I dati del Viminale ci dicono che sono 153.842 gli stranieri soccorsi o sbarcati sulle nostre coste nel corso del 2015 e la Sicilia è la regione che ha affrontato il maggiore impatto, con 104.709 persone accolte. Il porto maggiormente interessato dagli sbarchi è stato Lampedusa (21.160 persone per 168 sbarchi). Il docufilm diretto da Gianfranco Rosi, premiato con l'Orso d'oro al Festival di Berlino, ci racconta la storia di un anno trascorso dal regista a Lampedusa, alla ricerca di una verità scomoda da vedere e con il rischio di riproporre scene già viste e straviste. Il taglio scelto da Rosi è di quelli lenti, con lunghi tratti di cinema-verità (secondo Edgar Morin "Si tratta di fare un cinema verità che superi l'opposizione fra cinema romanzesco e cinema documentaristico, bisogna fare un cinema di autenticità totale, vero come un documentario ma col contenuto di un film romanzesco, cioè col contenuto della vita soggettiva") che penetrano progressivamente nell’anima dello spettatore, perché non c’è un prima e non c’è un dopo nelle vicende, non c’è una trama e non c’è una spiegazione. C’è la vita pacata di un paese che vive la propria esistenza in parallelo con la tragedia che si consuma accanto, ma senza rifiutarla. Ci sono poi poche persone (non “personaggi”) eccezionali che la vivono in pieno, come Pietro Bartolo, il medico che si sottopone a turni massacranti e ad incombenze terribili, come esaminare e sezionare centinaia di cadaveri di poveri esseri che non hanno superato il viaggio sulle carrette del mare.
Bartolo è il medico dei migranti, ma è anche, e in primo luogo, anche il medico della comunità dei lampedusani. E’ a lui che si rivolge perciò Samuele, il piccolo protagonista del documentario che sta crescendo passando da bambino di terra, piccolo cacciatore di uccelli nella boscaglia isolana, a ragazzo del mare alle prese con il mondo adulto dei pescatori. Samuele ha un “occhio pigro”, che ci vede poco e che ha perciò bisogno di rieducazione. Per fare questo deve per un certo tempo mettere una benda sull’occhio sano perché l’occhio pigro cominci a vedere.
Rosi ci ha voluto introdurre nel mondo della tragedia degli sbarchi, chiedendoci di chiudere l’occhio “buono” con cui crediamo di vedere esattamente, per esercitarci a vedere con l’altro occhio, quello “pigro” con cui non vogliamo vedere come stanno le cose. Ed è un cammino lento quello che ci propone. Non succede infatti quasi nulla per tutto il filmato, ma con l’avvicinarsi della fine cominciamo a “mettere a fuoco” alcune realtà ed iniziamo anche ad “ascoltare”, non solo vedere. Sentiamo la voce di qualche sopravvissuto che ci racconta come il suo popolo ha dovuto fuggire dai luoghi di nascita, ha dovuto attraversare e morire nel Sahara, ha dovuto stentare in Libia e ha dovuto imbarcarsi per una traversata densa di incognite e ancora una volta di morte. E chi è morto è perché ha pagato “solo” 800 Euro, mentre chi è vivo lo è perché ha pagato “ben” 1500 Euro. Poche centinaia di Euro su un barcone hanno segnato il destino di molte persone.
Il racconto che Rosi fa della costruzione del film è esso stesso degno di nota: ha vissuto per più di un anno sull’isola, aspettando per mesi che succedesse qualcosa e conoscendo poco alla volta alcuni paesani, imbarcandosi poi per un mese su una nave militare senza che succedesse niente ancora una volta, ma poi immergendosi improvvisamente nella tragedia delle decine di morti ammassate in un barcone. Ci racconta che aveva molto pudore a filmare quelle morti, ma è stato convinto dai militari a testimoniare la tragedia che era in corso.
