato da tutti, abbracciato e baciato da tutti, ma lui piangeva, guidava il mezzo per un chilometro, poi lo faceva esplodere e si dissolveva nel fumo.
Segue qui:
http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/UNA-SPINTA-CHIMICA-NON-SPIRITUALE-.aspx
Abbiamo documenti, testimonianze, reperti, e contiamo che siano autentici, sulle ore e i minuti in cui i terroristi si preparavano alla strage. Dov’erano, dove dormivano, su quale auto arrivavano, come parcheggiavano, che faccia avevano (quindi che nervi, che mente), se e come parlavano tra loro. Abbiamo la descrizione delle stanze d’albergo, due, in cui avevano passato l’ultima notte, e dalle quali sono partiti in fretta e furia. Un sito ‘caldo’, come dice la polizia.
Abbiamo la testimonianza di alcuni cittadini che li han visti parcheggiare, maldestramente, le auto a 300 metri dal Bataclan. Sono convinto che la stanza dove uno dorme, il modo in cui lascia il bagno, il lavandino, il letto, le tracce del suo passaggio, della sua presenza e della sua vita, tutto questo ha a che fare con la missione che lui sta per compiere, specialmente se sta per uccidere e per uccidersi.
Uccidere e uccidersi, fare la strage e farsi esplodere, sono il vertice della sua parabola, ma le ore precedenti, gli atti precedenti, sono la premessa e la spiegazione. Dobbiamo tener presente che il perché uno uccide e perché si uccide resta in buona parte sconosciuto a lui stesso. Girava un video, poche settimane fa, di un kamikaze-bambino, che entrava in un blindato, salutato da tutti, abbracciato e baciato da tutti, ma lui piangeva, guidava il mezzo per un chilometro, poi lo faceva esplodere e si dissolveva nel fumo.
Segue qui:
http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/UNA-SPINTA-CHIMICA-NON-SPIRITUALE-.aspx
TERRORISTI, NECROFILI E SCIACALLI
di Sarantis Thanopulos, il manifesto.info, 20 novembre 2015
La strage a Parigi conferma la mutazione del terrorismo jihadista in movimento di rigetto radicale dell’altro, musulmano, cristiano o ateo che egli sia. Il terrorismo è figlio di un narcisismo negativo che non è amore per la morte in sé, ma l’identificazione della vita con la rigida definizione di un giusto modo di vivere, privo di contraddizioni. Contro la vita realmente vissuta, le sue turbolenze e le frustrazioni, delusioni di cui è foriera, si erige il monumento ideale di una vita futura impeccabilmente felice. Il male di oggi è nettamente diviso dal bene di domani e ogni azione malvagia compiuta in un presente meschino è giustificata dal fine di un futuro in cui la pace e l’armonia trionferanno. L’ideale ha il sopravvento netto sull’essere umano reale, anche nella scelta del simbolo da colpire, e la prima vittima è il terrorista stesso che si spersonalizza e si disumanizza, riflettendosi nello specchio di un’immagine esemplare di sé. Non esiste salvacondotto per gli “innocenti” e più l’ideale prevale, più le azioni omicide diventano stragi indiscriminate.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/5918
http://ilmanifesto.info/terroristi-necrofili-e-sciacalli
La strage a Parigi conferma la mutazione del terrorismo jihadista in movimento di rigetto radicale dell’altro, musulmano, cristiano o ateo che egli sia. Il terrorismo è figlio di un narcisismo negativo che non è amore per la morte in sé, ma l’identificazione della vita con la rigida definizione di un giusto modo di vivere, privo di contraddizioni. Contro la vita realmente vissuta, le sue turbolenze e le frustrazioni, delusioni di cui è foriera, si erige il monumento ideale di una vita futura impeccabilmente felice. Il male di oggi è nettamente diviso dal bene di domani e ogni azione malvagia compiuta in un presente meschino è giustificata dal fine di un futuro in cui la pace e l’armonia trionferanno. L’ideale ha il sopravvento netto sull’essere umano reale, anche nella scelta del simbolo da colpire, e la prima vittima è il terrorista stesso che si spersonalizza e si disumanizza, riflettendosi nello specchio di un’immagine esemplare di sé. Non esiste salvacondotto per gli “innocenti” e più l’ideale prevale, più le azioni omicide diventano stragi indiscriminate.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/5918
