Percorso: Home 9 Rubriche 9 GALASSIA FREUD 9 Novembre 2015 III – Eredi

Novembre 2015 III – Eredi

4 Dic 15

A cura di Luca Ribolini

FARE O ESSERE GENITORI? Mai come ora i genitori si sentono fragili e inadeguati: madri e padri che spesso chiedono rassicurazioni ai figli piuttosto che offrirne

di Giuseppe Maiolo, ladigetto.it, 8 novembre 2015
 
È cresciuta nel corso degli ultimi anni la percezione che la funzione educativa sia ormai un’azione complessa e difficile. Un po’ tutti avvertono che il mestiere di genitore e diventato problematico e non si improvvisa.
Per questo i nuovi genitori si interrogano di continuo e con non poca sofferenza sulla funzione educativa, ma soprattutto interpellano i cosiddetti esperti per avere indicazioni su come crescere i bambini e gli adolescenti. E mai come ora i genitori si sono sentiti fragili e inadeguati.
Spesso si autoaccusano per gli sbagli fatti e senza uscire dalla palude delle colpe rimangono bloccati nella loro azione educativa e faticano a trovare una risposta personale ai loro problemi.
Così fanno ricorso alle prescrizioni e ai consigli dei professionisti in materie psico-pedagogiche e sono alla ricerca continua di risposte sul come fare e come agire.
In parte i nuovi genitori sono un po’ tutti presi dal bisogno di realizzare il «genitore perfetto», un po’ per mostrare a se stessi che sono bravi e sovente con l’aspettativa di correggere gli sbagli fatti dai propri genitori.
 
Segue qui:
http://www.ladigetto.it/permalink/48786.html

 

AI FIGLI NON SI COMANDA. Non resta che negoziare con loro su tutto, dice una scuola di pensiero. Purché non sia ormai troppo tardi, obietta l’altra. Perché padri, madri e adolescenti oggi hanno un problema in comune: non vogliono crescere

di Elisabetta Muritti, d.repubblica.it, 9 novembre 2015
 
Oggi tutti vorremmo essere genitori perfetti. Perché siamo genitori in crisi e in tempi di crisi. Peccato. L’ambizione velleitaria ci sta facendo buttare via tempo e amore, senza portarci da nessuna parte. Tutt’al più ne caveremo fuori figli allenati a perseguire a loro volta la perfezione. Figli freddi. Ma non è detto, potremmo anche procurare qualche disastro. “L’errore principale? Presto detto. Fare figli, volerli, desiderarli, e poi smontarsi, non dedicarsi a loro. Freud diceva che un bambino sviluppa le sue mappe cognitive ed emotive entro i primi 6 anni. Le neuroscienze rivelano che tale processo è ben più veloce, si conclude nei primi 3. Queste mappe sono il modo di percepire il mondo. A delinearle oggi provvedono più i cartoon che i genitori. E i risultati si vedono: manca la costruzione dell’identità”, taglia corto Umberto Galimberti, filosofo. Che racconta: “Una volta per strada ho sentito un piccolino che diceva a sua madre: “Dio non esiste perché non ha la mamma”. E lei a ridere, deliziata e incurante. Non doveva ridere, doveva spiegare! Il figlio, coi suoi perché, era alla ricerca del principio di causalità. Un’occasione persa, un misconoscimento invece che un riconoscimento. E i risultati si vedono poi, a giochi già fatti”. La perfezione, si sa, non è di questa terra. “Ci dovrebbe bastare essere genitori “sufficientemente buoni”, come raccomandava Donald Winnicott, grande pediatra e psicanalista inglese”, esorta Giuseppe Maiolo, lo psicanalista di formazione junghiana che, con Giuliana Franchini, psicologa e psicoterapeuta infantile, ha appena pubblicato il manuale L’arte di negoziare con i figli. Dal genitore “bancomat” al genitore competente (Erickson). Bello: Winnicott ci piace, amava i Beatles e le madri pasticcione. Ma il sollievo dura poco, l’ansia riprende quota: e com’è in concreto, un genitore sufficientemente buono? “Un genitore normale. Commette degli errori, li mette in conto. Ma una cosa lo rende speciale: è il risultato di una trasformazione. Ha elaborato l’esser stato figlio a sua volta, tant’è che ha imparato a scusarsi quando sbaglia. Soprattutto applica, con testardaggine e lentezza implacabili, un metodo. Che talvolta va spiegato”, risponde Maiolo. Sì, va spiegato. In balìa di disastri opposti e complementari, da un lato prodotti dall’educazione repressiva patita dai loro padri (francamente non più proponibile) e dall’altro da quella permissiva di cui sono il frutto (peccato che oggi manchino lo slancio ottimistico e l’utopia politica), i genitori contemporanei parrebbero non avere in mano più niente. “Eppure hanno la negoziazione. Però devono imparare a praticarla. Serve a loro, per arginare esuberanze pericolose, e ai figli, per meritarsi i traguardi. E non lascia sul campo né vincitori né vinti”, esorta Maiolo. Negoziazione sia, allora. Lo scontro generazionale e la ribellione giovanile sono ormai reperti archeologici, (riesumati tutt’al più dalla moda e dal marketing). Nessuno scappa più da casa (e perché dovrebbe?), la vera conquista, semmai, è tornarci ogni notte più tardi. Meglio cercare un precario equilibrio tra quel che può accadere al figlio quando all’alba non è ancora rientrato e la necessità di spingerlo ad allontanarsi ogni giorno un po’ di più, perché un ventenne che dalla sua cameretta sbircia online il mondo senza mai affrontarlo, diciamolo, non è un bello spettacolo. “Posso fare tardi? Fino a che ora? Perché no? Cosa mi succede se faccio tardi? Sì, eccolo, il nuovo Eldorado della libertà. La frontiera che mette alla prova la resistenza dell’adulto. E qui patteggiare aiuta. Tanto più che gli accordi si possono periodicamente rivedere”, conferma Giuseppe Maiolo.
 
