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NELL’AREA GRIGIA TRA MEDICINA E GIUSTIZIA, STA LA PERSONA. Pensieri sulla questione OPG, di ritorno da Pontignano. Parte I: Il bianco e il nero.

2 Giu 16

A cura di Paolo F. Peloso

Son bianco e nero sol colori, 
o facce ambigue della tua prigione?
F. Guccini, Canzone di notte, 1971
 

 
Premessa. Gli operatori della giustizia vestono di nero, quelli della sanità di bianco; lo stacco cromatico tra i due mondi non potrebbe essere più netto e ad esso corrisponde uno stacco nei metodi, negli obiettivi, nel mandato sociale e, almeno per quanto riguarda l’Italia, a volte anche nel vissuto del proprio rapporto col Potere. Pure, capita sempre più spesso che gli uni e gli altri debbano occuparsi delle stesse persone. Riordinando, a quasi un mese di distanza, gli appunti presi in occasione della Conferenza internazionale “Il superamento dell’OPG: recenti progressi nell’attuazione di nuove misure di riforma“ organizzato da Giovanni Battista e Simona Traverso, che ringrazio ancora per l’invito, alla Certosa di Pontignano presso Siena il 6 maggio, questo stacco cromatico sul quale J. Steven Lamberti ha richiamato l’attenzione è una delle due immagini che mi hanno più fatto riflettere. L’altra è quella del tavolo rettangolare, mostrato da un altro psichiatra forense del Rochester Medical Center (USA), Robert L. Weisman, ai cui lati siedono operatori della giustizia e della sanità. Sono  gli operatori a diverso titolo coinvolti nella presa in carico dell’autore di reato con problemi psichiatrici seguito sul territorio sul quale stanno insieme ragionando: giudice, pubblico ministero, periti, avvocati e personale clinico. Roberto Catanesi, nelle ultime battute della conferenza, ha richiamato l’importanza di questa immagine, esprimendo il desiderio di vedere, un giorno, una scena simile in Italia: persone reali, che discutono pragmaticamente di un’altra persona reale nella sua dimensione storica, concreta. Credo che sia stato proprio per questo che la conferenza è stata organizzata: cogliere dalle macerie dell’OPG una sfida all’incontro, alla contaminazione, alla sperimentazione di soluzioni nuove che al momento sembrano molto lontane.
D’altra parte, non è la prima volta che sento formulare l’esigenza di un più diretto – meno astratto – rapporto tra il giudice, lo psichiatra e il reo nel dibattito italiano. Risale ormai al 1988, quasi trent’anni fa, un passaggio di Franco Rotelli richiamando il quale mi è capitato spesso di concludere il ragionamento sui diversi aspetti della presa in carico psichiatrica del soggetto autore di reato:
 
«Far sì che, curvandosi su una tale vittima giunta così lontano nella sua umana esperienza, il medico e il magistrato si considerino come davanti ad un silenzio assoluto, ad una totale assenza di opera, di cui avere appunto «pietà» e allora moltiplicare le forze e le energie a insieme combattere per far sì che un simile momento, una simile assenza, non possano tornare ad essere mai più in quel soggetto»[i].
 