http://ilmanifesto.info/terroristi-necrofili-e-sciacalli
ANIME MORTE CHE INVIDIANO LA VITA E LA LIBERTÀ. Così i terroristi sognano un paradiso all’occidentale
di Massimo Recalcati, 23 novembre 2015
Impugnando insieme il mitra e il Corano, i terroristi dell’Is uccidono vite innocenti in nome della Legge di Dio: possono sparare freddamente, a bruciapelo, contro giovani sconosciuti senza provare la minima emozione, senza avere alcun dubbio sulla necessità della loro crudeltà. Se il loro braccio è armato direttamente da Dio, la loro forza scaturisce dal sentirsi espressioni della volontà di un Essere supremo che li libera da ogni senso di colpa e dalla paura umana della morte. Il loro Dio, infatti, li ricompenserà con una vita ultraterrena fatta di godimenti senza limiti: abbeverarsi di sostanze estasianti, possedere innumerevoli vergini, bearsi in un mondo dove tutto è permesso li solleverà da una vita terrena fatta di stenti e disperazione. Il loro martirio è richiesto da una Legge che non è quella degli uomini, ma quella di un Essere supremo che saprà riconoscere e premiare giustamente la loro fedeltà assoluta. La loro vera vita non è questa, ma è in un altro mondo. L’esistenza dell’Occidente impuro gli consente di identificarsi al giustiziere senza macchia che serve la Legge di un Dio folle. Tuttavia, il paradiso a cui anelano coincide paradossalmente con quella rappresentazione della vita dei giovani occidentali che odiano ma dalla quale, in realtà, si sentono esclusi. Il meccanismo che presiede la loro volontà omicida è drammaticamente elementare. Si chiama “proiezione”: essendosi identificati coi redentori dell’umanità, con gli unici e autentici cavalieri della fede, con la purezza intransigente del martire, proiettano i loro desideri più impuri nell’Occidente corrotto che s’incaricano di distruggere per emendare quella parte scabrosa di se stessi che non riescono a riconoscere come tale. In questo senso sono davvero anime morte che uccidono le esistenze di cui invidiano la vita e la libertà.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/5921
Impugnando insieme il mitra e il Corano, i terroristi dell’Is uccidono vite innocenti in nome della Legge di Dio: possono sparare freddamente, a bruciapelo, contro giovani sconosciuti senza provare la minima emozione, senza avere alcun dubbio sulla necessità della loro crudeltà. Se il loro braccio è armato direttamente da Dio, la loro forza scaturisce dal sentirsi espressioni della volontà di un Essere supremo che li libera da ogni senso di colpa e dalla paura umana della morte. Il loro Dio, infatti, li ricompenserà con una vita ultraterrena fatta di godimenti senza limiti: abbeverarsi di sostanze estasianti, possedere innumerevoli vergini, bearsi in un mondo dove tutto è permesso li solleverà da una vita terrena fatta di stenti e disperazione. Il loro martirio è richiesto da una Legge che non è quella degli uomini, ma quella di un Essere supremo che saprà riconoscere e premiare giustamente la loro fedeltà assoluta. La loro vera vita non è questa, ma è in un altro mondo. L’esistenza dell’Occidente impuro gli consente di identificarsi al giustiziere senza macchia che serve la Legge di un Dio folle. Tuttavia, il paradiso a cui anelano coincide paradossalmente con quella rappresentazione della vita dei giovani occidentali che odiano ma dalla quale, in realtà, si sentono esclusi. Il meccanismo che presiede la loro volontà omicida è drammaticamente elementare. Si chiama “proiezione”: essendosi identificati coi redentori dell’umanità, con gli unici e autentici cavalieri della fede, con la purezza intransigente del martire, proiettano i loro desideri più impuri nell’Occidente corrotto che s’incaricano di distruggere per emendare quella parte scabrosa di se stessi che non riescono a riconoscere come tale. In questo senso sono davvero anime morte che uccidono le esistenze di cui invidiano la vita e la libertà.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/5921
SETE DI SANGUE E MILIZIA
di Giacomo B. Contri, giacomocontri.it, 23 novembre 2015
Due note su eventi recenti (non si parla d’altro, ahinoi!).
