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A Cavallo della legge.

12 Giu 16

A cura di Maurizio Montanari

Caso esposto al XIV Congresso Nazionale Scuola Lacaniana di psicoanalisi. 
Milano 11 giugno.

 
 

Per vedere le gambe delle donne, si doveva andare al fiume la domenica mattina quando lavavano i panni. Questa frase apre uno scorcio sulla quotidianità opprimente e censoria dell’infanzia di questo avvocato quarantacinquenne che bussa alla mia porta. E’ titolare di uno studio legale molto avviato in città, padre di un figlio di pochi anni, e pone una richiesta iniziale inerente a problemi di dipendenza. Dopo venti anni di uso sistematico di cocaina, lamenta problemi cardiaci, crescente senso di isolamento e manie di persecuzione. Conosce gli effetti collaterali della cocaina e chiede un aiuto per stemperarli. Vorrebbe diminuirne il consumo, poiché teme di avere un infarto, di essere scoperto dalle forze dell’ordine vedendo così rovinata la sua carriera, e che il ritiro sociale che avverte diventi radicale. Non ha mai intrapreso alcun percorso disintossicante perché non vuole smettere. All’apparenza si tratta della richiesta di un uomo che in nome della buona reputazione (non del figlio o della compagna) e della salute cerca di ridimensionare l'uso della sostanza bianca. Capirò più tardi che la vera scena che lo vede protagonista non è quella allestita per l’altro sulla quale verte la domanda iniziale, quanto il retrobottega ben celato a sguardi indiscreti.
Dopo aver lasciato il piccolo paese del sud Italia, nel quale anche l’uso del vino era regolato dal padre padrone, giunge in città per conseguire una laurea. Si iscrive alla facoltà di giurisprudenza, ma la sua vera vocazione si scopre essere quella di organizzatore di eventi in quel mondo che anima la movida notturna cittadina. Diventa da subito un frequentatore delle sale da gioco, accanito scommettitore alle corse clandestine di cavalli nonché organizzatore di bische. A contorno di tutto, l’onnipresente cocaina, che non solo consuma, ma che inizia a smerciare. Nel tempo la sua fama cresce, sino a farne una sorta di guru riconosciuto del divertimento fuori-norma. Nel corso di questa ‘crescita’ professionale, incontra diverse tipologie di consumatori e spacciatori di sostanze stupefacenti, i quali, in un modo o nell’altro, finiscono nelle maglie della legge. Il suo studio legale inizia a difendere queste persone, specializzandosi quasi esclusivamente in reati inerenti allo spaccio. Dunque costui si pone a cavallo della legge, difendendo davanti al giudice quelle stesse persone che sono suoi sodali e clienti nelle interminabili notti di godimento. In tal modo comincia a delinearsi un inatteso quadro perverso: egli è custode di un sistema che ha bisogno della legge, pur infrangendola. Senza la legge che punisce lo spaccio non potrebbe arricchirsi difendendo coloro che commettono questo reato, gli stessi che lo pagano per essere riforniti di coca. Proibizione e sanzione sono elementi centrali di questo edificio. La clinica mostra che il perverso è ben lontano dall'ignorare la legge. Ne ha invece bisogno come punto di gravità attorno al quale muoversi mantenendo una distanza di sicurezza, un incedere che ne fa a meno comprendendola, un punto di riferimento dal quale non si può prescindere senza mai farci davvero i conti. Una legge sfidata, stuzzicata, fatta uscire dalla tana per poi prenderne le distanze quando questa diviene punitiva o si presentifica sotto forma di sanzione. Se la legge, infatti, non fosse sospesa come una minaccia all’orizzonte, il suo atto non avrebbe né valore né sapore, il godimento verrebbe a  mancare nelle sue gesta.
