Sto terminando un articolo per questa rubrica, al quale lavoro da diverso tempo. Racconta di un paziente rivoltosi a me a seguito di un rapporto analitico che lo ha travolto e destrutturato. Un caso complesso, difficile da trattare, altrettanto difficile da descrivere affinchè diventi un contributo di discussione per la comunità psicoanalitica. Un articolo che sarà on line entro i primi di Marzo. Si tratta di uno dei tanti casi che si iscrive in quella grande zona grigia che ho scelto di indagare sin da uno dei miei primi articoli. Il giornalista Ranieri Salvadorni ( giornalista scientifico free lance, collaboratore di Repubblica on line e 'Lettera 43') ha pubblicato questo articolo http://www.lettera43.it/autore/ranieri-salvadorini_43675869.htm.
Parto da questo prima di descrivere alcuni casi che ho trattato personalmente.
Parto da questo prima di descrivere alcuni casi che ho trattato personalmente.
Intanto grazie a Maurizio
Intanto grazie a Maurizio Montanari per avere riaperto il caso giuridico, poi letterario, precocemente chiuso. La memoria non guasta e mostra una sensibilità morale di grande spessore.
Parte seria.
Tempo fa scrissi un saggio su “Psicoanalisi in rosso” in doppiozero, appena dopo l’uscita del libro di Giorgia Walsh: http://www.doppiozero.com/rubriche/336/202010/psicoanalisi-rosso-una-fiction
Ora la questione torna alla ribalta e fa piacere che ci siano stati emendamenti e correzioni nella SPI. Tuttavia gli emendamenti non emendano il passato e, come scrissi in quel saggio, la storia della SPI non è immune ad attitudini espulsive della dissidenza (da Reich a Lacan) e “comprensive” dell’abuso, come in questo, e, immagino, in altri casi: “se ti dimetti non ti posso espellere, così salvi la faccia e ti ricicli altrove”.
Ovviamente la SPI non è solo questo e la stessa SPI è composta da persone che si sono battute e hanno denunciato le due cose: le espulsioni ingiuste e gli ammiccamenti ingiustificati. Conosco una grande quantità di amici e colleghi della SPI con cui collaboro, che hanno una grande qualità culturale e una sensibilità davvero notevole (è recente che una bravissima collega della SPI mi abbia rimproverato, a ragion veduta, di avere proposto una tesi troppo impegnativa a una mia, pur brillante, studentessa). Potrei fare un elenco di psicoanalisti SPI che ammiro e stimo per avere lavorato, per collaborare anche oggi, con loro fianco a fianco.
Così valga per l’Ordine degli Psicologi, del quale, peraltro, faccio parte anch’io, composto da esseri umani, come me, corruttibili per definizione, termine disposizionale che non significa affatto “corrotti”.
Gli è che, qui come altrove, quando accadono abusi di questo tipo l’abusante tende a farla franca avvalendosi di norme che hanno, o dovrebbero avere, funzione di garanzia. Questione morale e garanzia giuridica entrano in collisione.
C’è un bel libro di Catharine MacKinnon che si intitola Only Words. In quel testo l’autrice racconta le sue fatiche, come avvocata, nel farsi promotrice di cause avverso stupratori. Non in Italia, paese dove la corruzione, presso alcune categorie “merceologiche”, è diventata un must, ma negli Stati Uniti, paese massimamente puritano.
Quando poi il perpetratore, avvalendosi di avvocati, si accanisce contro la vittima, la cosa diventa davvero insopportabile. Lo dico come uomo che ha testimoniato, in terapia, al pianto e alla disperazione di donne picchiate, abusate, stuprate da questi maschi “normali”.
Parte faceta.
Clemenza vorrebbe che chi ha indugiato verso la concupiscentia carnis, goda di indulgenza parziale o plenaria, come recitano i codici cattolici. Ma, anche in questo caso, le dimissioni sarebbero dovute. Perché non aprire un’officina e metterci un bel calendario Pirelli col quale auto-manipolarsi liberamente la sera dopo avere serrato la clèr (termine lombardo che si usa per “saracinesca”, riferito a negozi, meccanici, gommisti e carrozzieri)?
