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Quando il sociale entra in seduta: le depressioni narcisistiche

17 Mar 16

A cura di la redazione degli Argonauti

Proveniamo da anni di modernità liquida (Bauman Z., 2000), con la sua sovrabbondanza di modelli rapidamente interscambiabili, in un clima superficiale e caotico: un complesso quadro di instabilità e incoerenza identitaria (Mariotti G. 2004). La psicoanalisi ha riconosciuto tali elementi nella psicopatologia: si è visto infatti “uno slittamento progressivo ma irresistibile verso il primato della problematica narcisistica” (Cahn R., 1998), verso nevrosi caratteriali assai più frequenti di quelle sintomatiche (Lopez D., Zorzi L. 1989), cioè verso un disagio non focalizzato a una sintomatologia specifica, quanto piuttosto prevalentemente orientato da sentimenti di insoddisfazione, noia, ipocondria, crisi di ansia e angoscia senza contenuti delimitati (Eheremberg A. 1998). Tutto ciò si è inserito in un quadro complessivo di personalità che evidenzia deficit di simbolizzazione, prevalenza dell’agire sul pensare, dominio del corpo e della realtà concreta, vulnerabilità portata al parossismo relativamente alla stima di sé e all’apprezzamento da parte degli altri, con ovvie conseguenze di difficoltà di soggettivazione e autonomizzazione fragile o incompleta (Jeammet  P. 1985, Zucca Alessandrelli C. 2005). In tali contesti si sono frequentemente evidenziati sentimenti di colpa per ciò che non si è in grado di fare (Grunberger B., 1971): il superio, lungi dallo svolgere il compito protettivo sottolineato da Freud, ha finito per rappresentare il persecutore umiliante delle proprie reali o presunte incapacità. Una traccia ancora viva di questo ruolo superegoico persecutorio e colpevolizzante, in termini macrosociali, potrebbe essere trovato nella gestione della crisi greca:  la durezza persecutoria del superio sembra essere stata ben rappresentata da alcune posizioni assunte dalla Germania (non a caso, nella lingua tedesca la parola debito significa anche colpa (…). Con licenza psicoanalitica(cioè leggendo in chiave psicoanalitica ciò che richiede certamente ben altre chiavi di lettura), possiamo pensare dunque che il debito, cioè l’incapacità o l’impossibilità di rispondere a un ideale più o meno megalomanico, finisce per diventare una colpa e la colpa, a sua volta, esige una riparazione, in un circolo vizioso sempre più asfittico. Ancora con licenza psicoanalitica, sembra che il diniego non abbia avuto ruolo secondario nel favorire la posizione tedesca: dopo il secondo conflitto mondiale, alla Germania venne condonato infatti ben il 60% dei suoi debiti di guerra, questione questa che sembra essere del tutto assente dalla memoria e dalla consapevolezza di alcuni politici tedeschi. Colpa e diniego nutrono dunque il superio narcisistico che colpevolizza qualsiasi forma di, reale o presunto, fallimento, alimentando attivamente la necessità di mantenere il clima eccitatorio del successo ad ogni costo. 
La pesante crisi economica e culturale che stiamo ora attraversando, una crisi che molti economisti giustamente ritengono di tipo strutturale, ha però comportato il crollo di questo clima e degli ideali megalomanici che lo contraddistinguono, ideali ben rappresentati in Italia da una classe politica immersa negli ultimi vent’anni nel diniego e nella dimensione costantemente eccitatoria. Il falso sé megalomanico, il sé grandioso, così attivato e sostenuto dal clima sociale degli anni passati, ha ora perso il suo stesso nutrimento e langue nelle depressioni, appunto, narcisistiche. In analisi, rallentata la corsa, arrivano depressioni da perdita di ruolo, da arresto: si è costretti a vedere e pensare, ma si è persa la consuetudine a farlo. Con il verbo “pensare” intendo soprattutto, in questo frangente, il superamento del diniego, utilizzato come principale meccanismo di difesa: mentre la negazione in fondo afferma proprio ciò che si rifiuta, nel diniego si isola e si ignora, nel senso più duro del termine, ciò che può minacciare il proprio equilibrio precario. Ciò non può tuttavia durare in eterno (pena lo scivolare nel delirio), poichè “siamo soggetti al principio di realtà, cioè a un’istanza che nasce dalla necessità, dal bisogno organismico di distinguere la cosa immaginata da quella materiale” (Petrella F., 2010). L’impossibilità di mantenere attiva questa forma difensiva è infatti dialetticamente legata al porsi di fronte alla realtà così lungamente rimossa. Possiamo sinteticamente affermare che alla fase ipomaniacale, costellata da depressioni al di sotto del livello di guardia, tenute a bada appunto con diniego e attivazione eccitatoria, si è andata gradualmente sostituendo una fase più francamente depressiva. La fase attuale di downgrading segnalata dall’ultimo rapporto Censis si inserisce infatti nel  quadro degli ultimi decenni, che  hanno visto l’Italia registrare, “tra crisi di identità e soprattutto scontri con la realtà, un alternarsi di stati moderatamente euforici o depressi” (Bartezzaghi, rep.29/4/2015). Al “tutto è possibile” ha fatto seguito “nulla è più possibile”, fantasia questa che viene accompagnata da nuove forme difensive.