Certo, almeno nella mia personale esperienza, mettere le mani dentro l’OPG per svuotarlo ha significato anche constatare che al suo interno non c’erano solo soggetti autori di episodi drammatici, ma anche altri soggetti, autori spesso di reati minori, ma espressione della difficoltà, in alcuni casi, di presa in carico da parte dei servizi. Ma probabilmente il ragionamento di Rotelli vale nell’uno come nell’altro caso: rimanendo eretti si vedono davanti a sé, stagliati all’orizzonte, astratti e lineari ideali di giustizia e di deontologia…. curvandosi, ci si avvicina invece alla persona.
Più recentemente, mi è capitato di ascoltare da parte di Emilio Lupo, segretario nazionale di Psichiatria Democratica, la proposta che, ogni volta che un giudice si trova di fronte un soggetto che sembra presentare elementi suggestivi di questioni psichiatriche, convochi i clinici responsabili della sua presa in carico per ragionare insieme su quale possa essere il percorso più utile a tenere insieme le esigenze della giustizia e quelle della cura[ii]. E intendeva riferirsi, con questo, proprio ai clinici che forse hanno seguito fino a quel momento il soggetto – e sono quindi in grado di portare elementi conoscitivi diretti – e/o, anche se si trattasse di un soggetto prima sconosciuto ai servizi, che certo dovranno nel concreto accompagnarlo in quel percorso, particolare in questo caso perché insieme morale e clinico, che porti alla “riabilitazione del condannato” secondo quanto Costituzione prevede. Ma su questo punto, credo importantissimo, torneremo.
Girando Siena dopo il seminario, mi colpivano i colori bianco e nero dello stendardo della città, tra loro giustapposti, chiaramente distinti e separati senza nessuna sfumatura o contaminazione e mi è parso che l’eloquente metafora cromatica utilizzata da Lamberti riflettesse una situazione di quel genere. Una troppo netta separazione che impedisce a quel tavolo, che già esiste in un contesto culturale caratterizzato da maggiore pragmatismo rispetto al nostro, di esistere anche in Italia. Una situazione eccessivamente irrigidita che impedisce quel “curvarsi insieme” sulla persona nella materialità e nella storicità della sua realtà al quale faceva riferimento Rotelli. Che è posta, certo, dall’una e dall’altra parte al servizio di istanze difensive che è facile intuire; ma corrisponde anche alla difficoltà che la necessità di contaminarsi senza confondersi presenta.
E’ una necessità che, oggi, avverto anch’io che sono stato in passato cultore della purezza della cura e della separazione tra momento clinico e forense, illudendomi che potessero essere compatibili con la chiusura dell’OPG. Così non è stato, forse anche per alcune scelte implicite sulle quali avrebbe potuto esserci maggiore dibattito (per esempio, l’equilibrio tra sanitario e giudiziario nelle REMS e il livello di “tenuta” loro richiesto); nel nuovo scenario delineatosi una contaminazione è inevitabile, è possibile solo discutere della modalità con la quale essa dovrà realizzarsi.
Credo che la questione non sia banale, né dipenda da cattiva volontà; chi giudica e chi cura non possono oggi incontrarsi intorno a un tavolo perché gli attuali modelli teorici alla base del giudizio e della cura sono a quell’incontro di ostacolo. Per entrambi, la contaminazione dei reciproci ambiti è vissuta come indebita compromissione di un ideale di purezza. L’uno e l’altro, il giudice e il medico, non possono curvarsi sul soggetto perché ne sono impediti da qualcosa che li irrigidisce, non consente loro di vederlo da vicino, toccarlo nella sua corporeità e concretezza se occorre. Perché soltanto la distanza sembra garanzia, per l’uno, di quell’isolamento, astrazione e serenità che rappresenta la situazione ideale per il giudizio; e perché, per l’altro, tenere conto dell’essere portatore di un rapporto con il sistema penale del paziente ed entrarvi come terzo in partita, significherebbe rompere il carattere di dualità e di privatezza che caratterizza la cura.
Ne risulta che da entrambi, il giudice e il clinico, l’autore di reato affetto da malattia mentale ha finito con l’essere tenuto a distanza come un individuo infetto e che forse anche per questo la comunicazione tra l’uno e l’altro ambito è affidata, di abitudine, soprattutto allo scambio di comunicazioni scritte: relazioni mediche contro ordinanze. E dove carta regna, spesso si perde la persona. O avvenga nei casi migliori tramite  soggetti intermediari: il perito, o l’assistente sociale dell’UEPE, ora si vorrebbe da alcuni anche l’UFPF[iii].
Credo poi che l’OPG abbia avuto tanto per il giudice e il medico il significato di un duplice alibi, sia servito a mantenere un reciproco distanziamento che faceva, infondo, comodo a entrambi. Al sistema giudiziario, che aveva così la possibilità di mantenere un soggetto malato nel circuito penitenziario nell’illusione di disporre al suo interno di luoghi idonei per la cura. Al sistema sanitario, che la stessa illusione sollevava dall’impegno di farsi carico di chi aveva già trovato, nell’altro circuito, risposta ai suoi bisogni. Superarlo ha significato anche eliminare l’uno e l’altro alibi. Ma a poco questo sarà servito, se non sarà eliminato il doppio muro che l’OPG ha rappresentato tra la realtà del soggetto con la sua malattia e il suo reato, da una parte, e coloro che del suo destino sono chiamati ad occuparsi, sotto il profilo del giudizio o della cura, dalle altre; e anche tra l’uno e l’altro di loro. Ciascuno dei tre isolato dagli altri due. Se non consentirà, al medico e al giudice, di “curvarsi” sulla persona cogliendone con uno sguardo più “da vicino” i particolari e dunque ammettendo che, quando si ha a che fare con essa, le regole devono appunto curvarsi per raggiungerla. E insieme non consentirà ad essi, curvandosi, di avvicinarsi tra loro.
 