Ovvero, per fare il nostro lavoro ci vorrebbe un briciolo di cultura e un briciolo di sensibilità, non vi pare? E lasciamo stare la vicenda Jung/Spielrein, che ha dato vita a due film l’uno peggio dell’altro.
Tutto ciò mi da il destro per
Tutto ciò mi da il destro per una precisazione, forse superflua.
Questo mio riprendere il tema a me caro ( caro carnis, perchè inciso nella carne, avendo io patito gli effetti di una analisi maligna , deragliata e divenuta per me una cicatrice mai rimarginata) non è in sè un atto di accusa contro la Spi.
O altre associazioni psicoanalitiche in generale.
Ma va a 360 gradi, stanco di leggere libri di persone costrette ad un anonimato forzato, timorosi di rappresaglie legali. Cacciati in un angolo della vita perchè sopraffatti da una qualche canaglia che, maneggiando sapientemente il transefrt, ne ha fatto carne di porco.
Dopo che ho iniziato ad occuparmene, sono state tante, davvero tante, le persone che ho ascoltato, con storie simili alla mia, parcheggiate in una sorta di limbo, uscite semi distrutte da ‘analisi’ senza mai trovare un luogo nel quale poter dire, testimoniare, lasciare il loro racconto.
Non so nulla direttamente
Non so nulla direttamente sulla storia di Giorgia. So, perché ne fui in quelli anni informato, insieme a tutti gli altri analisti della SPI, che il collega che ne aveva abusato stava per essere espulso dalla Società, ma si era dimesso prima che la procedura fosse ultimata. Correttamente, nessun dato su Giorgia e sui dettagli del l’abuso ci fu comunicato.
Ho avuto l’impressione che l’esecutivo della SPI abbia reagito con una certa apprensione. D’altro caso la gravità del caso lo giustificava. Ha cercato di ridefinire l’impostazione del codice deontologico, anche per evitare complicazioni legali nell’eventualita che un fatto simile fosse di nuovo accaduto. Ci fu un dibattito intenso nella SPI, furono introdotte lezioni di etica nei seminari di formazione. Personalmente ritengo che quando un analista fallisce in modo così irreparabile, le cause non sono da ricercare in una sua mancanza di cultura etica bensì in nodi profondi, rimasti irrisolti, della sua esistenza, a cui la propria analisi non ha avuto accesso (come può capitare purtroppo). Sotto la pressione delle correnti erotiche (transferali e controtransferali) della relazione analitica, il senso di responsabilità, che consente di non abusare del desiderio del paziente, senza censurarlo e spegnerlo, può cedere e il cinismo (sul piano più profondo la necrofilia) ha la meglio.
Per quanto mi riguarda il fatto che la SPI non abbia potuto espellere a posteriori un suo socio, che ha anticipato l’espulsione dimettendosi, non mi infastidisce. Prevedere che socio possa essere espulso dopo che sia già dimesso, non ha molto senso e non cambia nulla se il motivo è etico e non scientifico o ideologico: di questo passo uno si dimette perché è molto critico con la psicoanalisi e tu poi lo espelli…
La cosa competeva alla SPI era quella di esprimere una chiara condanna davanti ai soci (come ha fatto). Avrebbe potuto anche denunciare il dimesso alle autorità competenti, con piena ragione peraltro.
Ma…. non è così semplice. Se il paziente, adulto e capace di intendere e di volere, non desidera coinvolgere le autorità giudiziarie? A volte i pazienti (parlo di persone adulte e con capacità di intendere e di volere) non vogliono: è sufficiente per loro impedire che il terapeuta possa continuare a far danni e preferiscono non esporsi a una rivelazione pubblica del danno subito. Anche se la seduzione subita potrebbe rientrare nella “circonvenzione di incapace” (la particolarità della relazione analitica e della loro storia potrebbe esporre loro a un’incapacità contestuale) sono pienamente presenti in sé quando rivendicano la difesa del loro spazio privato già violato.