Segue qui:
http://d.repubblica.it/lifestyle/2015/11/09/news/genitori_figli_rapporti_famiglia_adolescenti-2837118/ 

AI RAGAZZI LASCIAMO TEMPO LIBERO DAI NOSTRI PROGRAMMI

di Lorenza e Massimiliano Perri, Luigi Ballerini, avvenire.it, 11 novembre 2015
 
Siamo genitori di 5 figli, tra i 16 e i 3 anni. Nell’ultimo periodo ci siamo accorti che spesso mancano di tempo libero o, quando c’è, lo occupano con difficoltà. Partendo dalla nostra esperienza, per cui il tempo libero lo si cerca di occupare con ciò che più ci interessa, ci siamo chiesti che cosa interessi i nostri figli, giudicando, forse pre-giudicando, non positivamente il fatto che lo occupino con tornei di play station o ascoltando musica (per noi) “insentibile”. Da questa analisi sono sorte alcune domande: perché abbiamo paura di lasciare tempo libero ai figli, tentando di occupare con nostre iniziative tutti i loro minuti disponibili? Cosa davvero interessa ai ragazzi, se è vero che nell’uso del tempo libero si vede ciò che ci sta a cuore? E sbagliamo a considerare l’uso del tempo libero come un criterio di giudizio sui loro veri interessi? Lorenza e Massimiliano Perri
 
Horror vacui. Siamo terrorizzati dal vuoto, noi adulti. Ci facciamo prendere da una strana bulimia che ci spinge ad abbuffarci di impegni e attività. Quante volte ci lamentiamo di non avere tempo per fare ciò che ci interessa davvero? Ma quanto spesso siamo noi a concorrere in prima persona a questo vero assedio delle nostre giornate? Tendiamo a dare la colpa alle condizioni esterne, mentre se fossimo onesti con noi stessi potremmo accorgerci di quanto ci mettiamo di nostro. Siamo noi a riempire attivamente le nostre giornate.
 
Segue qui:
http://www.avvenire.it/rubriche/Pagine/Giovani%20storie/Ai%20ragazzi%20lasciamo%20tempo%20libero%20dai%20nostri%20programmi_20151111.aspx?Rubrica=Giovani%20storie 

L’AMORE È TROPPO IMPORTANTE PER PERDERLO. Oggi sembra l’unico spazio rimasto per esprimere noi stessi, in una società codificata in tutti gli altri suoi aspetti. Ma proprio per questo non può ridursi alla semplice, sempre instabile, soddisfazione delle pulsioni

di Umberto Galimberti e una lettrice, d.repubblica.it, 14 novembre 2015
 
Mi ha molto colpito la sua riflessione sulla relazione tra “poliamore” e “revocabilità delle scelte”. Sarà che sto vivendo da non sposata una relazione tormentata con un uomo sposato e non smetto di interrogarmi su fedeltà e tradimento, bisogni individuali e valori, ma fondamentalmente il dilemma per me e il mio amato resta proprio la “revocabilità delle scelte”, in primis quella matrimoniale. Potrà sembrarle un passaggio azzardato, ma anche Papa Benedetto XVI sembra aver sancito la totale libertà umana di revocabilità di qualsiasi scelta, ivi inclusa quella divina, esprimendo in tal modo il primato del sentire umano, consapevole del proprio mutamento e della propria evoluzione, sopra qualsiasi principio e valore sociale e religioso. La fedeltà incondizionata alle proprie scelte, siano esse matrimoniali, religiose o altro, non è dunque un principio di identità di tipo statico basato su convincimenti, su un racconto cristallizzato, piuttosto che sull’autentica consapevolezza della propria umanità contraddittoria, passibile di evoluzioni e rivoluzioni? Se ammettessimo con serenità un concetto d’identità “fluida”, accogliente delle contraddizioni e generatrice del movimento che è la vita, non saremmo più liberi? Liberi di conoscere e sperimentare la vita, non dico più felici, ma più consapevoli dell’esperienza umana come unicum irripetibile? Anzi mi pare che tale libertà comprenda un’irrequieta, dolorosa felicità alla quale non vorrei rinunciare. Lettera firmata.
 