La legge è uguale per tutti? E’ ciò che leggiamo in tutte le aule di tribunale. Ma tutti sono tra loro diversi nella realtà. Lo possiamo constatare ogni giorno.  Tutti, nella realtà, sono diversi e la legge deve tenere conto di queste diversità se vuole incontrare i soggetti nella loro storicità e corporeità, se vuole cioè incontrare non mere astrazioni, “fictiones iuri”, ma persone. E in questa realtà fatta di soggetti diversi che possono compiere il medesimo reato, equità significa mettere tutti sullo stesso piano tenendo conto delle diversità. Per essere eguale per tutti, la legge deve tenere conto delle differenze che tutti presentano tra loro. Se immaginiamo una gara podistica tra un uomo alto due metri e uno alto un metro e mezzo, la legge, per essere uguale per tutti, dovrà consentire al più basso di partire con un vantaggio corrispondente alla differenza della loro falcata, e dovrà tenere conto di altre eventuali differenze tra loro. Se no, non è uguale per tutti. La presenza o meno di una malattia mentale è uno degli elementi che possono rendere tra loro diverse le persone, anche i rei. Essa può infatti influire, da un lato, in modo più o meno importante sulla possibilità di governare il proprio comportamento coll’intendere e il volere, e dall’altro sulla misura in cui la pena eventualmente inflitta può essere pesante da sopportare e dannosa per la salute.
Delle peculiarità rappresentate dalle malattie mentali, è possibile tener conto fino al punto di espellere il soggetto che ne è affetto dalla procedura penale ordinaria e immaginare per lui un percorso alternativo. E’ la strada imboccata dal Codice Rocco con il modello del “doppio binario”. Oppure, come anni fa è stato ventilato nel dibattito italiano, è possibile non attribuire alla malattia mentale tale importanza da farne l’elemento dirimente della scelta tra il binario che conduce alla pena e quello che conduce alla  misura di sicurezza, ma considerare tutti imputabili, salvo poi recuperare la differenza rappresentata dalla malattia mentale a valle, in ambito di valutazione delle attenuanti e/o di presa in considerazione delle necessità di cura del soggetto e della sua possibilità di permanenza in carcere senza che la salute ne risenta. Perché, certo, dire che anche un soggetto affetto da malattia mentale è il più delle volte in qualche misura consapevole e responsabile delle sue scelte, rappresenta una posizione di principio e corrisponde a un’idea della malattia mentale più moderna e suffragata da riscontri nella pratica clinica. Ma non significherebbe certo aver reso uguale per tutti la legge ignorando, delle malattie mentali, l’esistenza; né pensare che il carcere, con le sue rigidità e le sue regole, possa rappresentare per qualcuno un’alternativa auspicabile all’OPG. E’ un dibattito, peraltro, oggi congelato e, credo, poco influente ai fini del nostro discorso. Per il quale è invece importante stabilire le modalità attraverso le quali il giudizio penale, quando la violazione della legge coesiste con la presenza di una malattia della mente, possa da subito contaminarsi del sapere clinico, possa far posto come interlocutore a pieno titolo al clinico, senza perdere in obiettività ma rispondendo in modo più pieno al suo mandato di riabilitazione morale.
 
