Abbiamo appreso dalla stampa che Papa Francesco in gioventù è andato nello studio di un’ analista, traendone beneficio. In Argentina la consultazione psicoanalitica è pratica assai diffusa e radicata nel costume sociale. Chiunque si occupi di psicoanalisi non può che sentirsi rinfrancato da questa dichiarazione. È infatti alquanto positivo constatare come la fede e la disciplina dell’inconscio siano istanze non confliggenti, se ciascuna si mostra capace di tenere il proprio posto. n Qual è il peso della fede nel percorso di vita dei pazienti che vanno da un analista?
Mi è capitato più volte di incontrare Dio nel mio studio. Il Dio riportato nelle parole, nelle preghiere, nei sogni, nelle imprecazioni degli analizzanti sul lettino. Molti di essi adducevano più di un motivo per invocarlo, ringraziarlo, oppure maledirlo. Chi per la nascita di un bambino con gravi problematiche fisiche, chi per il lavoro perso, chi invece per un matrimonio spezzato. Altri per la salute andata in fumo, di colpo, dopo una diagnosi infausta. Altri ancora invece attribuivano all’onnipotente il felice incontro con l’anima gemella, o la riuscita di una delicata operazione. Ho sentito nel corso di questi anni narrare di un Dio che si manifesta per la sua immanenza e ineluttabilità, o per la sua assenza.
Ho sempre trovato una differenza sostanziale nella capacità di assorbire i colpi della vita da parte degli appartenenti ai due estremi della linea del credo: gli atei radicali, coloro i quali hanno sempre fatto a meno di un Dio, e i fedeli convinti della sua presenza, non sempre benevola si badi, ma proprio per questo indubitabile.
Gli appartenenti al primo gruppo sono naturalmente dotati di una fede incrollabile nell’uomo, nelle sue virtù razionali, e al contempo armati di una immensa riserva di cinismo, lunga quanto la vita intera, devoti all’idea che l’uomo contenga in sé la capacità di sopportare ogni fardello che il tempo gli riservi, senza dover chiedere aiuto o sostegno a qualcosa che non sia razionalmente spiegabile. Molti di essi hanno subito colpi tremendi dalla sorte, a volte letali. Nel loro sentire ciò fa parte dell’infinito gioco delle possibilità al quale si è esposti quando si viene al mondo. ‘Va così, dottore, perché questo doveva esser.
La mia vita ha perso ogni prospettiva’ mi disse tempo fa un uomo che vide decimata la sua famiglia in un incidente stradale. Sono soggetti alle sferzate della depressione, alle cadute del tono dell’umore, all’angoscia che riconoscono come elemento umano essenziale. Assumono lo psicofarmaco senza credere alla risoluzione chimica del loro tormento, ma lo sanno usare come stampella per andare dall’analista. Desiderano a volte farla finita, senza troppe lamentele, ma con lucida presa d’atto che la benzina della loro anima è terminata. Nell’analista non cercano un confessore, né una figura consolatoria, ma un lucido testimone dello stallo della loro esistenza assieme al quale esplorare la ricerca di un'altra possibilità di vita.
L’impossibile appello ad un’entità trascendente li priva di qualsiasi giaculatoria. Non chiamano in causa la sorte, le avversità. Sanno di non scontare il fio di alcun peccato, perché al peccato non credono. Ma credono alla colpa. Sono i protagonisti assoluti della loro vita, nel bene e nel male. Se compiono atti estremi, come ad esempio il suicidio, difficilmente lasciano testamenti accusatori contro questo o quello. Sanno di essere portatori di un rischio esistenziale congenito, e se ne assumono ogni responsabilità.