Ecco, questo docufilm è una testimonianza, la documentazione di una epica trasmigrazione di popoli, destinata a durare per decenni e alla quale probabilmente rischiamo di abituarci. Per sperare che tutto questo non avvenga, bisognerebbe poter intervenire nei luoghi di origine. A questo proposito, riporto le parole che il medico Pietro Bartolo ha rilasciato a Berlino: “Tutti vogliono vivere dignitosamente nel proprio paese, nessuno decide di emigrare dalla propria terra se non costretto. Creiamo condizioni dignitose nei loro paesi, così accontentiamo tutti: noi, loro e anche quelli che non li vogliono. A Lampedusa gli sbarchi avvengono da 25 anni, me lo ricordo bene. I lampedusani non si stancano mai, lo faranno sempre. Ricordo un panificio che dopo la chiusura panificava solo per loro, gratuitamente. Non si stancano perché sono un popolo di mare e tutto quello che da lì proviene è bene accetto. Siamo tante voci che insieme diventano un mare, che unisce continenti e popoli in nome della vita, non di un cimitero.”
Speriamo di accorgerci che abbiamo “occhi pigri” su queste vicende e che dobbiamo perciò continuare a non dare per scontato che quello che crediamo di avere messo a fuoco sia la cosa corretta. Solo “sforzandoci” ad una migliore visione potremo interpretare correttamente il destino della nostra Terra.
Rosi ci ha voluto introdurre nel mondo della tragedia degli sbarchi, chiedendoci di chiudere l’occhio “buono” con cui crediamo di vedere esattamente, per esercitarci a vedere con l’altro occhio, quello “pigro” con cui non vogliamo vedere come stanno le cose. Ed è un cammino lento quello che ci propone. Non succede infatti quasi nulla per tutto il filmato, ma con l’avvicinarsi della fine cominciamo a “mettere a fuoco” alcune realtà ed iniziamo anche ad “ascoltare”, non solo vedere. Sentiamo la voce di qualche sopravvissuto che ci racconta come il suo popolo ha dovuto fuggire dai luoghi di nascita, ha dovuto attraversare e morire nel Sahara, ha dovuto stentare in Libia e ha dovuto imbarcarsi per una traversata densa di incognite e ancora una volta di morte. E chi è morto è perché ha pagato “solo” 800 Euro, mentre chi è vivo lo è perché ha pagato “ben” 1500 Euro. Poche centinaia di Euro su un barcone hanno segnato il destino di molte persone.
Il racconto che Rosi fa della costruzione del film è esso stesso degno di nota: ha vissuto per più di un anno sull’isola, aspettando per mesi che succedesse qualcosa e conoscendo poco alla volta alcuni paesani, imbarcandosi poi per un mese su una nave militare senza che succedesse niente ancora una volta, ma poi immergendosi improvvisamente nella tragedia delle decine di morti ammassate in un barcone. Ci racconta che aveva molto pudore a filmare quelle morti, ma è stato convinto dai militari a testimoniare la tragedia che era in corso.
Ecco, questo docufilm è una testimonianza, la documentazione di una epica trasmigrazione di popoli, destinata a durare per decenni e alla quale probabilmente rischiamo di abituarci. Per sperare che tutto questo non avvenga, bisognerebbe poter intervenire nei luoghi di origine. A questo proposito, riporto le parole che il medico Pietro Bartolo ha rilasciato a Berlino: “Tutti vogliono vivere dignitosamente nel proprio paese, nessuno decide di emigrare dalla propria terra se non costretto. Creiamo condizioni dignitose nei loro paesi, così accontentiamo tutti: noi, loro e anche quelli che non li vogliono. A Lampedusa gli sbarchi avvengono da 25 anni, me lo ricordo bene. I lampedusani non si stancano mai, lo faranno sempre. Ricordo un panificio che dopo la chiusura panificava solo per loro, gratuitamente. Non si stancano perché sono un popolo di mare e tutto quello che da lì proviene è bene accetto. Siamo tante voci che insieme diventano un mare, che unisce continenti e popoli in nome della vita, non di un cimitero.”
Speriamo di accorgerci che abbiamo “occhi pigri” su queste vicende e che dobbiamo perciò continuare a non dare per scontato che quello che crediamo di avere messo a fuoco sia la cosa corretta. Solo “sforzandoci” ad una migliore visione potremo interpretare correttamente il destino della nostra Terra.
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