Il tema che lei pone e che investe il rapporto tra libertà e felicità è stato oggetto di interessanti riflessioni da parte di psicoanalisti e filosofi, a incominciare da Freud che nel Disagio della civiltà in proposito scrive: «Di fatto l’uomo primordiale stava meglio perché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua. L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza».
Se la felicità coniste nella mancanza di qualsiasi restrizione pulsionale, ha buon gioco Marcuse nel sottolineare che per noi occidentali, vivendo in una civiltà ormai assestata in termini di sicurezza e di soddisfazione dei bisogni, è possibile allentare le restrizioni pulsionali e perciò propone in Eros e civiltà di: «capovolgere il senso di marcia dell’evoluzione storica, di spezzare il nesso fatale tra produttività e distruzione, libertà e repressione e apprendere l’arte di utilizzare la ricchezza sociale per modellare il mondo dell’uomo secondo i suoi istinti di vita».
Ma qui sia la diagnosi di Freud sia il rimedio proposto da Marcuse partono dal presupposto che la felicità consista nella soddisfazione delle pulsioni, e così pure la libertà che, sempre secondo Freud. «subisce delle limitazioni a opera dell’incivilimento». Entrambi hanno ragione solo se siamo disposti ad accettare che l’ordine pulsionale è l’unico orizzonte entro cui definire l’uomo. Ne consegue che ha ragione anche lei nel suo rivendicare la «revocabilità di tutte le scelte», ma alla sola condizione di esaurire la felicità dell’uomo nella soddisfazione delle sue pulsioni.
 
Segue qui:
http://d.repubblica.it/dmemory/2015/11/14/lettere/rispondeumbertogalimberti/182lette20151114691820182.html

 

FREUD, EREDE LEGITTIMO DELLA PROPRIA EPOCA 
di Ivan Tassi, ilmanifesto.info, 15 novembre 2015

 
Un problema attende chiunque voglia tornare oggi a misurarsi con la vita di Sigmund Freud: nel corso dei decenni, una nutrita schiera di biografi non troppo scrupolosi si è ostinata a infrangere più volte il divieto con cui lo stesso Freud, prima di equiparare la pratica della biografia alla menzogna, si affrettò a negare al «pubblico» ogni «diritto» di parola sulla sua «persona». L’eccesso di commenti abusivi accumulati attorno alla carriera di Freud, per questi versi, avrebbe generato una moltiplicazione indebita e incontrollata di «fantasmi», che ci impedisce ormai di comprendere, come in un labirinto di specchi, «chi fosse veramente» il fondatore della psicoanalisi.
È su questi presupposti che Élisabeth Roudinesco apre l’ambiziosa biografia Sigmund Freud nel suo tempo e nel nostro (Einaudi, pp. XII-489, <SC82,101> 34), per dedicarsi a un’operazione di ripulitura e di demistificazione. Non si tratta soltanto di denunciare le «strampalate dicerie» dei predecessori, basandosi in primo luogo sui materiali emersi dopo la recente apertura dei Sigmund Freud Archives di Washington. L’obiettivo principale, per Roudinesco, consiste nel rovesciare la «leggenda» di cui sarebbe responsabile, assieme a Freud, anche la Vita redatta fra il 1953 e il 1957 dal suo primo biografo autorizzato, Ernest Jones. Al contrario di quanto voleva farci credere Jones, Freud non coinciderebbe affatto con un «eroe della scienza», capace di voltare le spalle alla sua formazione positivista per poi «inventarsi tutto», dall’alto di uno «splendido isolamento» che nulla deve alla sua epoca. È stata invece quella stessa epoca a «costruire» e in qualche modo a guidare i passi di Freud; e per accorgersene basta imboccare il sentiero non battuto da Jones, inserendo «l’opera di Freud e la sua persona» nella «lunga durata della storia».
Non si può dire che l’applicazione di questa metodologia – ereditata dagli storici della scuola francese delle Annales, e già sperimentata da Henry Ellenberger fin dal 1970 – ci consegni risultati imprevedibili. Mentre ci invita a ripercorrere la carriera di Freud come una «saga» d’assalto, proiettata ad assoggettare le sfere della politica, della filosofia e della religione, Roudinesco ci restituisce l’immagine di un «conquistatore» refrattario ad ammettere i propri debiti intellettuali verso alcuni «nemici-amici» (come Josef Breuer e Wilhelm Fliess) e verso un «ambiente» che in definitiva avrebbe alimentato le scoperte della psicoanalisi, spesso accogliendole con benevolenza.
Ogni tappa della «rivoluzione terapeutica» freudiana si potrebbe per l’appunto giustificare, secondo Roudinesco, attraverso il ricorso al contesto storico. E se il pensiero di Freud, in questa prospettiva, troverebbe la propria matrice non nel più vicino positivismo, bensì nello spirito dei «lumi oscuri», dello Sturm und Drang e del «Romanticismo nero», l’origine della psicoanalisi andrebbe rintracciata nell’attenzione sociale rivolta fin dalla seconda metà del XIX secolo alla questione delle «donne isteriche» o della «masturbazione infantile»: persino l’invenzione dell’Edipo sarebbe da ancorare a un «ritorno ai tragici greci» che alla fine dell’Ottocento risultava «all’ordine del giorno».
 