Si potrebbe obiettare che la SPI debba comunque dare i dati emersi dalla sua inchiesta all’autorità giudiziaria, tutte le volte che un’analista abusi della sua posizione, lasciando ad essa la decisione se procedere senza il consenso della parte lesa. Questo danneggerebbe però la fiducia posta dal/dalla paziente alla SPI per la protezione della sua privacy. Sono questioni che sono state fortemente dibattute tra di noi.
In generale credo che una cosa è l’etica e un’altra cosa il codice deontologico e un’altra cosa ancora la sanzione legale. Fermo restante che sono favorevole alla sanzione legale: ha una funzione catartica (ammonisce tutti contro il superamento di un limite invalicabile), anche se non risolve il danno del desiderio del paziente, la questione infinitamente più importante. Sanzione legale dunque sì, ma non passando sul cadavere della vittima. Sono faccende complesse.
Ora cosa vuole esattamente Giorgia? Forte è la sua denuncia, ma non la vedo sulla strada della pura vendetta. Forse più che la giusta condanna (etica piuttosto che giudiziaria) del colpevole, le interessa il riconoscimento, l’accoglienza del suo bisogno d’amore e soprattutto, direi, della sua capacità di amare. Credo che la sua vera voce è sepolta da qualche parte. L’analista che ha abusato di lei ha una responsabilità enorme, ma non è in condizione di assumerla, La sanzione ha un importante valore catartico, ma non risolve il problema di una responsabilità caduta nel vuoto. E se l’assumessimo noi?
Sono grato in maniera
Sono grato in maniera genuina, fuori di retorica e di frasi di circostanza che non mi appartengono, a Sarantis Thanopulos per la sua risposta.
Il suo intervento tocca, una per una, tutte le questioni che sento mie e, ascoltando le voci di chi ha patito questi abusi, sono alquanto diffusi.
Credo che la SPI abbia agito in maniera egregia, fornendo alla suddetta un appoggio ‘terzo’, estraneo all’analisi,
capace di porsi come regolatore dei deragliamenti della medesima.
Un azione capace di superare l’impasse del luogo comune che ‘ le manipolazioni e gli abusi, patiti in analisi’ si debbano risolvere sempre e comunque dentro all’ambito analitico. Su di un altro lettino.
Come scrissi all’interno della mia rubrica, lanciando il sasso nello stagno tempo fa : ‘ perchè sempre più spesso accade che gli psicoanalisti siano messi sul tavolo degli imputati? (…)
Non passa giorno che voce non si unisca al coro di attacchi alla disciplina di Freud e ai suoi attuali nipoti. Non tanto all’analisi tout court, quanto alla cattiva psicoanalisi, per molti due entità sovrapponibili (…) Se ben guardiamo la blog- sfera ( a tutti gli effetti il fronte delle voci più libere) la schiera dei detrattori e critici non è più solo formata da trinariciuti organicisti che negano tout court la validità dell’introspezione e non riconoscono lo statuto dell’inconscio, ma da tanti pazienti, o analizzanti, i quali possono solo accodarsi nelle innumerevoli discussioni sui forum per lagnare l’inefficacia del trattamento analitico, o denunciare errori pagati a caro prezzo. E non solo economico. Fino a quando, di fronte ad una critica sempre più vasta e sempre più articolata, si percorrerà la via del ‘non è vero nulla’, rimandando un serio dibattito, restando indifferenti a queste istanze?’
Perchè tanti pazienti hanno dovuto patire le pene dell’inferno per testimoniare cosa è successo loro ?
Perchè soffrire isolamento, accuse di disturbo mentale, dissociazione o paranoia?. Insomma, perchè uscendo dalla diade analista -paziente ( o analizzante), se il secondo viene manipolato o abusato, non trova un punto terzo al quale potersi rivolgere?