Proprio recentemente, mi hanno chiesto un’analisi due donne, entrambe poco più che trentacinquenni, entrambe con un buon successo professionale, che “improvvisamente” hanno iniziato a manifestare sintomi sfumati di depressione, crisi di panico, ansie ipocondriache. Nella loro rincorsa al successo hanno del tutto trascurato la sfera sentimentale e sessuale: sia l’una che l’altra non hanno relazioni da diversi anni. Il mondo brillante ed eccitatorio del lavoro, nel quale hanno riversato i proprio bisogni narcisistici  di affermazione e di consistenza identitaria, appare ora ai loro occhi come inadeguato, povero, frustrante. Il diniego, che non ha permesso loro di sentire la mancanza della sfera libidico-affettivo, non svolge più il proprio ruolo e la realtà interna di bisogni e desideri si è presentata alla loro porta. Certamente, il nucleo originario di tale psicopatologia verrà gradualmente evidenziato nello svolgersi dell’analisi, ma è comunque interessante porsi alcune domande: è solo un caso che si tratti di donne? È possibile pensare che la caduta del clima  sociale ipomaniacale colpisca particolarmente le giovani donne “in carriera”? E se è così, possiamo pensare che il successo professionale abbia celato un edipo non elaborato, una fragilità narcisistica che le ha spinte a cercare nel “capo”, o nel cliente che le consultava, un padre che le amasse e le preferisse? Che in tutto ciò si sia verificato uno spostamento dall’area libidico-affettiva concretamente vissuta, fonte di paura e insicurezza, all’area fantasmatica del trionfo edipico? Lascio in sospeso queste questioni, alle quali solo lo svolgersi dell’analisi potrà dare una risposta soddisfacente, ma ritengo che vada invece sottolineato come anche in questi casi si sia verificato un rapido capovolgimento da clima ipomaniacale a clima depressivo.
O depressione o ipomania, dunque, in una sorta di estenuante partita di ping pong. La depressione narcisistica franca implica lo sconvolgente sentimento di perdita del valore di sé, faccenda che peraltro riguarda tutte le forme depressive, ma se ne differenzia perché riguarda specificatamente la sfera pubblica e relazionale: è la perdita della propria identità sociale, di quella stampella che ha sostenuto personalità fragili, con serie difficoltà nella sfera libidico affettiva. Se fin da Karen Horney è stata sottolineata l’importanza del contesto sociale, culturale e storico nella comprensione della psicopatologia, un posto speciale va riconosciuto al sé sociale, al ruolo che svolge nel riconoscimento di sé e del proprio valore, ruolo che pare incrementarsi ulteriormente in riflessioni psicoanalitiche più recenti: Aron ( Aron L., 2004), ad esempio, declina il concetto di terzo analitico proposto da Ogden proprio in tal senso, cioè come un terzo analitico rappresentato “dalla cultura professionale, sociale e storica allargata in cui la coppia (terapeutica) è profondamente immersa”. Il compito di questo “terzo contestuale” è precisamente quello di contenere dispersioni difensive e al contempo evitare simbiosi disfunzionali. In questo senso, l’appartenenza a una istituzione psicoanalitica (in senso ampio, una corrente di pensiero, una teoria, etc.) diviene addirittura una componente fondamentale dell’identità dello psicoanalista al lavoro, diventa il fattore che” impedisce alla situazione analitica di degenerare in semplice incontro personale, per giunta di tipo regressivo” ( Aron L., 2004).
Se riconosciamo, quantomeno in parte, qualcosa di vero nella riflessione di Aron, possiamo pensare altresì che tutto ciò non riguardi solo lo psicoanalista, bensì qualsiasi soggetto. Anche dal vertice della sanità psichica, la propria professione, soprattutto se gratificante, contribuisce alla costruzione e al mantenimento dell’ identità e dà nutrimento ai bisogni narcisistici. Il crollo di questa area è responsabile di molte delle depressioni narcisistiche attuali. Noi nasciamo con due gambe ed entrambe sono necessarie per camminare, così io penso che nasciamo anche con due gambe psichiche: l’una è il narcisismo, cioè l’amore di sé, e l’altra è la relazione d’oggetto, cioè l’amore per l’altro. Se una delle due gambe non funziona adeguatamente, il cammino verso la maturità risulta difficoltoso e tutta la struttura psichica si sviluppa in modo non armonioso. Nel caso del crollo narcisistico, sembra proprio che l’intero sé crolli, senza più alcun sostegno.   Tutto ciò viene sperimentato con livelli di angoscia molto elevati, e la tentazione di tornare nelle braccia dell’ipomania e del diniego è fortissima: sembra talvolta che la domanda iniziale d’analisi consista inconsciamente proprio nel poter ristrutturare quel quadro di onnipotenza che è andato perduto.
