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Chi siamo noi consumatori e come possiamo recuperare soggettualità

9 Apr 16

A cura di Luigi D'Elia

 Consumatori di tutto il mondo, unitevi!
Proto-Karl Marx
 
Vi ricordate quando nel settembre 2013 l’imprenditore Guido Barilla rilasciò una dichiarazione-gaffe nella quale affermava che non avrebbe mai fatto spot con omosessuali? In quella circostanza molti consumatori e anche stakeholders in tutto il mondo presero posizione non già riguardo la qualità dei prodotti di quell’azienda, ma verso il “pensiero aziendale”, cioè riguardo la posizione politica relativa ad un tema sociale, rischiando di mandare a picco le vendite e la stabilità della stessa azienda. E dunque, uno sciame informale di consumatori si ritrovò improvvisamente aggregato contro un marchio che si era macchiato di una posizione ritenuta da esso eticamente e civilmente inaccettabile. Immediatamente dopo arrivarono le scuse (tra l’altro anche quelle un po’ goffe) del manager.

Bell’ebbrezza di potenza del popolo, pensarono alcuni osservatori, me compreso. Bella soddisfazione e bel cambiamento sarebbe immaginare che sia la massa dei consumatori ad orientare e determinare le scelte del mercato. Peccato che tutto ciò ha la grande probabilità di essere un’illusione ottica momentanea.
Sono già alcuni anni che penso che solo partendo dalla condizione di consumatori, intesa come condizione intrinseca e specifica cifra identitaria di questa contemporaneità, è possibile comprendere il presente e casomai incidere sul futuro del nostro mondo. Solo cioè scendendo fino in fondo a questa, per certi versi, indecorosa condizione, de-sogettualizzata, accettandone i suoi presupposti fondativi, che possiamo comprenderne l’essenza e quindi  provare a modificarne i connotati.

Cosa accadrebbe perciò, fantasticavo, se quello stesso sciame informe invece di rispondere caoticamente alle sollecitazioni, talora manipolatorie, dei media si fosse potuto organizzare come vero e proprio soggetto politico con suoi programmi e obiettivi?

Non mi riferisco qui semplicemente all’estemporaneo boicottaggio di merci atto a protestare o a colpire una linea politica di un paese o di un’azienda, già abbondantemente sperimentato in anni passati da gruppi di consenso.

E non mi riferisco nemmeno al noto associazionismo di consumatori atto alla difesa del potere di acquisto o della qualità di prodotti e servizi oppure allo sviluppo del consumo critico.

E nemmeno al culture jamming minoritario che in molti i paesi occidentali tenta esperienze anche innovative di coscienza politica proprio a partire dal consumismo e dall’attacco al mainstream mediatico delle corporations.

No, assolutamente nulla di tutto questo.

Se si volesse produrre un cambiamento profondo e duraturo nella cristallizzazione delle attuali dinamiche socio-economiche, tutte queste esperienze nell’era del web e del salto di qualità che esso rappresenta, appaiono ancora come localistiche, parziali e talora (come nel caso dell’associazionismo di consumatori) come riflessi condizionati ancora troppo interni alle logiche dell’economia e delle sue crisi endemiche.
Se quindi volessimo utilizzare il consumo come punto di leva realmente trasformativo si dovrebbe a mio parere provare a partire da ciò che esiste e provare a porre alcune premesse ideologiche e metodologiche che occorre dare come acquisite (pena la fuga dalla realtà) e che proverò qui in breve a riassumere:

a)      Fine della dialettica produttore/consumatore. Da quando l’economia politica dallo scorso secolo in poi ha solennemente affidato al consumatore il compito di incrementare il proprio benessere attraverso il consumo e da quando il consumatore è diventato poi anche merce-audience, il consumatore è egli stesso diventato produttore e merce e il confine dialettico tra chi produce e chi consuma, tra prodotto e consumatore, s’è annullato e con esso si è annullata la possibilità di modificare dal basso il sistema produttivo.
b)     L’identità sociale di consumatore. Il processo di interiorizzazione dei codici di sistema consumistici sui quali si fonda l’identità del tipo d’uomo contemporaneo occidentale viene da lontano ed è ormai già sedimentato, compiuto e, seppure prodotto di soli alcuni decenni di coltivazione, piuttosto inspessito. Tale identità sociale ha soppiantato le vecchie identità svuotandole e innestandosi come quella prevalente.
c)      Il contratto sociale in quanto consumatori. Il contratto sociale individuo-stato, individuo-società viene riscritto sul comportamento di reciproco equilibrio tra stile di vita consumistico del singolo cittadino e società. Ma fondandosi su un’etica utilitaristica di profitto non contempla più l’idea di un bene comune. Non solo: essendo l’esito di un processo identitario d’interiorizzazione è in larga misura sotto-soglia, subdolo, non accessibile direttamente e immediatamente alla coscienza.
d)     La nuova cittadinanza in quanto consumatori. Di conseguenza anche l’idea di cittadinanza e i valori civici ad essa connessa vanno progressivamente svuotandosi e riempiti di altri contenuti legati all’identità consumista: il bene del paese è direttamente legato alla propensione al consumo dei suoi cittadini la cui cittadinanza viene ridefinita da esso.

Qualcuno storcerà il naso pensandosi ridotto da queste premesse a mero consumatore magari partendo da un’idea di sé leggermente più gloriosa, ad esempio, come uomo vitruviano al centro di un progetto cosmico o al limite come soggetto evoluto e punto di arrivo della democrazia occidentale figlio delle battaglie culturali che procedono dall’era moderna in poi, ma occorre scendere a patti con la realtà e diventare pragmatici. Risulta infatti ridicolo e fastidioso allo stesso tempo ascoltare la retorica finta di certi politici che a tutti i livelli accampano la pretesa di una politica che riprenda le redini della situazione e cominci a dettare le proprie regole e una nuova etica del bene comune alla finanza. Niente di più estraniante e lontano dalla realtà alla luce di queste premesse.

Nel mio lavoro di psicoterapeuta ho imparato presto il valore del giudizioso motto “il meglio è nemico del bene” e gli obiettivi di cambiamento nei tempi talora lunghi si devono spesso posporre sullo sfondo e lì mantenuti a lungo prima che gli individui possano permettersi (talora in coincidenza di fatti della vita che obbligano a cambiare più che per vere e proprie scelte) di ripescarli spontaneamente e renderli realizzabili.
Ugualmente partire dalla realtà di quello che siamo diventati incorporando identità, contratto sociale e cittadinanza in quanto consumatori è la naturale premessa per ogni azione che voglia dirsi trasformativa.

Occorre maturare la consapevolezza che per invertire la sudditanza sistemica della politica al bio-capitalismo, o forse per meglio dire al capitalismo biopolitico (o psicopolitico, come direbbe il filosofo Byung-Chul Han) di questi tempi occorra sapere, senza piagnistei e nostalgie, chi siamo diventati e perché e da lì ripartire con le regole e i codici che si hanno a disposizione. Regole e codici che sono quelli laici dell’economia, non quelli della religione, della sociologia, della psicoanalisi, della spiritualità e della morale, nemmeno quelli della coscienza etico-politica laica ed ecologica.

L’economia finanziaria che domina la politica funziona con pochissimi e semplicissimi codici motivazionali che sono quelli, sostanzialmente antisociali e predatori, del profitto e dell’utilità-interesse personale. Limitarsi ad alzare bandiere di superiorità etica o di giustizia o diritto, o ancora di un astratto bene comune per contrastare l’indiscussa supremazia della finanza sulla politica è inutile e ingenua operazione autoindulgente. Occorre imparare ad affrontare la finanza con le stesse sue armi: profitto e utilità personali devono diventare dei boomerang che tornano indietro dai consumatori.

Come? Ad esempio (ma è solo un esempio) organizzando grazie all’azione virale del web astensioni di massa mirate e prolungate di acquisto di beni e servizi all’interno di un preciso programma di azione politica e non solo di azione comunicativa. Il mercato svuotato di consumatori di fatto non esiste. Abbandonare il mondo-mercato e lasciarlo spoglio nella sua propria miseria, senza rinunciare ai beni, ma riformulandoli all’interno di una nuova cornice di senso che ne definisce utilità e qualità.

Ecco, il mio giro sulla giostra-rivoluzione è finito. Ora scendo.
 

 

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