E la cura, è uguale per tutti? Ma se la legge non può essere uguale per tutti senza essere per tutti diversa, senza cioè tenere conto delle diversità che tuti presentano tra loro, la cura non ha forse gli stessi problemi? Può, cioè, la cura curvarsi sull’autore di reato e avvicinarsi nel fare questo all’apparato giudiziario, senza abbandonare a sua vota la “retta” via, e accettare di lasciarsi contaminare in quest’atto?
Credo di no. La cura rappresenta infatti un contratto consensuale (e quindi libero, consapevole, informato) tra due soggetti (uno dei quali può essere anche un soggetto collettivo, il sistema curante) che ha nella garanzia della riservatezza e nel fatto di avere l’interesse di uno dei due contraenti (il curato) come obiettivo esclusivo i propri fondamenti. A questi principi basilari non è possibile derogare, ma se ad essi non si deroga non è possibile curare colui che non può essere libero né può essere solo in quanto imprigionato nella misura di sicurezza.
Quando il committente è altro dall’interessato (è il magistrato), l’obiettivo prevalente non è la salute del soggetto (è, almeno altrettanto, la sicurezza della collettività), le condizioni per il consenso informato e la riservatezza non sono praticabili perché il magistrato incombe costantemente come ingombrante convitato nella/sulla relazione di cura.
Per parlare di cura a fronte di questa nuova posizione, clinica e forense a un tempo, dello psichiatra (del servizio psichiatrico) bisognerebbe che anche la cura, appunto, come la giustizia potesse  curvarsi per rendersi accessibile anche a quel soggetto, sfruttando lo spazio di cura che è possibile ricavare all’interno del dispositivo giudiziario e trasformandosi consapevolmente in altro: ciò che più può avvicinarsi alla cura in quella situazione, potremmo dire “la cura possibile”. Nata da un negoziato a tre, non da un contratto a due. Si tratterebbe dunque di qualcosa altro dalla cura, una relazione di cura, per così dire, nata e disposta a rimanere “sub judice”, cioè sotto lo sguardo e il giudizio del giudice. Una cosa nuova, mi pare che Roberto Catanesi lo abbia sottolineato intervenendo al  Congresso della Società di Criminologia[iv], ciò che più può avvicinarsi alla cura all’interno di una condizione di carenza di libertà, la misura di sicurezza, nella quale il soggetto è espropriato in larga misura della proprietà di se stesso e quindi dalla possibilità di accedere in senso pieno alla cura, perché si trova in una posizione concettualmente antitetica alla cura.  
Il detenuto può curarsi perché può anche rifiutare la cura, negli stessi termini di ogni altro. Il soggetto sottoposto a misura di sicurezza probabilmente invece non può “curarsi”, proprio perché non può rifiutare la cura; può solo “essere curato”, così trovandosi, secondo alcuni, in una costante posizione di eccezionalità analoga a quella che gli altri vivono solo eccezionalmente, per brevi periodi (e su provvedimento dell’autorità sanitaria e non giudiziaria) nel Trattamento Sanitario Obbligatorio. Lo Stato con lui in tal caso non si limiterebbe a custodire, vorrebbe anche (ora non più attraverso l’OPG, ma attraverso il servizio psichiatrico pubblico) che lo psichiatra intervenga all’interno di un dispositivo giudiziario, attraverso i suoi strumenti, per modificarne la condizione clinica. Ma su tutto questo c'è discussione, d è evidente come da essa dipenda anche il mandato, e quindi le caratteristiche, delle REMS.
Lo psichiatra clinico può accettare questa posizione? Credo forse di sì, purché nella chiarezza. In qualche misura lo stava già facendo con soggetti in licenza finale esperimento o in libertà vigilata dall’OPG, anche se in quel caso con l’alibi di operare in una condizione di quasi-libertà, perché la presa in carico del servizio nasceva pur sempre dalla “libera” (???) richiesta dal soggetto, che chiedeva la cura come alternativa meno vessatoria rispetto all’OPG. Alle spalle, per chi rompeva il patto con il servizio, c’era comunque la psichiatria giudiziaria a operare all’interno della “vera” misura di sicurezza, quella chiusa. Oggi, con la gestione esclusivamente sanitaria della REMS, il compito di creare dispositivi di cura all’interno di un dispositivo giudiziario ritorna in toto alla psichiatria, com’era stato fino al 1930. Il mandato di controllo del quale la psichiatria è investita nella REMS va oltre quello che esercita in tempo, per così dire, di “pace”, quando non è questione di reato, e che è implicita componente del prendersi cura. E questo costituisce uno scenario nuovo, inedito, che cominciamo a esplorare a tentoni e del quale non sono ancora definiti i confini; ma dove mi pare vada delineandosi in modo sempre più chiaro come l’esercizio del potere psichiatrico, ritagliato in questo caso all’interno del potere giudiziario e non del potere sanitario, nella REMS ponga problemi che non sono certo solo gestionali. Questioni delicatissime, che hanno a che fare con la declinazione, all’interno della psichiatria ma soprattutto della società italiana e dei suoi organismi legislativi, di concetti quali libertà, responsabilità, giustizia, malattia mentale, diritto alla cura e al rifiuto della cura, che sono idee cardine del nostro vivere comune.
 
