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Curare il collettivo. Seconda parte

22 Mag 16

A cura di antonello.sciacchi16

Ovvero “Freudiani coraggiosi”

Provai a chiamarla metaanalisi ma gli dei presenti al battesimo non furono propizi. Cosa avevo in mente? Come sa chi ha letto il primo post di questa rubrica, provengo dalla statistica medica. In statistica la metaanalisi ha un significato ben preciso. Significa confrontare i risultati di esperimenti simili ma eseguiti in luoghi diversi, depurarli dalla variabilità locale e stabilire il confronto sperimentale, per esempio tra due terapie, su basi più ampie e più sicure. La metaanalisi statistica è una sorta di collettivizzazione e generalizzazione dei risultati.
Nel mio caso, secondo la terminologia del post precedente, si trattava di passare in psicanalisi dall’esperienza “clinica” del singolo a quella “metanaalitica” del collettivo ma senza adottare le prospettive identificatorie, implicitamente religiose e settarie, che inquinano il pensiero di Freud. Ovviamente, non disponendo la psicanalisi di metodologie statistiche consolidate, si trattava anche di inventare i criteri di analisi “metaanalitici”. Come si confrontano i percorsi analitici di due soggetti con punti di partenza e di arrivo diversi? Come si stabilisce il risultato terapeutico, ammesso ma non concesso che la psicanalisi sia una terapia medica? Il problema non sembrava banale ma, per motivi che in gran parte mi sfuggono ancora, non attrasse l’interesse dei colleghi. Discorso chiuso, allora?
Forse bisogna risalire a monte, come dicevamo quando eravamo giovani.
Poiché il tema di questi ultimi post è la cura del collettivo, bisogna quasi di necessità ammettere che nel collettivo psicanalitico possa localizzarsi una malattia. Non affronto di buon grado questo argomento perché temo mi porti automaticamente a medicalizzare il discorso. Esiste una malattia “psicosomatica” nei collettivi? Non posso sfuggire alla presa dell’esperienza e devo ammettere a malincuore che sì: esiste una malattia del collettivo. È una malattia non medica: si chiama ideologia.
Per non appesantire il discorso, lo giro nell’aneddotico. Eravamo in Galleria a Milano: io, il mio amico di Milano con cui avevo fondato un’associazione psicanalitica (che durò pochi anni) e una mia amica di Roma, forse poco più che amica. Tornavamo dall’incontro alla libreria Feltrinelli di via Manzoni che l’associazione teneva mensilmente. A un certo punto i due amici imbastirono una serratissima discussione sull’angoscia di castrazione. Il tema era il trilemma lacaniano ben noto agli addetti ai lavori: privazione (reale), castrazione (simbolica) e frustrazione (immaginaria). Presto il discorso divenne così tecnico, specialistico e gergale che io stesso non riuscivo più a seguire i miei amici. Si dice che Lacan è difficile da capire; io ho sempre trovato più incomprensibili i lacaniani. Comunque, anche volendo, non riuscirei a riportare i dettagli di quella poco proficua e ancor meno chiarificatrice discussione. Chi volesse rendersi conto dello stile criptico di discussione vigente nelle scuole di psicanalisi basta che acceda a uno dei tanti social dove gli psicanalisti espongono il loro sapere. Fossi un professore che giudica i temi di italiano della scolaresca…
Parlavo prima di patologia e lo confermo. Nelle dottrine che le scuole di psicanalisi picchiano in testa ai giovani analisti in formazione deve celarsi un qualche “agente morboso” in grado di devastare le migliori intelligenze. Una volta formato, l’allievo non ragiona più come prima: ha perso il buon senso e l’uso della logica elementare, addirittura quella booleana con cui anche i computer, che non sono certo intelligenti, si intendono tra loro. Alla fine il poveretto è praticamente imbozzolato in un certo numero di ismi e frasi fatte che ripete ritualisticamente senza la minima critica e senza riguardo per il contesto. In francese c’è una bella espressione per definire questo modo di parlare esoterico: si dice che si parla con langue de bois, o lingua di legno dal suono sordo.