Segue qui: 
http://www.iniziativalaica.it/?p=28479
http://ilmanifesto.info/freud-erede-legittimo-della-propria-epoca/

 

PER RICOSTRUIRE L’AMBIENTE STORICO DEL FONDATORE DELLA PSICOANALISI MI ISPIRAI A LE GOFF

Intervista di Fabrizio Palombi, ilmanifesto.info, 15 novembre 2015
 
La sua biografia si aggiunge, oggi, ai numerosi studi già pubblicati in tutto il mondo su Sigmund Freud. Quale esigenza l’ha indotta a scriverla, e come riassumerebbe quel che differenzia il ‘suo’ Freud da quello di altri studiosi?
Avevo l’urgenza di studiare nuovamente Freud, in una prospettiva storica e perciò mi sono ispirata all’impostazione con la quale Jacques Le Goff ha scritto il suo libro su San Luigi, nel quale si mostra come il santo venisse pensato diversamente a seconda delle diverse epoche storiche. Volevo sottolineare la necessità e l’attualità di un nuovo «ritorno a Freud», che coinvolga, non tanto e non solo gli psicoanalisti, ma gli studiosi e il grande pubblico, oltrepassando sia le posizioni antifreudiane sia quelle idolatriche. Il mio lavoro intende evidenziare l’importanza della rivoluzione simbolica freudiana che ha inventato il soggetto moderno, il soggetto edipico.
Quando parla della necessità di un «ritorno a Freud», si richiama a una esortazione resa celebre da Jacques Lacan: in che modo la frequentazione dei testi dello psicoanalista francese ha influenzato i suoi studi su Freud?
Il ritorno di Lacan a Freud non riguardò la dimensione storica: il problema, piuttosto, era leggerlo in modo diverso da quello psicologizzante, in voga negli anni cinquanta. Non c’erano ancora, al tempo, studi approfonditi sull’ambiente viennese, mancavano circa vent’anni alla pubblicazione dello studio di Henri Ellenberger e non era disponibile il materiale conservato negli archivi della Biblioteca del Congresso di Washington, documenti che io invece ho potuto usare ampiamente e dei quali ho proposto un inventario. Un ritorno a Freud in chiave storica penso possa rappresentare anche una efficace risposta a quelle ricostruzioni diffamatorie che lo hanno descritto, di volta in volta, come cocainomane, dittatore, reazionario o filonazista.
Nella sua autobiografia, pubblicata nel 1994, lei descrive gli incontri con grandi intellettuali della seconda metà del Novecento: Lacan, Foucault, Althusser, Derrida. Quali sono i ricordi più significativi che associa a ciascuno di loro?
Lacan lo conoscevo benissimo sin da bambina, perché era un amico di mia madre, anche lei psicoanalista. Successivamente, la pubblicazione dei suoi Scritti mi permise di scoprire il clinico e l’intellettuale, che trovai straordinari. Non ho mai avuto una conoscenza personale di Foucault però ho seguito un suo seminario all’università di Vincennes: il suo duplice versante, di storico e di filosofo, gli trasmetteva un grande fascino. Althusser l’ho incontrato nel 1972: era un uomo adorabile, un amico che mi ha incoraggiato a scrivere e ha avuto un ruolo importantissimo nella mia vita. Derrida l’ho conosciuto più tardi, nel 1986, e l’ho stimato molto sebbene avessi inzialmente criticato severamente i suoi testi e il suo orientamento filosofico.
In dialogo con Jacques Derrida ha scritto un libro, intitolato «Quale domani?», il cui primo capitolo riprende la questione dell’eredità, molto cara al filosofo francese. Anche lei concepisce i suoi lavori storici, e dunque questa recente biografia di Freud, come un lascito necessario a orientare le nuove generazioni?
Derrida ci ha lasciato una grande eredità insegnandoci che il modo migliore per essere fedeli a un maestro è quello di essergli infedeli: bisogna essere capaci di ammirare e di criticare contemporaneamente un autore per scriverne qualcosa d’interessante. Una delle esperienze che più mi ha segnato, nel mio rapporto con Derrida, è stata l’organizzazione degli Stati Generali della psicoanalisi nel 2000. Ne risultò una formidabile discussione, con studiosi provenienti da trentacinque paesi: al momento l’eco fu enorme, ma poi, purtroppo, andò rapidamente ad affievolirsi. Dopo, ho avuto la sensazione che gli psicoanalisti si siano ritirati dalla vita intellettuale e scientifica pubblica, rifugiandosi nelle proprie scuole, incapaci di rispondere, nel senso derridiano, alle grandi questioni poste dagli Stati Generali: è il sintomo di una più generale loro inadeguatezza a fronteggiare l’altezza delle trasformazioni del mondo contemporaneo. Hanno condotto battaglie molto giuste contro gli eccessi della psichiatrizzazione e quelli dei trattamenti farmacologici senza però riuscire a rilanciare un confronto culturale con i nuovi problemi e saperi che sono andati affermandosi negli ultimi decenni. Alcuni hanno pensato di trovare conforto nelle neuroscienze: una scorciatoia teorica alla quale non sono favorevole perché dissolve l’autonomia e la specificità della psicoanalisi. Altri hanno attuato una sorta di ripiegamento estetizzante e apolitico, dedicandosi soprattutto agli studi letterari. Oggi si accontentano di essere psicoterapeuti senza interessarsi più alle questioni storiche e teoriche.
 
Segue qui:
http://www.iniziativalaica.it/?p=28479
http://ilmanifesto.info/per-ricostruire-lambiente-storico-del-fondatore-della-piscoanalisi-mi-ispirai-a-le-goff/

 

LA RIVOLUZIONE DEL DESIDERIO NEL SESSANTOTTO: HOUELLEBECQ E LACAN VIA ŽIŽEK

di Paolo Tamassia, leparoleelecose.it, 17 novembre 2015
 
[Questo saggio è uscito in versione francese, con il titolo La révolution du désir pendant Mai 68: Houellebecq et Lacan via Žižek, inLe Roman français contemporain face à l’histoire. Thèmes et formes, a cura di G. Rubino e D. Viart, Macerata, Quodlibet, 2015, pp. 407-421. La traduzione è dell’autore].
 