Tornando al sociale, e ovviamente al clima sociale italiano, pare che in parte ciò si stia già verificando e alla depressione stia facendo seguito una nuova forma di ipomania: il giovanilismo reattivo, il trionfalismo, la fantasia di soluzioni rapide e già operative. Nella condizione di crisi permanente, essenza distintiva della postmodernità (Berman M, 1985),  ci prepariamo a rivedere nuovi tentativi di vie di fuga, come sempre consistenti in una iperattivazione, in un nuova forma di diniego del lutto che accompagna le trasformazioni (Berman M, 1985): una sorta di contraccolpo fatto di fretta convulsa e di smania di recuperare a qualunque costo  il tempo perduto (Serra, venerdì 8 maggio 2015)  Il tempo si accelera ancora, non lascia spazio alle distinzioni: vecchi e giovani sono accomunati dalla medesima rincorsa, dall’impossibilità di avere ritmi sospesi e scelte riflessive (….). Una sorta di fuga dalla minaccia di depressione, quasi fosse, quest’ultima, disciolta in un unico grande calderone che accomuna la depressione patologica al sentimento depressivo blando legato all’esame di realtà, alla consapevolezza dei limiti propri e dell’altro. A questo “contraccolpo” sembra contribuire anche la prospettiva robotica post-umanista (Rodotà  rep 5 luglio2015) che alimenta impulsività e attivazione eccitatoria. A questo proposito, ho avuto notizia dell’esistenza di ThinkUp, un servizio che analizza il comportamento degli utenti su Twitter e Facebook, e a questo proposito Gina Trapani, che ne è la fondatrice, ci ricorda come i social network possano instillare un falso senso di intimità, riducendo così l’autocontrollo: “quando sei online ti prende una specie di riflesso automatico di avventatezza e mancanza di empatia, perché non hai nessuno davanti. In altre parole, online agiamo senza pensare” (Internazionale, 6/2/2015). “In rete, le persone tendono ad essere più immediatamente intime tra loro, più dolci e carezzevoli, ma anche più sboccate e incontrollate” (Longo M.,  2012),”dicono cose che non direbbero utilizzando altri mezzi di comunicazione” (Young, in Longo M., 2012).
Il “non avere nessuno davanti”, di cui parla Trapani, ci riporta alla mancanza di limite, quel limite che l’altro pone nella concretezza del suo stesso essere ed esistere. Se torniamo alla metafora delle due gambe, appare dunque chiaro che nelle fasi eccitatorie onnipotenti la relazione d’oggetto sembra svanire, per lasciare spazio al solo narcisismo, inevitabilmente persecutorio proprio perché non temperato dalla dimensione relazionale. E’ evidente che la camminata zoppicante non è di alcun aiuto per raggiungere la propria meta: al contrario, rallenta e disarmonizza il processo evolutivo.
Le situazioni cliniche in cui i soggetti oscillano tra dispersione ipomaniacale e depressione ipocondriaca, tra diniego e ipercontrollo ossessivo, tra paralisi e attivazione accelerata rappresentano bene il percorso zoppicante di cui stiamo parlando: ritengo che questa problematica sarà molto presente nei nostri studi di psicoterapia nel prossimo futuro. E ritengo altresì che la via prospettica rispetto a questa intensificazione consista nell’uscita dalla fantasia narcisistica onnipotente (sottesa sia alla franca euforia sia alle difese fobico-ossessive) e costantemente a rischio di riattivazione. Tuttavia, non intendo minimamente proporre, con ciò, un elogio della dimensione depressiva, tutt’altro. Semmai, intendo sottolineare che una dose omeopatica di ipomania è connaturata alla potenza e sostiene la progettualità, dose omeopatica che è dunque al servizio della realizzazione di sé ma che al contempo non può prescindere da un sano esame di realtà. Kohut e Winnicott, sia pure con accenti differenti, hanno sottolineato il valore dell’illusione  che si fonde con ciò che io ho definito “dose omeopatica di ipomania”): il narcisismo infantile è anche sede della creatività (il seno è anche creazione del bambino) e la grandiosità in analisi rappresenta il tentativo di creare opportunità evolutive fondamentali. Una sorta, talvolta, di nobilizzazione terapeutica dell’imago parentale idealizzata. Il rischio però rimane sempre quello di passare “da un regime nel quale l’illusione può essere una forza che alimenta la creatività a una dimensione nella quale vige il diniego dell’impossibile”. Come afferma Loewald (2002) l’elemento regolatore che gioca un ruolo fondamentale, al momento giusto, è l’esame di realtà come verifica esperienziale della fantasia. La dimensione eccitatoria basata sul diniego rientra invece nella alternanza onnipotenza-impotenza e svuota la tensione verso una effettiva emancipazione dai vincoli superegoici. In altre parole, potremmo dire che alla dispersione euforica può essere opposta non la austerità ma la sobrietà. E la sobrietà implica anche il piacere, di marca nettamente diversa dall’euforia ipomaniacale. Mentre euforia e depressione si possono soltanto opporre reciprocamente, sobrietà e consapevolezza si integrano e si accompagnano, arricchite da quella dose omeopatica di ipomania, di illusione, che consente di superare, prima nella fantasia e poi nella realtà, le difficoltà: come diceva Gramsci, bisogna mantenere “l’ottimismo della volontà e il pessimismo dell’intelligenza”.
 