Tanto va detto per la retorica del discorso. Discorso più impegnativo va fatto, però, per il contenuto. Ogni scuola ha il suo, che in genere è un sottoinsieme del discorso originale del maestro, da cui la singola scuola si è separata per qualche singolare e futile idiosincrasia. Ormai sono uno dei pochi lacaniani sopravvissuti alla conoscenza di Lacan. Nutro ancora qualche debole pretesa per dirmi lacaniano, nonostante le molte e radicali critiche non al pensiero, che continuo ad ammirare, ma alla sistemazione filosofica (logocentrica) che Lacan ne ha dato. (Molti miei colleghi della prima ora, invece, hanno chiuso la partita con il maestro). Ho attraversato diverse scuole lacaniane italiane e francesi. Posso dire che nessuna ha conservato “tutto” dell’insegnamento di Lacan, pur pretendendo ciascuna di essere la vera scuola ortodossa. Ognuna è specializzata in una particolare versione del lacanismo, quella prescelta dal direttorio della scuola, formato da un clan di presbiteri.
Stupisce che la mia metaanalisi non abbia attecchito? Se la metaanalisi fosse la cura della patologia (autistica) dei collettivi di psicanalisi, direi con Freud che quei soggetti resistono alla cura metaanalitica; sentenzierei: reazione terapeutica negativa.
Ma devo finalmente dire in positivo cosa intendo per metaanalisi.
* * *
Per la formazione scientifica non c’è bisogno di scuole; c’è bisogno di collettivi di pensiero, dove prenda corpo il lavoro – stavo per dire, la dialettica – di corroborazione (mai di conferma!) delle congetture pertinenti e di confutazione di quelle “impertinenti”. Il Denkstil scientifico non è altro che un insieme di operazioni miranti ad aumentare la fiducia (confidence) in certe congetture (la loro corroborazione) o ad arrivare alla loro definitiva eliminazione. In campo scientifico le scuole servono solo da luoghi di aggiornamento; istruiscono i giovani sulle congetture correnti e li immettono nel gioco di corroborazione / correzione / confutazione. E poi ci pensino loro a smontare le vecchie congetture o a proporne di nuove che rilancino il gioco.
L’intero processo di sviluppo di un collettivo di pensiero scientifico è autopoietico e autoregolamentato; sta fuori da ogni controllo del potere costituito ed è praticamente democratico. Democratico, poi, vuol dire che è al servizio di tutti e non promuove la carriera di qualche guru, che ha ipnotizzato qualche piccola massa. Democratico, infine, vuol dire stare alla larga dai tecnicismi. Con collettivo di metaanalisi intendevo un organismo del genere, che avesse a tema non la fisica, non la biologia, ma la psicanalisi, con la particolare preoccupazione di non ridurre la psicanalisi né a fisica né a biologia.
Questo punto è importante e delicato, nonché difficile da recepire per il buon senso fondato su pregiudizi giuridici. Nella scienza non esistono né albi professionali né leggi che regolino l’esercizio della professione, come in Italia esiste la legge 56/89 per l’esercizio della psicoterapia. La scienza non è garantita da autorità metascientifiche; la scienza si fa come si può, senza certezze a priori e, se resiste alle confutazioni degli operatori, continuerà a farsi; ma, se non la si confuta, decade automaticamente da sola per isterilimento concettuale. Questo sta succedendo alla psicanalisi ortodossa, che si impoverisce in due modi eguali e contrari: o si diffonde come luoghi comuni massificati o si concentra in particolarissime dottrine esoteriche per pochi affiliati.