Osservatore acuto o, secondo alcuni, cinico dissettore dell’epoca contemporanea, Michel Houellebecq ha sempre sostenuto la necessità di uno sguardo storico retrospettivo per una comprensione profonda del presente. Uno degli assi principali della sua opera consiste nel tentativo di rispondere ad un quesito fondamentale: per quale motivo si è giunti alla situazione attuale? Una situazione ritenuta catastrofica e senza via d’uscita. È la domanda che si pongono molti personaggi delle Particelle elementari [1], il romanzo su cui si concentrerà il mio discorso. Se Houellebecq non è certo l’unico autore contemporaneo a rivolgersi al passato per comprendere l’attuale stato delle cose, più rari sono coloro che delineano nella propria opera romanzesca una sorta di filosofia della storia[2], come accade all’inizio di questo libro in cui – nota il narratore – viene raccontata la storia «di un uomo che passò la maggior parte della propria vita in Europa occidentale nella seconda metà del Ventesimo Secolo» (p. 7). Si tratta qui di una concezione della storia secondo la quale l’umanità è manovrata e scandita da alcune rare «mutazioni metafisiche», ossia da alcune «trasformazioni radicali e globali della visione del mondo adottata dalla maggioranza» (pp. 7-8). Ciò che colpisce, in questa teoria, è il carattere assolutamente impersonale, ma implacabile e inevitabile, di tali trasformazioni: «Appena prodottasi, la mutazione metafisica si sviluppa fino alle proprie estreme conseguenze, senza mai incontrare resistenza. Imperturbabile, essa travolge sistemi economici e politici, giudizi estetici, gerarchie sociali. Non esistono forze in grado di interrompere il corso – né umane né d’altro genere, a parte l’avvento di una nuova mutazione metafisica» (p. 8). Tale concezione del mondo, che determina l’economia, la politica e i costumi di una società, viene dunque passivamente assunta dalla maggior parte delle persone ed è il prodotto di un agente totalmente anonimo («prodottasi»; «imperturbabile») e talmente potente («travolge») che nessuna forza umana è in grado di opporvisi. Tanto più che finora tali mutazioni hanno sconvolto delle società tutt’altro che fragili o indebolite, come sottolinea il narratore mentre descrive le due maggiori trasformazioni dell’umanità:
All’avvento del cristianesimo, l’Impero romano era al culmine della propria potenza; perfettamente organizzato, esso dominava l’universo conosciuto; la sua superiorità tecnica e militare era senza uguali. Eppure, non aveva speranze. All’avvento della scienza moderna, il cristianesimo medievale costituiva un sistema completo di comprensione dell’uomo e dell’universo; serviva da base al governo dei popoli, produceva conoscenza e opere, decideva tanto la pace quanto la guerra, organizzava la produzione e la ripartizione delle ricchezze. Tutto ciò non riuscì ad impedirne il tracollo (p. 8).
Tuttavia, se l’intervento umano è stato finora del tutto assente in questa concezione della storia, le cose cambiano in modo paradigmatico nella «terza mutazione metafisica», la «più radicale», quella che dovrebbe «inaugurare una nuova era nella storia del mondo» (p. 8). Di questa trasformazione, descritta alla fine del romanzo, Michel Djerzinski – uno degli eroi, o antieroi, del libro – è stato infatti uno degli artigiani più lucidi. E vedremo a cosa è dovuta questa differenza fondamentale che riguarda l’unica mutazione metafisica operata in modo volontario e cosciente dall’essere umano. Ma prima è necessario considerare la seconda mutazione all’interno della quale, verso fine degli anni Sessanta, si è prodotto un fenomeno di cui viene sottolineato a più riprese il carattere di totale novità e irreversibilità [3]. Si tratta di trasformazioni politiche e sociali in cui il narratore scorge l’origine di una catastrofe mondiale senza via d’uscita, la cui responsabilità principale viene attribuita al movimento del Sessantotto; movimento tanto ben noto quanto complesso e controverso, oggetto di una enorme quantità di interpretazioni estremamente contrastanti e divergenti. Quella proposta da Houellebecq, condivisibile o meno, ha senz’altro il merito di essere chiara e decisa. A suo vedere, se il Sessantotto [4] si è proposto come movimento di liberazione, in particolare nell’ambito sessuale, il problema fondamentale risiede proprio nel senso profondo di questa pretesa emancipazione. Perché attribuendo un valore capitale all’individuo [5], la liberazione cancella ogni possibilità di «legame» [6] all’interno della società in modo così efficace che i suoi effetti sono tuttora evidenti:
Fa un certo effetto osservare come spesso tale liberazione sessualevenisse presentata sotto forma di ideale collettivo mentre in realtà si trattava di un nuovo stadio nell’ascesa storica dell’individualismo. Coppia e famiglia rappresentavano l’ultima isola di comunismo primitivo in seno alla società liberale. La liberazione sessuale ebbe come effetto la distruzione di queste comunità intermedie, ultime a separare l’individuo dal mercato. Un processo di distruzione che continuo oggigiorno (p. 116).
Dopo aver descritto questo fenomeno storico come rottura radicale e sconvolgimento di un’intera civiltà, Houellebecq – attraverso la voce di Michel che commenta Il mondo nuovo di Aldous Huxley – riconosce in esso una conseguenza logica della seconda mutazione metafisica:
La mutazione metafisica che ha creato materialismo e scienza moderna ha avuto due grandi conseguenze: il razionalismo e l’individualismo. L’errore di Huxley è stato quello di non aver valutato adeguatamente il rapporto di forza tra queste due conseguenze. In dettaglio, il suo errore sta nell’aver sottovalutato l’aumento di individualismo prodotto da una incrementata coscienza della morte. Dall’individualismo nascono la libertà, il senso dell’io, il bisogno di distinguersi e di essere superiori al prossimo (p. 161).
Perciò in ragione di questa libertà individuale, contrariamente a quanto pensava Huxley, sorgono la competizione economica e quella sessuale [7]: 
In una società razionale com’è quella descritta da Il mondo nuovo, lo scontro più essere attenuato. In una società ricca dove i flussi economici siano sotto controllo, la competizione economica, metafora del dominio dello spazio, non ha più ragione di esistere. La competizione sessuale, metafora, tramite la procreazione, del dominio del tempo, non ha più ragione di esistere in una società dove la dissociazione sesso/procreazione sia perfettamente realizzata; ma Huxley ha dimenticato di tener conto dell’individualismo. Non ha saputo capire che il sesso, una volta dissociato dalla procreazione, sussiste meno come principio di piacere che come principio di differenziazione narcisistica; lo stesso dicasi per il desiderio di ricchezza (p. 161).
Si giunge così ad una esacerbazione del desiderio:
Perché la mutazione metafisica operata dalla scienza moderna si porta dietro l’individuazione, la vanità, l’odio e il desiderio. Di per sé il desiderio – contrariamente al piacere – è fonte di sofferenza, di odio e di infelicità. E, questo, tutti i filosofi – non solo i buddisti, non solo i cristiani, ma tutti i filosofi degni di questo nome – l’hanno capito e insegnato. La soluzione degli utopisti – da Platone a Huxley passando per Fourier – consiste nell’annientare il desiderio, e le sofferenze connesse, organizzandone l’immediata soddisfazione (p. 161).
Ma la novità dell’epoca aperta dal Sessantotto è costituita da un trattamento particolare del desiderio. Contrariamente alle soluzioni proposte dagli utopisti, come afferma Michel, «la società erotico-pubblicitaria in cui viviamo si accanisce ad organizzare il desiderio, a svilupparlo fino a dimensioni inaudite, al tempo stesso controllandone la soddisfazione nel campo della sfera privata. Affinché la suddetta società funzioni, affinché la competizione continui, occorre che il desiderio cresca, si allarghi e divori la vita degli uomini» (pp. 161-162; corsivi miei) [8].
E proprio in questa «organizzazione» del desiderio, cioè in questa ingiunzione a desiderare e a godere, consiste il tratto inedito della seconda mutazione metafisica, in cui lo sviluppo artificiale del desiderio si accorda alla trasformazione del godimento in merce:
In quegli stessi anni [Settanta], l’opzione edonista-libidica d’origine nordamericana trovò un valido sostegno negli organi di stampa d’ispirazione libertaria (il primo numero di «Actuel» uscì nell’ottobre del 1970, quello di «Charlie-Hebdo» in novembre); benché sostanzialmente collocate in una prospettiva politica di contestazione del capitalismo, quelle riviste concordavano con l’industria del divertimento quantomeno sull’essenziale: distruzione dei valori morali giudaico-cristiani, apologia della gioventù e della libertà individuale (pp. 56-57).
Si tratta di ciò che potremmo considerare un paradosso dell’individualismo. Accade insomma che un’azione impersonale esercitata dalla società sull’individuo per liberarlo, esaltando la sua atomistica individualità, lo trasformi in un’entità anonima e passiva. Ha luogo così una sorta di assoggettamento dell’individuo liberato. Prendiamo il caso di Bruno, il fratellastro di Michel, vittima eminente della liberazione intesa come rivoluzione del desiderio. A un certo momento Bruno comprende che «l’obiettivo principale della sua vita era stato esclusivamente sessuale; non era più possibile cambiare» (p. 65) e in ciò – sottolinea il narratore – era un personaggio «emblematico della sua epoca» (p. 65). Ma stando così le cose è possibile considerare Bruno un individuo? È la domanda che si pone il suo fratellastro Michel (la coscienza critica all’interno del romanzo). Da un punto di vista fisico certamente, pensa Michel: «la putrefazione del suo organismo, sì, gli apparteneva individualmente; avrebbe conosciuto a titolo personale il declino fisico e la morte», ma «d’altra parte […] la sua visione edonista della vita, i campi di forze che strutturavano la sua coscienza e i suoi desideri, quelli appartenevano al complesso della sua generazione» (p. 178). Dunque, se sul piano fisico poteva apparire come un individuo, «da un altro punto di vista non era altro che l’elemento passivo dello spiegamento di un movimento storico. Le sue motivazioni, i suoi valori, i suoi desideri: nulla di tutto ciò lo distingueva neppure in misura minima dai suoi contemporanei» (p. 178). In questo senso tutti gli individui rivelano un identico atteggiamento nei confronti del desiderio sessuale, atteggiamento emblematizzato dal comportamento dei frequentatori di locali scambisti, luoghi simbolo di questa società:
Gli uomini e le donne che frequentano i locali per coppie finiscono rapidamente per rinunciare alla ricerca del piacere (che richiede finezza, sensibilità, pacatezza) a vantaggio di un’attività sessuale fantasmatica, assai insincera nel suo principio, in pratica ricalcata supinamente sulle scene di gang bang dei porno alla moda trasmessi da Canal +. In omaggio a Karl Marx, che pone al centro del proprio sistema, come un’entelechia deleteria, l’enigmatico concetto di «caduta tendenziale del tasso di profitto», sarebbe allettante postulare, al centro di del sistema libertino nel quale avevano fatto ingresso Bruno e Christiane, l’esistenza di un principio di caduta tendenziale del tasso di piacere; sarebbe allettante, ma anche approssimativo e inesatto (p. 243).
Il fatto è che il desiderio e il piacere sono facilmente manipolabili: «Fenomeni culturali, antropologici, vicari, in sostanza desiderio e piacere non spiegano quasi nulla della sessualità; lungi dall’essere un fattore determinante, sono viceversa sociologicamente determinati» (p. 243). Se in un sistema monogamico romantico, basato sull’amore, il desiderio e il piacere si ottengono attraverso l’essere amato, «nella società liberale in cui vivevano Bruno e Christiane, il modello sessuale proposto dalla cultura ufficiale (pubblicità, riviste, organizzazioni sociali e della pubblica sanità) era quello dell’avventura: all’interno di tale sistema, desiderio e piacere si manifestavano al termine di un processo di seduzione, centrato sulla novità, la passione e la creatività individuale (caratteristiche altresì cruciali per gli impiegati, nell’ambito della loro vita professionale)» (p. 243). In altri termini, gli individui rispondono all’appello, o piuttosto all’imposizione, di un sistema che può essere considerato «come calco [«fantasme»] della cultura ufficiale» (p. 244). In questo senso, conclude il narratore, «il godimento è questione di costume – come probabilmente avrebbe detto Pascal se si fosse interessato a questo genere di cose» (p. 244).
«Questione di costume»! in che senso? Lascerò qui da parte l’interpretazione di questa intrigante allusione a Pascal, per sollecitare invece un autore vilipeso da Houellebecq, al punto di considerarlo un «ciarlatano» [9]: Jacques Lacan. Anche se, nel mio discorso, il riferimento sarà piuttosto il Lacan tratteggiato dalla penna pungente di Slavoj Žižek, perché mi sembra che da questo accostamento emergano dei punti di tangenza tanto inattesi quanti illuminanti.
Nel sesto capitolo di Leggere Lacan (2006), intitolato «“Dio è morto, ma non lo sa”: Lacan gioca con Bobòk», Žižek elabora un’interpretazione lacaniana della società contemporanea fondata sull’ateismo. All’origine di questa società c’è senz’altro l’annuncio della «morte di Dio», formulata per la prima volta da Nietzsche nella Gaia Scienza (§ 125), dove il celeberrimo discorso dell’uomo folle segna la fine di un’epoca, anzi la fine della «storia»: epoca e storia concepite come l’insieme delle esperienze umane dotate di un senso ultimo intelligibile. E tale fine deve essere compresa come nichilismo, ossia come scomparsa o distruzione dei valori supremi sui quali l’Occidente si è fondato a partire da Platone. Ora, come osservava Nietzsche, il responsabile della morte di Dio è l’uomo, anche se non ne è ancora pienamente cosciente. È questo il senso della constatazione dell’uomo folle – «vengo troppo presto […] non è ancora il mio tempo» –, in cui si evince che gli uomini non sono ancora in grado di rendersi conto della loro azione criminale. Così, secondo Lacan, per evitare la responsabilità traumatica della morte di Dio, l’uomo ha rimosso l’esistenza stessa del Dio che ha ucciso. Proprio per questo «la vera formula dell’ateismo non è Dio è morto […], la vera formula dell’ateismo è che Dio è inconscio» [10], come afferma Žižek riprendendo Lacan. Una volta rimosso dall’uomo, il quale non vuole ammetterne l’assassinio, Dio abita il suo inconscio mantenendo il potere delle antiche proibizioni. Così la svalutazione dei valori supremi diagnosticata da Nietzsche viene interpretata da Žižek come un problema che attualmente riguarda lo scacco degli ordini simbolici, cioè di quel che Lacan chiama «il grande Altro». Con questa espressione bisogna intendere una sorta di «agency» anonima e impersonale, costruita culturalmente, alla quale l’individuo si sente in dovere di aderire col suo comportamento assumendola come parametro rispetto al quale misurarsi. Si tratta della regola implicita che governa la società:
L’ordine simbolico, vale a dire la costituzione non scritta della società, è la seconda natura di ogni essere parlante: è qui che dirige e controlla le mie azioni, è il mare nel quale nuoto, eppure resta – in ultima analisi – impenetrabile, poiché mai potrò porlo dinanzi a me e afferrarlo. È come se noi, soggetti del linguaggio, parlassimo e interagissimo alla stregua di marionette, come si nostri discorsi e i nostri gesti fossero dettati da un qualche anonimo agire [agency] onnipervasivo. Questo significa forse che, per Lacan, noi esseri umani siamo meri epifenomeni, ombre prive di un nostro potere reale? Significa forse che la nostra autopercezione come agenti [agents] autonomi e liberi sia una sorta di illusione del fruitore che ci rende ciechi di fronte al fatto che siamo semplici strumenti nelle mani del grande Altro, il quale si nasconde dietro lo schermo e manovra i fili? (p. 30).
