VILI NEGAZIONISTI. La cronaca lo conferma: noi uomini siamo canaglie pronte a tutto, soprattutto a giustificarci
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 1 giugno 2016
“Nego che qui da noi vi sia negazionismo”, è il motto di capi di stato e storici ed ex combattenti e aspiranti, “nego e guai a chi afferma il contrario”. La bandiera del primo stato negazionista del secolo scorso appartiene alla Turchia, che tutt’ora punisce i suoi cittadini che osano dire la verità, la strage degli armeni. Erdogan abbatte il laicismo di Atatürk, ma è d’accordo col Kemal che da modernista aveva tagliato corto con le stragi liquidandole come acqua passata. In fondo, si sarà detto lo sbrigativo Kemal Atatürk, il sangue in quegli anni infernali correva impetuoso ovunque. Anche i vincitori alleati dovettero pensare a qualcosa di simile, e lasciarono cadere il contenzioso. Qualcosa di vero in effetti c’era nello sbrigativismo di Atatürk, gli europei si erano a loro volta comportati da macellai mandando a morte i loro figli, la Prima guerra mondiale fu un immenso genocidio. Celebrarlo come eroismo è negazionismo. Le guerre sanguinarie che non sono strettamente difensive, che travolgono ogni possibilità di pace, sono genocidi. La guerra scatenata dal Duce per compiacere Hitler fu un genocidio soprattutto di italiani, cinquecentomila. Che ogni tanto ci si scandalizzi perché, una volta giustiziato, si sia appeso il Duce a testa in giù, è qualcosa che fin da ragazzo mi suscitava un moto di stupore, motto peraltro di fasciste origini: “Ma chi se ne frega!”.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/06/01/erdogan-turchia-negazionisti___1-vr-142706-rubriche_c344.htm
“Nego che qui da noi vi sia negazionismo”, è il motto di capi di stato e storici ed ex combattenti e aspiranti, “nego e guai a chi afferma il contrario”. La bandiera del primo stato negazionista del secolo scorso appartiene alla Turchia, che tutt’ora punisce i suoi cittadini che osano dire la verità, la strage degli armeni. Erdogan abbatte il laicismo di Atatürk, ma è d’accordo col Kemal che da modernista aveva tagliato corto con le stragi liquidandole come acqua passata. In fondo, si sarà detto lo sbrigativo Kemal Atatürk, il sangue in quegli anni infernali correva impetuoso ovunque. Anche i vincitori alleati dovettero pensare a qualcosa di simile, e lasciarono cadere il contenzioso. Qualcosa di vero in effetti c’era nello sbrigativismo di Atatürk, gli europei si erano a loro volta comportati da macellai mandando a morte i loro figli, la Prima guerra mondiale fu un immenso genocidio. Celebrarlo come eroismo è negazionismo. Le guerre sanguinarie che non sono strettamente difensive, che travolgono ogni possibilità di pace, sono genocidi. La guerra scatenata dal Duce per compiacere Hitler fu un genocidio soprattutto di italiani, cinquecentomila. Che ogni tanto ci si scandalizzi perché, una volta giustiziato, si sia appeso il Duce a testa in giù, è qualcosa che fin da ragazzo mi suscitava un moto di stupore, motto peraltro di fasciste origini: “Ma chi se ne frega!”.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/06/01/erdogan-turchia-negazionisti___1-vr-142706-rubriche_c344.htm
TRASMISSIONE INTERGENERAZIONALE DELLA POVERTÀ
di Rosalba Miceli, lastampa.it, 1 giugno 2016
Sono noti gli effetti devastanti della carenza di cure primarie nell’innescare e mantenere i “cicli dello svantaggio”: bambini cresciuti in famiglie infelici o disgregate hanno maggiori probabilità di ripetere esperienze relazionali infelici come gravidanze precoci, matrimoni insoddisfacenti, separazioni, divorzi, sperimentando anche condizioni più o meno gravi e conclamate di disagio economico e sociale. Analizzando il fenomeno della povertà cronica partiamo dalla considerazione che la povertà è uno stato di indigenza assoluta o relativa e include oltre che aspetti materiali anche dimensioni non materiali (sofferenza, povertà di relazioni, isolamento ed esclusione sociale, cattiva alimentazione e scarsa cura della salute, carenza di servizi e di offerte educative) e intergenerazionali. In quale misura e attraverso quali canali può trasmettersi da una generazione all’altra?