All’estremo opposto stanno invece i credenti convinti. La loro fede incrollabile è il sinthomo che permette loro di sopportare vite durissime, a testa alta, perché certi di essere solo di passaggio, destinati a rendere conto ad un alterità tutta da guadagnare. Per costoro il senso del peccato frena considerevolmente gli intenti suicidari. Ho accolto in studio persone alle quali restavano pochi mesi di vita, pacificate perché certe di ricongiungersi ai propri cari. Ho parlato con uomini che hanno perso in poco tempo lavoro e famiglia, senza mai perdere la fede in un Dio, nel cui progetto si sentono inglobati. Un Dio dai disegni imperscrutabili, dei quali loro sanno di essere piccole pedine lanciate sul tappeto. A Dio piacendo si vive e si muore, ci si ammala, ci si innamora, certi che in un aldilà le trame che li hanno guidati saranno rischiarate. Portano in studio una fede non negoziabile, ma riconoscono la natura umana dei loro conflitti, delle loro nevrosi.
In entrambi i casi, l’assenza e la presenza di un Dio, costituiscono un atto di fede. Più critica invece la condizione nella quale la fede religiosa addobba la stanza dell’analista, quando cioè questi due tipologie di pazienti trovano Dio già installato nello studio del loro terapeuta. Lo psicoanalista, nella sua funzione, non può indossare abiti confessionali. Questo non intacca minimamente la fede personale, i convincimenti religiosi o, piu’ banalmente, l’appartenenza ad una chiesa come può essere quella cattolica o protestante. Tanti miei validi colleghi sono credenti. In quanto uomo egli può tutto quello che la legge gli permette, come analista no.
Quel limite tra umano e professionale, che solca e sigilla gli elementi controtransferali, deve continuamente essere messo alla prova e verificato, pena uno sconfinamento che proietta una luce diversa su quella zona umbratile che l’analista occupa. Se colorata di afflato religioso, perde quell’opacità che permette al dispositivo di funzionare.
Ho sentito professionisti dichiarare di aver riscoperto un senso religioso nel momento in cui sono diventati genitori, scorgendo il dono di Dio nella capacità di procreare. Non posso non domandarmi cosa possano pensare gli analizzanti nel leggere queste dichiarazioni di fede. Penso alla sorte di una paziente che figli non ne ha potuti avere. Penso a tutti quegli uomini e donne che per giungere alla genitorialità, debbono inerpicarsi sulle aspre e costose vette dell’inseminazione artificiale. Mi chiedo come possano serenamente sedersi sul lettino di chi considera la possibilità di avere un figlio un regalo divino. Come possano non entrare dalla porta del ‘peccato’ quelle analizzanti che, pur dedicando la propria vita alla ricerca della maternità, sentono il peso di un arcaica distinzione del mondo in meritevoli della grazie e non che sovrasta le loro sedute.
Non so, per questioni personali e professionali, questo Dio appeso in studio, non mi convince. Il lavoro di analista, si sa, mette in tensione le proprie questioni ogni giorno con la vita di altri essere umani. Il raffronto è inevitabile, il lavoro per non lasciare trabordare il controtransfert è un impegno quotidiano. Ed’è per questo motivo che, quando mia figlia è nata, non mi sono sentito né scelto, né unto dal divino, né ho percepito il manifestarsi di una qualche misericordia personale. Troppe storie storte, troppe fatalità, troppi desideri di paternità o maternità divenuti anticamera del buio ho visto in questi lunghi anni, per non trovare la capacità logica e razionale di ficcarmi nel gran calderone statistico di quelli che, semplicemente, hanno avuto fortuna. Non mi è passato per un solo attimo in mente l’idea di convocare Dio, che avrebbe scelto me, e si sarebbe dimenticato di tutte le madri e padri sventurati visti in seduta. Troppo facile, troppo banale.
Ho toccato con mano la sofferenza pura ed indicibile del melanconico. Il desiderio di fine vita dello psicotico che perde progressivamente la forza di lottare contro le visioni notturne. Ho aperto la porta alla madre che ha perso il figlio, al figlio che ha perso l’intera famiglia.
Ed è proprio osservando le loro vite che ho imparato che è a loro che si deve chiedere se Dio esiste.
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