Ognuno di noi cerca continuamente di riferirsi a un «Altro» virtuale ma sempre presente e sempre pronto ad assicurarsi che le nostre azioni siano conformi alle sue aspettative. E questo agente impersonale, il grande Altro, trova un corrispondente «vendicativo, sadico e punitivo» (p. 98) nel Super-io. In altre parole dobbiamo agire in un certo modo perché così comanda il grande Altro, e ci sentiamo colpevoli se non gli ubbidiamo perché il Super-io ha deciso così.
Secondo Žižek nella nostra epoca, determinata dal fallimento degli ordini simbolici tradizionali in seguito alla morte di Dio, si è prodotta una duplice perversione: del grande Altro e al contempo del Super-io. In effetti il grande Altro mostra sempre più di aspettarsi, da parte delle persone, non certo la moderazione, ma ben piuttosto l’eccesso – coerentemente al carattere edonista della società. Ed è proprio questo eccesso che viene imposto dal Super-io. Insomma, il Super-io si converte in un paradossale imperativo di godimento, come ha affermato Žižek in un’intervista: «La conseguenza paradossale e tragica è una corsa sfrenata al godimento – che giunge evidentemente all’impossibilità di godere perché il Super-io esige sempre di più» [11]. Allora il Super-io, che un tempo era depositario esclusivo dell’interdizione di godere, sembra piuttosto incarnare uno strabiliante «divieto di non godere». Per cui oggi «non ci si sente più colpevoli quando si hanno dei piaceri illeciti, come accadeva prima, ma quando non si è capaci di approfittarne, quando non si riesce a godere» (pp. 31-32). Tuttavia, le dinamiche simboliche sovvertite dalla morte di Dio non ci hanno affatto affrancati dalle proibizioni tradizionali in quanto esse si sono insinuate nelle profondità della nostra psiche. Proprio in quello che era considerato il luogo di pulsioni sregolate e inconfessabili desideri, l’inconscio, possono allora sorgere moderati impulsi al pudore: «Se un tempo fingevamo pubblicamente di credere, mentre nel profondo eravamo scettici o addirittura impegnati a burlarci delle nostre credenze pubbliche, oggi tendiamo pubblicamene a professare il nostro atteggiamento – scettico, edonistico o rilassato che sia – mentre dentro di noi rimaniamo abitati da credenze e rigide proibizioni» [12]. Bisogna prendere atto «che la vecchia situazione in cui la società deteneva le interdizioni e l’inconscio le pulsioni sregolate è oggi invertita: la società è edonista e sregolata, mentre è l’inconscio che regola» [13]. Evidentemente la società va qui intesa come uno dei nomi del grande Altro che ha come pendant sadico un Super-io sempre insoddisfatto il cui imperativo è divenuto un’oscena ingiunzione: «Godi»!
Ma allora, se la libertà si traduce in una singolare condanna alla libertà, è possibile sostenere che «tutto è permesso»? Secondo Lacan, come riferisce Žižek, il celebre motto di Dostoevskij – «Se Dio non esiste […] allora tutto è permesso» (p. 108) – si rivela in realtà un’affermazione del tutto ingenua. Si dovrebbe dire piuttosto: «Se Dio non esiste, allora niente è permesso» (p. 108). In effetti, l’ateo che ha rimosso Dio pensa che senza Dio tutto sia permesso, mentre l’esorbitante arbitrarietà prodotta dalla rimozione provoca ineluttabilmente il suo contrario: la costrizione al godimento imposto da una norma obbligante come lo era la norma divina, ma perversa e inesorabile proprio perché non è più contenuta nei limiti della Legge. Il Dio rimosso – vale a dire la Legge, la Necessità – ritorna come imposizione perentoria a godere, come necessità di godere, guastando però inevitabilmente il godimento stesso. In questa nuova situazione il godimento, un tempo considerato segreta soddisfazione di pulsioni inconfessabili, diventa qualcosa che la società si aspetta da noi, qualcosa cui non ci si può rifiutare. Diventa un atteggiamento di bon ton: ossia «una questione di costume», per dirla con il narratore delle Particelle elementari.
Segue qui:
http://www.leparoleelecose.it/?p=21061#more-21061

 

Video

Recalcati: “Che peccato, oggi non esiste più la noia

Da video.repubblica.it, 16 novembre 2015
La noia di oggi? L’iperconnessione, la saturazione, la ricerca furiosa del nuovo che ci conduce all’insoddisfazione. Ma la noia è anche “possibilità dell’altrove”, come sosteneva Jacques Lacan. RCult di Massimo Recalcatimontaggio di Elena Rosiello.
 
Per il video vai al link:
http://video.repubblica.it/rubriche/reptv-news/reptv-news-recalcati-che-peccato-oggi-non-esiste-piu-la-noia/218638/217839
 



(Fonte dei pezzi della rubrica: http://rassegnaflp.wordpress.com)  
 
I più recenti pezzi apparsi sui quotidiani di Massimo Recalcati e Sarantis Thanopulos sono disponibili su questo sito rispettivamente ai link:
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4545
http://www.psychiatryonline.it/rubrica/4788

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