Mi sono chiesto perchè : ‘ Chi va su un lettino oggi, non ha precise garanzie di terzietà, di protezione da errori?. Ecco il vulnus principale dell’instrumentum analitico. In campo medico, se un’operazione va male, il malato può rivolgersi all’azienda sanitaria, al tribunale dei diritti del malato, o altro ancora. Nel campo della psicoanalisi, se una cura si inceppa o deraglia, purtroppo, non esiste luogo nel quale portare le proprie rimostranze. L’unica speranza è che l’analista abbia a fondo scavato nelle sue zone opache, quelle che conducono a errori, e se ne assuma la responsabilità tenendo quel posto senza fuggire’.
Questi pazienti vogliono uscire dallo stato di a-temporalità e indefinitezza nel quale tutti gli abusati , che non trovano spazio di parola, finiscono.
Credo di possa parlare a buona ragione di uno stato di ‘non persona’, la cui vicenda diventa una ‘non storia’.
Sulla condizione di vittima, e sull’utilità della sanzione, del riconoscimento dell’abuso, scrissi, sempre qua, a proposito dei fatti della Diaz : ‘In molti casi l’impunità del carnefice determina uno stato di paralisi della parola della vittima, creando una situazione di afflizione nella quale la violenza si ripete all’infinito, senza mai liberare chi ne è stato oggetto. Lo stato di vittima è una gabbia spesso simbolica, una prigionia che va oltre le cicatrici sulla carne. Nelle frasi di tante donne oggetto di abusi, di uomini adulti che hanno subito gli appetititi di orchi incontrati nell’infanzia, risuona costante un motivo: ‘ ho potuto finalmente rinascere quando chi mi ha fatto del male è stato condannato’. Quando cioè un istanza ha posto fine a quella drammatica situazione opaca di presunzione di innocenza del reo, spazzando via quella patina di dubbio che annichiliva ed emarginava l’abusato. La condizione interiore di sofferenza si protrae per tutto il tempo in cui il carnefice è contingente, libero da giudizio, con una parola che spesso ha maggior valore di quella della vittima. Il riconoscimento ‘formale’ dello stato di torturatore, toglie la vittima da una situazione di sospensione del tempo e del giudizio, nel quale la realtà sfuma e si opacizza, il dubbio la assale nel merito della sua stessa versione dei fatti. ‘ Se tutti in città dicono che costui è un professionista adamantino e rispettato, forse io ho fatto in modo di provocare le sue ire e le sue percosse’ è l’incipit che segna un pericoloso capovolgimento di prospettiva’
Non dimentichiamoci mai di due aspetti. SI va in analisi per stare meglio, e se ne può uscire distrutti.
La propria parola può venire sottoposta ad un processo di negazione e invalidazione tale da portare individui piu’ fragili alla follia
( ‘Se lui ha abusato di me, me lo sarò meritato. Questo
preveda la cura’ mi disse una ragazza vista tempo fa
So da dove parlo. Io conosco questa cosa,l’ho pagata assai cara sulla mia pelle. Emotiva, e fisica.
Anche grazie ad una sfortunatissima vicenda personale nei miei trascorsi analitici,che mi ha moralmente ‘imposto di indagare’ questo fenomeno, mi pongo questi quesiti da anni quando incontrai la devastazione al posto della riabilitazione.
Cercai di capire, ma non era facile.
Chiesi lumi degli effetti deleteri del trattamento ,ma nessuno rispose dall altro capo del telefono.
Bussai allora ripetutamente alle porte dell’istituzione, la quale non volle prendersi le proprie responsabilità.
Se io ero incappato in un analisi malevola e , posso dirlo nel tempo, psicotizzante, la colpa era mia e solo mia.
Il ricorso alle legge, non poteva essere contemplato. Se crollai, erano solo
fatti miei. Privati.
Perchè? Perchè il ricorso alla legge è un ‘altro discorso’, valendo come assunto di base il fatto che
ciò che si fa e si disfa in corso di analisi, solo in un altra analisi può essere ‘messo a posto’. Ecco qual il vulnus, il dramma del terzo non dato.
La chiusura ermetica che una istituzione eleva per difendere se stesa dalla contaminazione, e dalla possibilità di un ‘redde rationem’ per l’analista che si rende
colpevole di errori, manipolazioni, o qualsiasi altra condotta fuori etica.