di Gabriella Mariotti
 
Bibliografia
 
Aron L., Postmodernità. Quaderni de gli argonauti N°8, 2004.
Bauman Z., Modernità liquida, Ed. Laterza, 2002
Berman, M., L'esperienza della modernità, Il Mulino 1985
Cahn R. (1998) L’adolescente nella psicoanalisi. Borla 2000
Ehrenberg A., (1998) La fatica di essere se stessi. Depressione e società, Einaudi, 1999
Grunberg B., Il narcisismo. Laterza 1971
Jeammet P (1985) Psicopatologia dell’adolescente. Borla 1992
Loewald H. (2002) in Il modello relazionale. Dall'attaccamento all'intersoggettività Mitchell S., Raffaello Cortina.
Longo M., Uso e abuso della comunicazione digitale. Realtà   apparente e virtualità coinvolgente. In Quaderni de gli argonauti. N° 24, 2012
Lopez D., Zorzi L. Dal carattere alla persona. In Semi A., Trattato di Psicoanalisi 1989. Raffaello Cortina, Milano
Mariotti G., Cambiamento continuità e regressione, Gli argonauti n°103, 2004
Zucca Alessandrelli C. Dipendenza e Addiction. Quaderni de gli argonauti n°10, 2005
Petrella F., Occasioni di dialogo. Antigone, 2010

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