In ottica scientifica, trasposto il discorso sul piano psicanalitico, arrivo a dire che per la formazione dello psicanalista scientifico non sarebbe strettamente necessaria l’analisi personale. So bene di enunciare una pura eresia per ortodossi e per… eretici. Invoco il granellino di sale. Sto parlando per paradosso per rendere più chiaro il mio pensiero. L’analisi personale è comunque raccomandabile, a patto che non sia un’analisi standardizzata; non sia, cioè, il momento di conformazione a una forma di pensiero precostituita e stereotipata – che segnerebbe la fine del gioco scientifico. L’analisi personale dovrebbe inaugurare la fase iniziale di un gioco dialettico all’interno di una comunità scientifica, che si dedichi a far avanzare verità psicanalitiche non dogmatiche, magari ancora in fase congetturale, tutte da dimostrare… se esistesse la possibilità di giocare il gioco. Perciò le analisi non terapeutiche potrebbero essere ragionevolmente brevi. Durerebbero il tempo necessario perché il giovane ricercatore sperimenti, attraverso il falso amore di transfert, l’esistenza di un sapere che non sapeva di sapere, l’inconscio – magari riconoscendone l’esistenza proprio grazie alla propria resistenza a riconoscerne l’esistenza.
Io la chiamo metaanalisi. Date le premesse, forse non è difficile recepire cosa intendo.
L’analisi personale del soggetto individuale dovrebbe concludersi, transitando verso l’analisi del soggetto collettivo. Il prolungamento dell’analisi in metaanalisi sarebbe analisi collettiva dell’analisi che analizza sé stessa, in particolare analizzando l’analisi individuale che ha portato il singolo analizzante a “decidere” autonomamente di ritenersi formato come analista. La metaanalisi è l’analisi della propria formazione analitica – ho appreso dalla mia analista Muriel Drazien.  Detto a modo mio, la metaanalisi comincia quando il collettivo di pensiero psicanalitico diventa esso stesso “analizzante”, magari tentando di promuovere la transizione della psicanalisi verso una qualche forma di discorso scientifico a prova di confutazioni. Detto alla Freud, la metaanalisi sarebbe l’analisi infinita, che si instaura una volta che è finita l’analisi terapeutica. (Analisi finita e infinita è la traduzione corretta del titolo del saggio freudiano, di cui la traduzione in molte lingue europee suona sinistramente: Analisi terminabile e interminabile.)
Non è come dire, però. La metaanalisi deve fare i conti con l’esperienza clinica della resistenza al sapere, che in metaanalisi da resistenza individuale si amplifica a collettiva. Il problema dovrebbe essere noto a chi ha imparato qualcosa da Lacan. Non tanto paradossalmente la resistenza del soggetto ad acquisire il sapere inconscio si sostiene sulla resistenza dell’analista, nel caso in questione sulla dottrina cui l’analista si è sin da giovane conformato e a cui si attiene rigidamente per ragioni professionali. Nella misura in cui la sua dottrina è blindata rispetto a ogni modifica da parte dell’esperienza, l’analista fa da sparring partner compiacente alle resistenze dell’analizzante nella lotta contro il nuovo, che dalla rimozione originaria tenta di farsi strada verso la coscienza. Il processo si amplia e si consolida a livello collettivo, dove le resistenze dei singoli analisti si sostengono e si rinforzano a vicenda nelle conferme che ognuno trova nel compagno di “religione”.  Allora, all’uscita dall’analisi individuale, il giovane analista si trova immerso in un bagno di resistenze collettive che si sommano a quelle acquisite durante la propria analisi. Il risultato è il conformismo psicanalitico, che assicura la sopravvivenza degli standard di scuola e della scuola.