1. Le due grandi guerre mondiali del primo Novecento hanno almeno momentaneamente soddisfatto la sete di sangue dell’Occidente: una sete di massa: preceduta dalle masse assetate della guerra di secessione americana del 1861-65, e della guerra franco-prussiana del 1871-75: difendere i “valori” occidentali non mi sembra la strada migliore a fronte del sangue versato in nome della jihad. Una sete non sopita, e per questo non si vuole sentir parlare della “formazione reattiva” di Freud, di cui sono pieni gli emoticon.
2. Rinvio ogni considerazione sulla sete di sangue dell’Islam per un’osservazione giornalistica: questi gruppuscoli terroristi – anche suicidi come dire che non c’è misericordia per nessuno – non sono anzitutto fanatici: sono militanti, cioè aventi la milizia come causa, e con un militantismo tutto novecentesco. Vero che l’idea di milizia è di vecchia data.
Conosco altre cause, almeno due (nulla di misterioso), una delle quali io pratico.
http://www.giacomocontri.it/BLOG/2015/2015-11/2015-11-23-BLOG_sete_sangue_milizia.htm
Due note su eventi recenti (non si parla d’altro, ahinoi!).
1. Le due grandi guerre mondiali del primo Novecento hanno almeno momentaneamente soddisfatto la sete di sangue dell’Occidente: una sete di massa: preceduta dalle masse assetate della guerra di secessione americana del 1861-65, e della guerra franco-prussiana del 1871-75: difendere i “valori” occidentali non mi sembra la strada migliore a fronte del sangue versato in nome della jihad. Una sete non sopita, e per questo non si vuole sentir parlare della “formazione reattiva” di Freud, di cui sono pieni gli emoticon.
2. Rinvio ogni considerazione sulla sete di sangue dell’Islam per un’osservazione giornalistica: questi gruppuscoli terroristi – anche suicidi come dire che non c’è misericordia per nessuno – non sono anzitutto fanatici: sono militanti, cioè aventi la milizia come causa, e con un militantismo tutto novecentesco. Vero che l’idea di milizia è di vecchia data.
Conosco altre cause, almeno due (nulla di misterioso), una delle quali io pratico.
http://www.giacomocontri.it/BLOG/2015/2015-11/2015-11-23-BLOG_sete_sangue_milizia.htm
COME CONVIVERE CON LA PAURA. Il presidente della Società di psicoanalisi italiana: «Dobbiamo vivere normalmente, il più difficile degli esercizi, e imparare a leggere la realtà del terrorismo»
di Dino Messina, Il Corriere della Sera, 24 novembre 2015
Nel romanzo Ho udito le sirene cantare (Antigone editore) lo psicoanalista britannico Christopher Bollas immagina che nel suo studio si presenti un terrorista kamikaze incaricato di compiere un attentato suicida. Il medico si porrà il problema di come agire sulle inibizioni dell’imprevisto paziente: una terapia troppo liberatoria potrebbe mettere e rischio la vita di tante persone.
Convivere con la paura e con il terrore. Comincia con la citazione di un romanzo la conversazione con Antonino Ferro, il presidente della Società di psicoanalisi italiana, conosciuto come il maggiore esponente italiano della disciplina fondata da Sigmund Freud non per la carica che rivestirà sino al 2017 ma per gli studi sulle «rêverie» che sono stati tradotti in una ventina di lingue.
«La mia è una impostazione minimalista — esordisce Ferro, 68 anni, che ci riceve nel suo studio all’ultimo piano di una casa nel centro storico di Pavia —. Divento diffidente quando la psicoanalisi, che io intendo come pratica per curare la sofferenza psichica, viene usata come strumento di interpretazione a buon mercato. E tuttavia dico subito che con il tema della paura abbiamo sempre più a che fare. Nella nostra pratica osserviamo un aumento dei pazienti con attacchi di panico, mentre per esempio malattie come la vecchia isteria escono di scena. La paura è uno stato d’animo che ci accompagna e si manifesta in maniera drammatica in circostanze inaspettate: c’è la paura dell’altro, o c’è la paura di ammalarsi (ipocondria). E c’è soprattutto la paura delle emozioni, che siamo poco attrezzati a fronteggiare. Dominare l’emotività è un lungo tirocinio, non meno complesso dell’apprendimento della musica».