Lo psicoanalista John Bowlby, basandosi sull’esperienza clinica presso la scuola attivista di Summerhill, nella quale venivano seguiti ragazzi psichicamente disturbati provenienti spesso dalle classi sociali meno elevate, avanzò un’ipotesi, giungendo ad affermare: «L’eredità della salute mentale e della malattia mentale tramite la microcultura familiare è certamente non meno importante di quanto sia l’eredità tramite i geni, e anzi può essere ancora più importante. Tanto chi studia le cause di povertà cronica quanto chi studia le cause della malattia mentale si trova di fronte a certi modelli negativi e autoperpetuantisi di microcultura familiare che – è lecito credere – sono agenti causali comuni di entrambe quelle condizioni» (Bolby,1973).
Segue qui:
http://www.lastampa.it/2016/06/01/scienza/galassiamente/trasmissione-intergenerazionale-della-povert-p4PgbyplICjkavovb0JgPK/pagina.html
Sono noti gli effetti devastanti della carenza di cure primarie nell’innescare e mantenere i “cicli dello svantaggio”: bambini cresciuti in famiglie infelici o disgregate hanno maggiori probabilità di ripetere esperienze relazionali infelici come gravidanze precoci, matrimoni insoddisfacenti, separazioni, divorzi, sperimentando anche condizioni più o meno gravi e conclamate di disagio economico e sociale. Analizzando il fenomeno della povertà cronica partiamo dalla considerazione che la povertà è uno stato di indigenza assoluta o relativa e include oltre che aspetti materiali anche dimensioni non materiali (sofferenza, povertà di relazioni, isolamento ed esclusione sociale, cattiva alimentazione e scarsa cura della salute, carenza di servizi e di offerte educative) e intergenerazionali. In quale misura e attraverso quali canali può trasmettersi da una generazione all’altra?
Lo psicoanalista John Bowlby, basandosi sull’esperienza clinica presso la scuola attivista di Summerhill, nella quale venivano seguiti ragazzi psichicamente disturbati provenienti spesso dalle classi sociali meno elevate, avanzò un’ipotesi, giungendo ad affermare: «L’eredità della salute mentale e della malattia mentale tramite la microcultura familiare è certamente non meno importante di quanto sia l’eredità tramite i geni, e anzi può essere ancora più importante. Tanto chi studia le cause di povertà cronica quanto chi studia le cause della malattia mentale si trova di fronte a certi modelli negativi e autoperpetuantisi di microcultura familiare che – è lecito credere – sono agenti causali comuni di entrambe quelle condizioni» (Bolby,1973).
Segue qui:
http://www.lastampa.it/2016/06/01/scienza/galassiamente/trasmissione-intergenerazionale-della-povert-p4PgbyplICjkavovb0JgPK/pagina.html
IL PICCOLO GRANDE DRAMMA DEI SAGGI DI FINE ANNO. I GENITORI DEVONO SEMPRE PARTECIPARE? Ecco le buone regole per evitare stress inutili e mettere d’accordo tutta la famiglia
di Federico Taddia, lastampa.it, 3 giugno 2016
«L’affetto non si sviluppa con una performance: il saggio è una prova di un’abilità, non una prova d’amore. Si può essere un ottimo genitore anche saltando la recita di fine anno». Sì, tiriamo un sospiro di sollievo: ai saggi di fine anno si può sopravvivere. Anche non andandoci! Parola di Luigi Ballerini, psicanalista e scrittore, vincitore del Premio Bancarellino 2015, con il libro «Io sono zero». Quattro figli e un lungo curriculum di presenze ai saggi alle spalle. «E pure di assenze. Senza drammi: in questi casi è fondamentale la chiarezza e il dialogo. E una premessa: non caricare di significati eccessivi queste esibizioni. Nessuno dei nostri figli è Mozart: crederlo, o farglielo, credere crea solo angoscia». Incubo. Tormento. Ultima fatica prima dell’arrivo delle vacanze.