Nell’area grigia (1). La chiusura degli OPG pone, insomma, mi pare problemi teorici molto più radicali e profondi che non modificare la normativa, aprire nuove strutture, formarsi a nuove tecnologie della cura; impone all’operatore della giustizia e a quello della sanità di ripensare entrambi la propria identità scegliendo se “curvarla” in direzione l’uno dell’altro ed entrambi per avvicinarsi insieme al protagonista della storia, il reo come persona concreta. Impone all’uno e all’altro di prendere atto dell’esistenza di un’area problematica condivisa e imparare, partendo da premesse diverse e in buona misura opposte, a lavorarci insieme perché all’interno di quell’area grigia sta la persona e solo attenuando il bianco e il nero delle proprie identità contrapposte – imparando a contaminare i saperi senza confondere i ruoli – possono cercare insieme soluzioni concrete e utili. Avventurarsi con coraggio in quell’area grigia e incerta, tra l’austero nero della toga giudiziaria e il candido bianco del camice, dove possono insieme curvarsi sulla persona malata e rea e darle, ciascuno a modo proprio, l’aiuto che da entrambi Costituzione pretende.
Soluzioni e accomodamenti di più basso profilo, non sono all’altezza del momento, io credo, e rischiano di far danni. A come queste considerazioni impattino sulle proposte e le sperimentazioni oggi sul campo per uscire dall’attuale situazione di difficoltà nel processo di superamento con l’identificazione di modelli, luoghi, metodi innovativi, dedicheremo la seconda parte (in fieri) di questo ragionamento:   
 

Parte II: … a tentoni nella notte (cercando di non dare facciate).

 

[i] F. Rotelli, Introduzione, in: G. Dell’Acqua, R. Mezzina, a cura di, Il folle gesto. Perizia psichiatrica, manicomio giudiziario, carcere nella pratica dei servizi di salute mentale a Trieste, Sapere 2000, Roma, 1988, pp. 7-9.
[ii] Intervento al corso di formazione “Chiusura degli OPG: quale formazione per gli operatori”, Roma, 26-27 novembre 2015.
[iii] Unità Funzionale di Psichiatria Forense, prevista ad esempio dall’“Accordo di collaborazione tra la Regione e gli Uffici giudiziari della Liguria sulla sperimentazione delle UFPF nei Dipartimenti di Salute Mentale e Dipendenze",  DGR 1158/2014.
[iv] Intervento al XXIX Congresso Naz.le SIC “Helping the bad”, S. Margherita L., 22-24 ottobre 2015.

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