Segue qui:
http://www.pressreader.com/italy/corriere-della-sera/20151124/281526519964230/TextView
Nel romanzo Ho udito le sirene cantare (Antigone editore) lo psicoanalista britannico Christopher Bollas immagina che nel suo studio si presenti un terrorista kamikaze incaricato di compiere un attentato suicida. Il medico si porrà il problema di come agire sulle inibizioni dell’imprevisto paziente: una terapia troppo liberatoria potrebbe mettere e rischio la vita di tante persone.
Convivere con la paura e con il terrore. Comincia con la citazione di un romanzo la conversazione con Antonino Ferro, il presidente della Società di psicoanalisi italiana, conosciuto come il maggiore esponente italiano della disciplina fondata da Sigmund Freud non per la carica che rivestirà sino al 2017 ma per gli studi sulle «rêverie» che sono stati tradotti in una ventina di lingue.
«La mia è una impostazione minimalista — esordisce Ferro, 68 anni, che ci riceve nel suo studio all’ultimo piano di una casa nel centro storico di Pavia —. Divento diffidente quando la psicoanalisi, che io intendo come pratica per curare la sofferenza psichica, viene usata come strumento di interpretazione a buon mercato. E tuttavia dico subito che con il tema della paura abbiamo sempre più a che fare. Nella nostra pratica osserviamo un aumento dei pazienti con attacchi di panico, mentre per esempio malattie come la vecchia isteria escono di scena. La paura è uno stato d’animo che ci accompagna e si manifesta in maniera drammatica in circostanze inaspettate: c’è la paura dell’altro, o c’è la paura di ammalarsi (ipocondria). E c’è soprattutto la paura delle emozioni, che siamo poco attrezzati a fronteggiare. Dominare l’emotività è un lungo tirocinio, non meno complesso dell’apprendimento della musica».
Segue qui:
http://www.pressreader.com/italy/corriere-della-sera/20151124/281526519964230/TextView
CALIFFI E PROLETARI. Per la philostar Zizek, contro l’Isis serve la lotta di classe. Solidarietà alle vittime di Parigi? “Oscenità”
di Giulio Meotti, ilfoglio.it, 25 novembre 2015
“Immaginatelo a cena. Ha la barba. La sua forchetta si ferma, due punte di asparagi tremanti fra i denti, un sopracciglio che compie un’escursione verso l’attaccatura dei capelli, e con voce strascicata dice: ‘Penso che quello che stiamo vivendo sia la difficoltà wittgensteiniana con il linguaggio…’”. E’ così che Thomas W. Hodgkinson e Hubert van den Bergh descrivono il filosofo sloveno Slavoj Zizek nel loro nuovo libro “How to sound cultured”, uscito in Inghilterra per Icon Books. E non avevano ancora letto quanto ha scritto il famoso intellettuale su Newsweek per commentare le stragi di Parigi del 13 novembre.
“Elvis della critica culturale”, pensatore amatissimo nei salotti, “philostar” diventata icona con la sua t-shirt da proletario dell’est Europa, gli occhi pesti e la barba sfatta, lacaniano coccolato in tutti i festival europei che contano, autore di cinquanta libri che parla più velocemente di quanto pensi, editorialista per le maggiori testate del pianeta (New York Times compreso), Zizek ha dato persino il suo nome a un Giornale internazionale di studi zizekiani e a un club di dibattiti postmoderni.
Su Newsweek, Zizek non ha soltanto scritto che l’Isis e il Front national pari sono, “gli islamofascisti e i razzisti europei antimmigrati sono due facce della stessa medaglia”. La sua tesi è che per sconfiggere lo Stato islamico serve la lotta di classe: “Torniamo alla lotta di classe, la solidarietà globale degli oppressi e degli sfruttati. Senza questa visione globale, la patetica solidarietà per le vittime di Parigi è una oscenità pseudoetica”. Tanta empatia nei confronti dei 130 morti di Parigi non ce la saremmo aspettata. Oppure sì. E allora si capisce perché Adam Kirsch su New Republic ha dato a Zizek del “giullare letale”.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/cultura/2015/11/25/califfi-e-proletari___1-v-135384-rubriche_c358.htm
“Immaginatelo a cena. Ha la barba. La sua forchetta si ferma, due punte di asparagi tremanti fra i denti, un sopracciglio che compie un’escursione verso l’attaccatura dei capelli, e con voce strascicata dice: ‘Penso che quello che stiamo vivendo sia la difficoltà wittgensteiniana con il linguaggio…’”. E’ così che Thomas W. Hodgkinson e Hubert van den Bergh descrivono il filosofo sloveno Slavoj Zizek nel loro nuovo libro “How to sound cultured”, uscito in Inghilterra per Icon Books. E non avevano ancora letto quanto ha scritto il famoso intellettuale su Newsweek per commentare le stragi di Parigi del 13 novembre.
