Anders Breivik –il folle pluriomicida norvegese- sta scontando la sua pena detentiva. Recentemente, una giudice del distretto di Oslo ha stabilito che i suoi diritti sono stati violati durante la detenzione.
La sentenza ha fatto scalpore: quanta premura per un mostro crudele!
Nick Kohen, opinionista del “Guardian”, ha scritto in un articolo, intitolato “I diritti umani non stanno mai in piedi da soli”, che tali diritti sono invenzione dell’illuminismo e devono coesistere con la democrazia. Si reggono sul consenso dell’opinione pubblica, che deve essere persuasa. Specialmente in tempi di populismo alimentato dalla crisi dei profughi.
La combinazione del realismo politico con il relativismo etico nel discorso di Kohen, è segno della confusione che regna nel nostro modo di intendere la giustizia e, di conseguenza, la democrazia.
Il consenso è condizione necessaria della democrazia che, tuttavia, diventa sufficiente solo in presenza della giustizia: l’ugual diritto dei cittadini di realizzare il loro modo di vivere secondo le loro potenzialità e le loro inclinazioni.
La giustizia è protetta dal consenso, ma non deriva da esso: essendo il fondamento della condizione umana, la parità di tutti sul piano del desiderio non si decide per votazione.
È il grado di uguaglianza dei cittadini all’interno della Polis che decide della possibilità della maggioranza (necessariamente variabile) di rappresentarli tutti nella gestione dell’interesse comune.
Conseguentemente, la gestione del conflitto politico attraverso il suffragio universale è tanto più democratica quanto più aspira all’uguaglianza. Nella direzione opposta, più si allontana dall’uguaglianza, più il consenso maggioritario diventa strumento di conformazione di tutti a un principio totalitario.
Sfortunatamente (ma non incomprensibilmente) nell’esperienza reale la validità del principio di uguaglianza è confermata più da esempi negativi che da esempi positivi.
La dissuasione prodotta delle catastrofi a cui conduce la violazione del principio della fraternità umana, è più forte della persuasione derivante dalle situazioni di prosperità che il suo rispetto garantisce.
Di conseguenza l’amministrazione della giustizia si fonda eticamente sulla punizione dell’infrazione del diritto dell’altro e non sulla premiazione del suo riconoscimento.
Ciò che è punito è l’hubris: l’espandersi in modo disordinato, arrogante del proprio spazio senza alcuna preoccupazione per lo spazio dell’altro.
La punizione è proporzionata al grado di intenzionalità e non a quella del danno, perché deve sancire, di fronte ai capaci di intenderlo, il principio di inviolabilità di un limite e non essere usata come vendetta.
Tuttavia, in ogni misfatto intenzionale il danno provocato aumenta proporzionatamente alla sua componente di preterintenzionalità: l’intenzionalità di danneggiare che supera la capacità di intendere l’entità del danno.
L’hubris vera e propria è questa e la punizione assume qui il suo significato catartico: “Per te, capace e, al tempo stesso, non capace di intendere (ora o per sempre), e per tutti noi che ci vogliamo capaci, valga l’inammissibilità assoluta del fatto da te compiuto; chiunque lo compia sarà duramente sanzionato”.
La sanzione ripristina un limite invalicabile.
E per questo non può a sua volta valicarlo.
Ragion per cui, una volta punito secondo legge per la sua intenzionalità/preterintenzionalità e non per l’entità del danno, Breivik non può essere discriminato nei suoi diritti di detenuto. È improbabile che questo serva a restituirgli la sua umanità.
Ma serve a noi per conservare la nostra.
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