Devo aggiungere una precisazione, che potrebbe essere gradita al lacaniano: la metaanalisi non è al di là dell’analisi, come il metalinguaggio che parla del linguaggio non è (molto) al di là del linguaggio. La metaanalisi, allora, è l’analisi stessa che “non può se non avanzarsi”, come la scienza galileiana. La formazione psicanalitica non è altro che l’acquisizione del livello metaanalitico: la pratica della critica della propria pratica analitica. E, siccome l’autocritica del singolo è meno credibile, essendo sempre interessata al mantenimento del sintomo individuale, è meglio che la metaanalisi avvenga in collettivi di pensiero psicanalitico. Con questo termine non intendo necessariamente delle scuole; intendo istituzioni costituite in modo non rigido, aperte alle innovazioni e disposte ad abbandonare i vecchi pregiudizi dottrinari, sulla cui base magari si sono inizialmente costituite; intendo luoghi dove praticare l’innocenza ed esercitare l’ingenuità, non contro ma fuori dagli schemi stabiliti e ricevuti; nel caso della psicanalisi freudiana: l’edipo, la castrazione, l’invidia del pene, le pulsioni, la termodinamica della libido ecc., cioè quasi tutto.
Tuttavia, segnalo una difficoltà specifica della transizione dalla psicanalisi alla metaanalisi. Finché la psicanalisi sarà concepita come cura medica individuale, cioè come psicoterapia finalizzata al ripristino dello stato pre-morboso, saranno minime le chance che la psicanalisi evolva verso qualche forma scientifica sotto controllo collettivo. Le procedure di ripristino individuale dello stato pre-morboso saranno automaticamente fissate da qualche ministero della salute, che con la scienza ha tanto poco a che fare quanto la polizia scientifica con la biochimica del DNA e difficilmente potranno entrare nel circuito della corroborazione-confutazione.
Di metaanalisi parlo nel mio ultimo libro,  che sviluppa l’approccio intuizionista alla logica della psicanalisi in parallelo all’approccio topologico.  La mia metaanalisi corrisponde concettualmente all’analisi personale di Freud (Eigenanalyse) più che alla sua autoanalisi (Selbstanalyse); la traduce a patto di “tradurre” o “trasferire” il soggetto individuale nel soggetto collettivo. La metaanalisi è autoanalisi personale e collettiva nel senso di analisi che si fa con l’analisi e sull’analisi insieme ad altri che hanno fatto analoga esperienza. Insomma, nella metaanalisi, come nell’analisi individuale, è in atto un transfert. Con una differenza: invece che dal passato al presente del soggetto individuale, il trasferimento, che è sempre trasferimento di sapere, come insegna la clinica individuale, trasferisce del sapere dall’individuale al collettivo.
Non ho ancora trovato un nome adatto per un collettivo di pensiero metaanalitico. Ringrazio Renato Moglia per averne suggerito uno spiritoso. Perché non chiamarlo "Freudiani coraggiosi"?
Concludendo, direi seriamente che la metaanalisi è l’analisi di controllo dell’analisi, ma non nel senso di adeguamento a qualche norma professionale prestabilita, che il singolo operatore è tenuto a rispettare, applicandola ad altri individui, bensì nel senso della promozione dell’analisi stessa. Si controlla che l’analisi non si arresti in qualche pozza ideologica o in qualche pratica dottrinaria stabilita in modo autoritario. Si fa metaanalisi nei collettivi di pensiero psicanalitico (se e quando esisteranno), come si fa metamatematica nei collettivi di pensiero matematico, che non sono scuole ma luoghi di esercitazione matematica. Non basta, infatti, essere intelligenti per “capire” la matematica; addirittura a volte non basta essere “esperti”. Ci vogliono tanti esercizi pratici e un’assidua correzione collettiva per passare, per esempio dalla geometria euclidea alla non euclidea. E ci volle una buona dose di coraggio, che per esempio il sommo Gauss non ebbe; tenne nel cassetto i teoremi non euclidei, temendo di sollevare “le grida dei Beoti” (leggi kantiani).
Concludo riconoscendo il mio debito. Devo questi pensieri più inconsueti che innovativi all’introduzione dell’infinito nell’ambito del pensiero psicanalitico. Ma dell’oggetto infinito del desiderio parlerò diffusamente in seguito.

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