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“Siete musulmani o cristiani?” – Saluti dal paesello

11 Gen 16

A cura di Maurizio Montanari

Questo breve post non approfondisce tematiche cliniche particolari, e nemmeno cerca di sviscerare argomenti teorici corroborandoli con le storie dei pazienti che vedo in studio, come sono solito fare. Scrivo, perché vivo e lavoro a Vignola, a due chilometri dal luogo nel quale si è consumato un evento piuttosto odioso, le conseguenze del quale saranno visibili per molto tempo nelle vie della città. Alcuni ragazzi di origine non italiana, hanno intimidito un gruppo di adolescenti locali, arma finta alla mano, chiedendo loro se fossero di religione musulmana oppure no. L’eco mediatica  del fatto ha portato il mio tranquillo paese agli ‘onori ‘delle cronache nazionali, descritto su quotidiani e telegiornali che vanno in onda a mezzogiorno come una sorta di ‘culla’ dell’isis nel cuore dell’Emilia gonfia di nebbia. Nei titoli delle testate nazionali siamo passati dal ‘bullimso islamico’ sino alla ‘finta esecuzione in stile Isis’, per giungere poi  alla confessione dei balordi i quali, forse accortisi del clamore sollevato, si sono presentati in caserma confessando una ‘goliardata’, e consegnando l’arma finta. Questo episodio, grave senza se e senza ma, non può essere ascritto ad alcun‘estremismo religioso’, mancando le caratteristiche semi deliranti dell’immedesimazione totale e alienante del terrorista alla sua ‘missione’ violenta.  Tuttavia è lecito chiedersi perché uomini desiderosi di dare sfogo alle loro tendenze perverse o, in subordine, alle loro fregole da spacconi di infimo ordine, utilizzino l’abito del fondamentalista.  Già scrissi qua che ‘ gli operatori del centro Dévereux, in Francia, sostengono che  i soggetti piú a rischio di patologie psichiche, di scoppi di violenza, ma anche di derive integraliste o fondamentaliste, sono soprattutto coloro  sui quali la migrazione ha costituito un trauma che non ha permesso loro di mantenere attivo qualche aspetto della propria identità’  La ‘generazione banlieu, termine coniato in Francia per definire i protagonisti delle prime rivolte periferiche, si contraddistinse proprio per questo. Né francese, né africana, in perenne cerca di un identità, bisognosa di un abito pronto uso che permettesse loro di  rimediare alla dispersione. Oggi l’abito del fanatico terrorista è già li, preconfezionato, cucito da menti perverse, solitamente lontane ( anche fisicamante) da fame e marginalità, messo a disposizione di masse di emarginati incapaci di integrarsi o, peggio, indossato da violenti  per i quali ‘fare il terrorista’ è un modo come un altro di dare sfogo alle loro parti buie e manipolatorie. Ho toccato con mano alcuni elementi. Da un lato, un tessuto sociale logoro, che si è ricompattato in occasione di una fiaccolata organizzata da un movimento politico che,  inneggiando alle ‘espulsioni’, è giunto sin nel cuore della città, passando sotto al mio studio.   Uscendo ho visto quanto il fossato che già divide la comunità locale da quella migrante si sia ulteriormente allargato. Loro, ‘gli altri’, schiacciati ed intimiditi ai lati della strada, i miei concittadini, con fiaccole  e lumini, dentro la piazza.  La comunità sonnoacchiosa sembra aver avuto bisogno del significante religioso, del tutto assente in questo sventurato caso, tanto quanto i cinque bulli lo hanno adoperato per dare un senso alla loro squinternata serata, forse priva di sale,  desiderosi di un  brivido da neofiti del mondo della perversione.   Un'altra cosa mi ha stupito, non piacevolmente. Interpellato da un quotidiano locale, ho cercato di spiegare cosa sia il disturbo post traumatico , e quali possano essere le conseguenze sulla psiche di un minore che si vede minacciato da un arma , del tutto identica ad un revolver vero, con tanto di scoppio ed espulsione dei bossoli. L’uso della minaccia per generare l’angoscia nella vittima riducendola a oggetto paralizzato, alla mercé dell'altro (poco importa se perpetrata con un'arma vera o falsa giacché la vittima percepisce la volontà di soggiogamento) è propria, clinicamente parlando, del perverso. 
Il trauma, se violento, può generare nel malcapitato ciò che tecnicamente si chiama disturbo post traumatico o, in casi più gravi scivolare nella riesperienza. In pratica chi patisce l'azione traumatica è costretto a rivivere le scene di prevaricazione o di abuso, con alterazioni del tono dell'umore, turbe del sonno, disturbi d’ansia per molto tempo. Quello che alcune delle vittime hanno testimoniato di patire in questi giorni. Bene, tante reazioni sono state improntate alla derisione. Si, alla banalizzazione Una parte di mondo locale, probabilmente poco avvezzo alla vita, o forse comodamente seduto sul divano del salotto paterno, ha ritenuto queste considerazioni ( fatte da me e altri colleghi) come ‘esagerate, inutili. Qualche mente spiritosa si è lasciata andare alla logica del ‘benaltrismo’ ( scomodare la psicoanalisi per una ‘ragazzata’, mi ha scritto pubblicamente  una ragazza. E allora le vittime dei preti pedofili?),  altri ancora, in maniera brillante, hanno auspicato una ‘task force’ di medici per sostenere ‘ gli sventurati-poverini ragazzi’. Non so, alcune di queste reazioni mi hanno ricordato i commenti, tra il serio ed il faceto, che si sentono in paese, quando c’è un tentativo di violenza su una donna ( ‘ ah, poverina..! E se se la fosse cercata?). Serviva l’azione grave e malevola di alcuni bulli di periferia per mostrare quanto il legame sociale si sia snaturato, quanto la solidarietà sia venuta meno, quanto il cinismo abbia preso il posto del dialogo. Quanto la quiete di un piccolo paese nasconda rabbia, spietatezza. Quanto il famoso ‘collante sociale’ sia spesso costituito da banali malanimi, pensieri cattivi su note mediocri. Quanto il senso di appartenenza ad una comunità oggi passi forse piu’ sui social network, che non nella pratica quotidiana dello scambio e della parola.

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