La sua attività di smercio ha ripercussioni sulla professione legale? – chiedo. Cosa c’entra il mio lavoro? – ribatte in dialetto. Infastidito ed iracondo lascia le sedute. Mesi dopo tornerà, molto determinato, ribadendo l’inziale richiesta: Voglio venire qua solo per calare la coca, frenare i sensi di persecuzione e per non finire barricato in casa! Ho sbagliato tempo e palco, non ho dato l’attenzione che lui voleva alla scena allestita per l’altro, la vetrina del professionista preoccupato per la sua reputazione e la salute. La sua domanda era inerente a quella scena, ma io non ho ascoltato. Ho inopportunamente svelato il suo retrobottega, gettando una luce non richiesta sul meccanismo sul quale il soggetto perverso ha edificato la sua vita, facendolo sentire giudicato da una presenza paterna e moralista, causando la caduta della maschera troppo velocemente. Sentendosi denudato, ha lasciato.
Il perverso non chiede un’analisi poiché, come scrive J.A. Miller, egli non ne ha bisogno, perché conosce con esattezza la ragione del suo stare al mondo. Egli sta al mondo per il godimento e sa bene dove cercarlo. Cosa domanda dunque quando ci convoca? In questo caso sono stato chiamato per esercitare la funzione di limite, affinché egli potesse continuare nel suo stile di vita, evitando che l’Altro sociale lo sanzionasse o il godimento schiacciasse il corpo. Cedendo il cuore, o finendo in carcere, egli non avrebbe potuto continuare a nuotare nei suoi eccessi.
Le rare volte che ci interpella, il perverso non entra dalla porta del sintomo, non cerca un contatto con l’inconscio, ma un sostegno regolatore.
 Inizialmente mi assegna il posto di un autovelox dell’eccesso per mettere un limite laddove egli non lo percepisce. Per poi ricominciare. Entrambi conoscevamo dunque la reale scena nella quale egli si muoveva, ma ho scelto di attenermi a ciò che domandava, producendomi in una sorta di segretariato al servizio di un abusatore di cocaina, accettando di monitorare con lui gli effetti indesiderati che lo angustiavano. Questo non detto ha regolato e sostenuto le sedute. Se io mi fossi nuovamente lasciato andare con la luce ad illuminare il retrobottega, se ne sarebbe andato definitivamente.
Grazie a questo lavoro di attesa è stato possibile un secondo tempo, nel quale una domanda diversa si è fatta spazio, sovrapponendosi a quella inziale. E’ lui che, dopo molte sedute passate a parlare delle sue mirabolanti imprese, del timore dell’arresto e di chi trama alle sue spalle, accenna ad aprire un'altra porta. Dietro alla quale fa la sua comparsa il figlio. Forse, dottore, è proprio tutta la mia vita che è organizzata male. La cocaina è solo una delle cose che ‘m’impiccia’. Penso a mio figlio: cosa penserà di me? Cosa sarà di lui se muoio o finisco dentro? Mi faccio trovare disponibile alla sua parziale rettifica. In casi come questo se si vuole che una domanda leggermente più strutturata emerga, è necessario dare la possibilità alla grande mascherata del perverso di mettersi in scena, con l’intento di colpire e scioccare l'interlocutore, opponendo a ciò il silenzio. Bisogna lasciare sedimentare tutta l’ esibizione oscena e il clamore che egli vuole gettarvi addosso, mostrando impassibilità. Egli ha dapprima dovuto raccontare l’eccesso, solo dopo ha chiesto un aiuto per non caderci dentro, per dare un futuro al figlio. Nel momento in cui si assume un atteggiamento paternalista, o si punta il dito con intento di svelare il complesso ma  prevedibile marchingegno del perverso, egli se ne va. Far prendere alle sedute una deriva confessionale significa far antecedere un ammonimento al normale e naturale tempo di esposizione del quale il perverso ha bisogno per proiettare le proprie monotone giravolte di godimento. Solo dopo questo infinito e sfiancante prologo, lungo il quale mai mi ha visto turbato, ha accettato di rivedere in parte la sua vita senza limite, in nome di qualcosa di nuovo, un’alterità situata in un posto diverso rispetto ai suoi canali di godimento. C’è voluto tempo per l’ingresso del figlio nel suo discorso. Dietro alla domanda iniziale una più strutturata ha visto la luce. Dare un padre affidabile al figlio diventa da quel momento un argomento che riempie i suoi discorsi, più della la paura della polizia e del timore che si parli male di lui. Questo uomo non si redimerà, non modificherà la sua vita, non rinuncerà a godere. Cercherà tuttavia di non esserne inghiottito, avendo scelto di fare spazio al figlio.
 

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