“Elvis della critica culturale”, pensatore amatissimo nei salotti, “philostar” diventata icona con la sua t-shirt da proletario dell’est Europa, gli occhi pesti e la barba sfatta, lacaniano coccolato in tutti i festival europei che contano, autore di cinquanta libri che parla più velocemente di quanto pensi, editorialista per le maggiori testate del pianeta (New York Times compreso), Zizek ha dato persino il suo nome a un Giornale internazionale di studi zizekiani e a un club di dibattiti postmoderni.
Su Newsweek, Zizek non ha soltanto scritto che l’Isis e il Front national pari sono, “gli islamofascisti e i razzisti europei antimmigrati sono due facce della stessa medaglia”. La sua tesi è che per sconfiggere lo Stato islamico serve la lotta di classe: “Torniamo alla lotta di classe, la solidarietà globale degli oppressi e degli sfruttati. Senza questa visione globale, la patetica solidarietà per le vittime di Parigi è una oscenità pseudoetica”. Tanta empatia nei confronti dei 130 morti di Parigi non ce la saremmo aspettata. Oppure sì. E allora si capisce perché Adam Kirsch su New Republic ha dato a Zizek del “giullare letale”.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/cultura/2015/11/25/califfi-e-proletari___1-v-135384-rubriche_c358.htm
TERRORE, IL RISCHIO DI CRESCERE UNA GENERAZIONE SCETTICA
di Anna Livioni, Luigi Ballerini, avvenire.it, 25 novembre 2015
Sono mamma di due figli maschi, di dieci e quattordici anni, e mi colpisce l’impatto che hanno avuto sulle loro vite i fatti di Parigi. Li vedo troppo spaventati e preoccupati. Il più grande esita a prendere la metropolitana, tende a uscire meno, mi ha detto che non si sente più sicuro. Ora anche il minore inizia a seguire i suoi discorsi e mi dice di aver paura a fare quello che ha sempre fatto. Mi sembra che la cosa sia contagiosa, perché i ragazzi si parlano fra loro e nel loro gruppo di amici si sta diffondendo questa psicosi, se così possiamo chiamarla. Come possiamo aiutarli come genitori? Mi sembra che le rassicurazioni che con mio marito provo a dare non servano poi a molto. Anna Livioni
Ogni atto terroristico è un attacco al legame sociale. È un attacco alla partnership, a pensare e trattare l’altro come potenziale partner con cui lavorare per un profitto. Il concetto di profitto sia poi il più largo possibile: quello monetario non è che uno, e forse neanche il più rilevante, delle possibile forme che può assumere. È un errore ridurlo a termini puramente economicisti. Tanti ragazzi si sono spaventati per ciò che è accaduto a Parigi. Questo è vero e forse inevitabile, ma c’è di più: molti sono angosciati e la paura di affrontare la vita quotidiana rischia di limitarli, di ridurre le occasioni di incontro e di scambio. Dobbiamo però ammettere che anche noi adulti siamo spaventati, prima e più di loro. Ci sentiamo sotto minaccia, le nostre sicurezze vacillano drammaticamente, aguzziamo i sensi come non abbiamo fatto mai e uno zaino pieno di libri appoggiato per terra da uno studente che chiacchiera con un altro ci fa temere per la nostra incolumità, ci fa pensare che non torneremo più a casa.