Dice bene Thanopulos, e io lo sostengo da tempo : , ‘Un analista che sbaglia diagnosi, magari distratto da altre cose, o semplicemente con un lavoro su se stesso stagnante, espone il paziente a rischi talora altissimi. Il ‘controtransfert’ è quella risposta relazionale ed emotiva dell’analista verso il paziente, utile nel processo analitico fino a quando non diventa una pioggia di detriti che provengono dall’analista, il quale senza controlli, può scaricarli sul malcapitato paziente. Il paziente che, come insegna l’analista francese J.A Miller, è sempre ‘innocente’ quando entra nello studio con lettino. Chi non ricorda l’analista Moretti de ‘La stanza del figlio’, irritato perché il paziente Orlando con un ritardo ha fatto sì che lui non fosse vicino al figlio nel momento della disgrazia? Ecco, quella scarica di rabbia che gli riversa addosso in seduta, è un controtransfert incontrollato. Lacan tratta la questione del controtransfert : “(..)Come è scritto da qualche parte, se si trascurasse quell’angolo dell’inconscio dell’analista, ne risulterebbero delle vere e proprie zone cieche, da cui conseguirebbero eventualmente nella pratica fatti più o meno gravi e incresciosi: misconoscimento, intervento mancato o inopportuno, o persino errore”.
Io ne so qualcosa.
L’infinito gioco della soggetivazione personale e della responsabilità sempre e comunque del paziente, porta ad un rischio: escludere totalmente la responsabilità dell’analista se colpevole di malacondotta.
Come ebbi modo di dire ad un collega che insisteva su questo, con questa logica, si dice all’internato ad Treblinka, o alla ragazza vittima di abuso sessuale, cosa hai fatto per non fart prendere?
E’ un massacro
Per quel che riguarda la mie trascurabile storia, ho fatto da pontiere.
Dopo che mi rialzai in piedi ( e non fu affatto facile, visti i segni morali e fisici conseguenti) ho avuto modo e fortuna di ascoltare tanti uomini e donne che avevano passato un calvario simile al mio.
Storie infrantesi contro un muro di gomma.
Scrivere di questo è il mio modo di assumere le responsabilità, portando come massima la frase di Lacan : “L’analista, dico, da qualche parte, deve pagare qualcosa per reggere la sua funzione. Paga in parola, paga con la sua persona. Infine bisogna che paghi con un giudizio sulla sua azione’. E’ il minimo che si possa esigere”
La piattaforme di Pol.it mi sembra abbia quelle caratteristiche di libertà, laicità e professionalità per poter continuare a parlarne.
In calce aggiungo che risulta
In calce aggiungo che risulta essere importante quello che la Spi ha fatto, dimostrando di aver compreso la sensibilità del tema. Per primo so e mi rendo conto che in diversi casi si può trattare di mitomani, o gravi forme di isteria irrisolte. Tuttavia l’istituzione di un luogo al quale fare riferimento in casi di danno, credo sia un esempio da seguire, anche in altre scuole psicoanalitiche.
Caro Sarantis, Vorrei
Caro Sarantis, Vorrei sollecitarla ad una discussione , visto che la questione la vede interessato e che il suo contributo è di spessore. A me anni fa accadde una spiacevole vicenda, nella quale un analisi che doveva ‘risollevarmi’, si tramutò in una condotta psicotizzante. Non sto ad elencare le conseguenze sulla mente, e haimè sul copro, avute.
Ma vorrei con lei discutere sul fatto che, chiusa quella stanza, tutto cessò di esistere.
Come ebbi modo di dire, non potevo nè dire nulla, nè provare alcunchè, poichè tutto avvenne dentro le 4 mura.
Porto, e porterò conseguenze gravissime (molto simili a quelle del protagonista de ‘la migliore offerta’ che paga con un tracollo fisico il colpo inferto dai truffatori) ma la mai resta e restarà parola morta.
Come rendere testimoniabile l’intestimoniabile?