Erika Rocha, una donna di 35 anni, si è uccisa in una prigione della California dove era detenuta, il giorno prima dell’udienza per la libertà condizionata. Era appena uscita dal suo ennesimo isolamento in una cella suicidio-resistente (“suicide watch”). Colpevole di tentato omicidio, in una sparatoria avvenuta quando aveva 14 anni, era stata trattata come adulta e condannata a una pena che poteva durare da 19 anni fino a tutta la vita (a seconda del suo comportamento durante la detenzione). Incarcerata all’età di 16 anni, in una prigione per adulte, era rimasta in isolamento fino a quando ha compiuto 18 anni, per essere protetta dalle altre detenute più grandi d’età. Secondo sua sorella aveva bisogno d’aiuto e non che le si dicesse: “Stai sola in una stanza e può darsi che ti passa”.
Se una persona si deprime in carcere in modo da perdere il senso della sua esistenza, allora non è in grado di reggere la punizione ricevuta e di conseguenza la condanna eccede i suoi limiti prestabiliti, diventa, di fatto, ingiusta. Bisognerebbe prendere in considerazione, accanto alla capacità di intendere e di volere, anche la capacità di reggere la pena. La diagnosi può essere difficile in via preventiva, ma durante il periodo di detenzione, con il senno di poi, è molto più accessibile.
Ignorando il “fattore umano”, la pena detentiva di Erika (già eccessiva) è stata tramutata in pena di morte. A deciderlo non è stato un giudice che agisce in nome di un popolo: una correlazione necessaria, senza la quale l’amministrazione della giustizia è una farsa e quindi sfocia in una tragedia. È stata, invece, la “mentalità collettiva”, un modo di pensare anonimo, tradotto sul piano politico con il termine di “maggioranza silenziosa”.
La “mentalità collettiva” è un funzionamento gruppale, basato su assunti primitivi impersonali, corrispondenti all’atteggiamento dell’essere umano quando agisce secondo l’esigenza di un equilibrio omeostatico, fondato sulla scarica delle tensioni. Poiché ha un potere semplificante, che fa dello spirito sbrigativo la via d’uscita da ogni incertezza, e poiché in ogni essere umano alberga un nucleo di impulsività, è estremamente contagiante e conquista “consenso” con grande rapidità.
La “maggioranza silenziosa” agisce nelle urne come principio dissolutivo che si impadronisce della democrazia sul piano formale e ne annulla il significato. Il popolo è, invece, un funzionamento collettivo che si nutre dei contributi e delle espressioni personali e coniuga cultura e lavoro: un modo di desiderare, sentire e pensare che tiene conto delle differenze, delle contraddizioni e degli scambi e consente l’appropriazione costruttiva della realtà.
È molto grave che di fronte all’incertezza tra la condanna di chi ha sbagliato violando le leggi della comunità e l’evidenza di un eccesso di punizione, che viola ugualmente l’interesse comune, si abbandona la responsabilità del giusto travaglio, che interroga la fondatezza del nostro giudizio. Per affidarsi all’inerzia e all’indifferenza e passare dal piano etico al piano dello scrupolo morale in cui la cosa importante è negare la nostra insensibilità (il rifiuto dei sentimenti e dei pensieri scomodi).
Trasformare il diritto alla vita in un impedimento del suicidio, è soltanto un riconoscimento indiretto della nostra impotenza ad accogliere la disperazione (prodotto di un lutto difficile) ed elaborarla. L’ammissione in forma di negazione (il fondamento di un cinismo che si veste di ipocrisia) che non sappiamo interrogare il dolore, che interpretiamo il vivere come sopravvivenza pura, come non morire.
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