Segue qui:
http://www.avvenire.it/rubriche/Pagine/Giovani%20storie/Terrore%20%20il%20rischio%20di%20crescere%20una%20generazione%20scettica_20151125.aspx?rubrica=Giovani+storie
Sono mamma di due figli maschi, di dieci e quattordici anni, e mi colpisce l’impatto che hanno avuto sulle loro vite i fatti di Parigi. Li vedo troppo spaventati e preoccupati. Il più grande esita a prendere la metropolitana, tende a uscire meno, mi ha detto che non si sente più sicuro. Ora anche il minore inizia a seguire i suoi discorsi e mi dice di aver paura a fare quello che ha sempre fatto. Mi sembra che la cosa sia contagiosa, perché i ragazzi si parlano fra loro e nel loro gruppo di amici si sta diffondendo questa psicosi, se così possiamo chiamarla. Come possiamo aiutarli come genitori? Mi sembra che le rassicurazioni che con mio marito provo a dare non servano poi a molto. Anna Livioni
Ogni atto terroristico è un attacco al legame sociale. È un attacco alla partnership, a pensare e trattare l’altro come potenziale partner con cui lavorare per un profitto. Il concetto di profitto sia poi il più largo possibile: quello monetario non è che uno, e forse neanche il più rilevante, delle possibile forme che può assumere. È un errore ridurlo a termini puramente economicisti. Tanti ragazzi si sono spaventati per ciò che è accaduto a Parigi. Questo è vero e forse inevitabile, ma c’è di più: molti sono angosciati e la paura di affrontare la vita quotidiana rischia di limitarli, di ridurre le occasioni di incontro e di scambio. Dobbiamo però ammettere che anche noi adulti siamo spaventati, prima e più di loro. Ci sentiamo sotto minaccia, le nostre sicurezze vacillano drammaticamente, aguzziamo i sensi come non abbiamo fatto mai e uno zaino pieno di libri appoggiato per terra da uno studente che chiacchiera con un altro ci fa temere per la nostra incolumità, ci fa pensare che non torneremo più a casa.
Segue qui:
http://www.avvenire.it/rubriche/Pagine/Giovani%20storie/Terrore%20%20il%20rischio%20di%20crescere%20una%20generazione%20scettica_20151125.aspx?rubrica=Giovani+storie
IL PARRICIDIO. Li abbiamo accolti, li abbiamo aiutati, con la diligenza del buon padre di famiglia. E adesso?
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 25 novembre 2015
Certo che esistono i musulmani moderati, più che moderati, ammodo, anime leggere che svolazzano tra le intemperie dei loro paesi, l’occhio attento alla vita con una serena rassegnazione a quel che accade, consapevoli delle strane vicende del mondo. E quando approdano alle nostre città sono fratelli sorridenti e poeti, ne ho conosciuti e ammirati. Alle loro spalle, come un infernale tsunami, il torvo rumore dell’agguerrita maggioranza di musulmani che disprezzano e perseguitano i soavi compatrioti, e si fanno vanto di odiare i cristiani che un tempo li colonizzarono privandoli di una libertà… presunta e presuntuosa, giacché in realtà costoro erano, e tuttora sono, asserviti a mortifere credenze, soprattutto a quell’oscena misoginia che toglie all’uomo ogni dignità. Invece di pensare all’ottusa ferocia dei loro capi, religiosi per lo più, e ribellarsi, così come è accaduto in occidente, tanti musulmani insistono a crogiolarsi nel rimuginare i torti subiti e sognano di restituirli con gli interessi. Negli anni più recenti piamente accolti dall’occidente, essi tramano vendette, come ogni beneficato quando non perviene alla riconoscenza essi bramano di accoppare il benefattore, di cui non gradiscono quella generosità che li ossessiona come un debito insopportabile. Ecco i danni della nostra bontà? Niente affatto, sono i danni della nostra trascuratezza: di un adottato – tutti gli immigrati in qualche modo lo sono – va seguito con paterna attenzione il percorso umano, tenendo conto dell’inferno che nel suo sciagurato paese costui ha vissuto, ma anche con sovrana fermezza imponendo le civili leggi che i partigiani di Francia e d’Italia e gli aviatori inglesi e gli higgins americani conquistarono a costo della vita.
