Una giovane esperta dell’ONU, Sophie, arriva in un ambiente inospitale permeato dalle ostilità etniche di una popolazione divisa tra cristiani e musulmani. Sophie si inserisce in un piccolo gruppo di operatori che lavora per organizzazioni internazionali no-profit, che cercano di agire in favore della popolazione, nonostante la frequente opposizione di quest’ultima e l’ottusa burocrazia delle forze armate alleate. Il gruppo è inizialmente composto da Mambrù, responsabile della sicurezza, l’operatore B e un interprete bosniaco. Ad essi si aggiungono successivamente Katya, analista di guerra ed ex di Mambrù, ed un bambino. Essi in quella precisa giornata devono risolvere un compito che parrebbe piuttosto semplice, rimuovere il corpo massiccio di un cadavere che è stato buttato in un pozzo per impedire ad un villaggio di usufruire dell’unica fonte di acqua potabile.
Il problema è che non si trova la corda per legare il cadavere al verricello dell’auto per estrarlo dal pozzo. La ricerca della corda è il leitmotiv del film, che si dipana tra le scene tragiche degli orrori degli eccidi e le scene gustose, un po’ brancaleonesche, legate all’interazione tra i compagni di avventura e tra questi e la popolazione sospettosa, con la presenza di un esercito ONU impegnato a occupare un territorio seguendo le direttive internazionali a volte a scapito delle esigenze della popolazione locale. Particolarmente divertenti, ma di humour nero si tratta, sono le scene ripetute del problema di come superare i corpi delle vacche morte depositate per strada, che nascondono (o forse no), micidiali ordigni in grado di far saltare tutti in aria.
Il film è una sorta di manuale di sopravvivenza in un luogo impazzito del mondo, situato in realtà a poche centinaia di chilometri dall’Italia, luogo aspro a dispetto degli scenari magnifici, dove vive una popolazione abituata ad una vita dura e ad una cultura del sospetto e della ostilità, un’enclave musulmana nel cuore dell’Europa, dove attualmente si segnalano nuclei di potenziali seguaci dell’Isis (vedi l’articolo del Corriere: http://www.corriere.it/reportage/esteri/2015/bosnia-l-islam-radicale-alle-porte-d-italia-nel-cuore-dell-europa/ ).
Il messaggio del film è che è necessaria una grande capacità di equilibrio nel sapere dosare gli interventi in un territorio culturalmente estraneo, sapere quali sono i limiti fin dove ci si può spingere, ma anche accettare di non potere esportare la propria visione o forzare, anche a fin di bene, le situazioni. Inevitabile, io credo, una riflessione sul mondo attuale (distante 20 anni da quello del film) che non appare assolutamente migliorato, seppur in assenza di una guerra aperta all’interno dell’Europa.
Abbiamo imparato qualcosa da allora? Io credo di sì, mi sembra che a dispetto di tutto l’intervento internazionale sia servito in Bosnia (seppur con profonde cicatrici, vedi l’eccidio di Srebrenica) e la lezione di una cautela necessaria ma di una necessità anche di intervento internazionale equilibrato è nelle pagine fondanti della nostra storia. Certo, la guerra contro l’”infedele” di una parte del mondo musulmano e la difesa della nostra civiltà è il tema odierno. Chissà se tra venti anni potremo parlarne con un film disincantato come questo “Perfect day”. Al momento non mi parrebbe possibile, ma chissà …
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