Chi siamo noi europei per educare? Siamo una massa di avidi bricconi che ultimamente si è assai civilizzata stemperando la propria ferocia. I cristiani in questi recenti settant’anni si sono moderati: dissolte le orribili religioni nazicomuniste, la maggior parte degli occidentali vede nelle antiche chiese qualcosa di misterioso da rispettare se non proprio da adorare, ricordandone la passata – mai del tutto – grandezza. Abbiamo le carte in regola, anche se il punto debole dell’Europa, l’Italia, è costretta giorno dopo giorno a lottare contro mafiosi, ladri e imbecilli di ogni tipo. I musulmani vengono da queste parti portando con sé quello che stimano il loro irrinunciabile tesoro, la religione di Maometto. Difficile, forse impossibile sapere a cosa davvero pensano. Si considerano cittadini europei, o infiltrati? Boh. Centinaia manifestano contro l’Is, milioni stanno rintanati nelle case. Ci odiano? Ci temono? Sono preoccupati? Sono indifferenti? Perché le ragazze musulmane di Varese hanno abbandonato i banchi quando si levava l’omaggio ai martiri di Parigi? Perché i figli degli emigranti vanno a morire per l’Is e se tornano portano con sé i kalasnikov e le bombe?
Segue qui
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2015/11/25/il-parricidio___1-vr-135351-rubriche_c127.htm
Certo che esistono i musulmani moderati, più che moderati, ammodo, anime leggere che svolazzano tra le intemperie dei loro paesi, l’occhio attento alla vita con una serena rassegnazione a quel che accade, consapevoli delle strane vicende del mondo. E quando approdano alle nostre città sono fratelli sorridenti e poeti, ne ho conosciuti e ammirati. Alle loro spalle, come un infernale tsunami, il torvo rumore dell’agguerrita maggioranza di musulmani che disprezzano e perseguitano i soavi compatrioti, e si fanno vanto di odiare i cristiani che un tempo li colonizzarono privandoli di una libertà… presunta e presuntuosa, giacché in realtà costoro erano, e tuttora sono, asserviti a mortifere credenze, soprattutto a quell’oscena misoginia che toglie all’uomo ogni dignità. Invece di pensare all’ottusa ferocia dei loro capi, religiosi per lo più, e ribellarsi, così come è accaduto in occidente, tanti musulmani insistono a crogiolarsi nel rimuginare i torti subiti e sognano di restituirli con gli interessi. Negli anni più recenti piamente accolti dall’occidente, essi tramano vendette, come ogni beneficato quando non perviene alla riconoscenza essi bramano di accoppare il benefattore, di cui non gradiscono quella generosità che li ossessiona come un debito insopportabile. Ecco i danni della nostra bontà? Niente affatto, sono i danni della nostra trascuratezza: di un adottato – tutti gli immigrati in qualche modo lo sono – va seguito con paterna attenzione il percorso umano, tenendo conto dell’inferno che nel suo sciagurato paese costui ha vissuto, ma anche con sovrana fermezza imponendo le civili leggi che i partigiani di Francia e d’Italia e gli aviatori inglesi e gli higgins americani conquistarono a costo della vita.
Chi siamo noi europei per educare? Siamo una massa di avidi bricconi che ultimamente si è assai civilizzata stemperando la propria ferocia. I cristiani in questi recenti settant’anni si sono moderati: dissolte le orribili religioni nazicomuniste, la maggior parte degli occidentali vede nelle antiche chiese qualcosa di misterioso da rispettare se non proprio da adorare, ricordandone la passata – mai del tutto – grandezza. Abbiamo le carte in regola, anche se il punto debole dell’Europa, l’Italia, è costretta giorno dopo giorno a lottare contro mafiosi, ladri e imbecilli di ogni tipo. I musulmani vengono da queste parti portando con sé quello che stimano il loro irrinunciabile tesoro, la religione di Maometto. Difficile, forse impossibile sapere a cosa davvero pensano. Si considerano cittadini europei, o infiltrati? Boh. Centinaia manifestano contro l’Is, milioni stanno rintanati nelle case. Ci odiano? Ci temono? Sono preoccupati? Sono indifferenti? Perché le ragazze musulmane di Varese hanno abbandonato i banchi quando si levava l’omaggio ai martiri di Parigi? Perché i figli degli emigranti vanno a morire per l’Is e se tornano portano con sé i kalasnikov e le bombe?
Segue qui
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2015/11/25/il-parricidio___1-vr-135351-rubriche_c127.htm
(Fonte dei pezzi della rubrica: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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