Che sia di musica o di danza, di teatro o di nuoto sincronizzato non fa nulla: ogni scuola ha il suo appuntamento, ogni corso ha il suo show finale. Con un’ansia da prestazione che, con facce diverse, avvolge tutti gli attori di questa messa in scena: figli, genitori, docenti e istruttori vari. «Ai bambini piace essere guardati nel loro diventare capaci – spiega Ballerini -. Quando imparano ad andare in bicicletta chiedono subito di essere osservati. Non basta dirci da soli che siamo bravi, serve un riconoscimento, vogliamo che qualcun altro ce lo verbalizzi. Se il saggio aiuta a dimostrare cosa ho appreso e a trarre soddisfazione dal “bravo” detto dagli adulti di riferimento, siamo in una dinamica positiva. Quando, invece, la prestazione è un mezzo per dimostrare quello che valgo, perché questo è l’unica via praticabile per conquistare l’orgoglio dei genitori, la dinamica è scorretta. Esporre il figlio come un trofeo o provare vergogna in caso di errore fa diventare il saggio sinonimo di frustrazione e insicurezza».
Segue qui:
http://www.lastampa.it/2016/06/03/societa/il-dramma-dei-saggi-di-fine-anno-i-genitori-devono-sempre-partecipare-p2uEJIDCwFaM0zfODUfIqI/pagina.html
«L’affetto non si sviluppa con una performance: il saggio è una prova di un’abilità, non una prova d’amore. Si può essere un ottimo genitore anche saltando la recita di fine anno». Sì, tiriamo un sospiro di sollievo: ai saggi di fine anno si può sopravvivere. Anche non andandoci! Parola di Luigi Ballerini, psicanalista e scrittore, vincitore del Premio Bancarellino 2015, con il libro «Io sono zero». Quattro figli e un lungo curriculum di presenze ai saggi alle spalle. «E pure di assenze. Senza drammi: in questi casi è fondamentale la chiarezza e il dialogo. E una premessa: non caricare di significati eccessivi queste esibizioni. Nessuno dei nostri figli è Mozart: crederlo, o farglielo, credere crea solo angoscia». Incubo. Tormento. Ultima fatica prima dell’arrivo delle vacanze.
Che sia di musica o di danza, di teatro o di nuoto sincronizzato non fa nulla: ogni scuola ha il suo appuntamento, ogni corso ha il suo show finale. Con un’ansia da prestazione che, con facce diverse, avvolge tutti gli attori di questa messa in scena: figli, genitori, docenti e istruttori vari. «Ai bambini piace essere guardati nel loro diventare capaci – spiega Ballerini -. Quando imparano ad andare in bicicletta chiedono subito di essere osservati. Non basta dirci da soli che siamo bravi, serve un riconoscimento, vogliamo che qualcun altro ce lo verbalizzi. Se il saggio aiuta a dimostrare cosa ho appreso e a trarre soddisfazione dal “bravo” detto dagli adulti di riferimento, siamo in una dinamica positiva. Quando, invece, la prestazione è un mezzo per dimostrare quello che valgo, perché questo è l’unica via praticabile per conquistare l’orgoglio dei genitori, la dinamica è scorretta. Esporre il figlio come un trofeo o provare vergogna in caso di errore fa diventare il saggio sinonimo di frustrazione e insicurezza».
Segue qui:
http://www.lastampa.it/2016/06/03/societa/il-dramma-dei-saggi-di-fine-anno-i-genitori-devono-sempre-partecipare-p2uEJIDCwFaM0zfODUfIqI/pagina.html
PERCHÉ IL FEMMINICIDIO?
di Carlo Arrigone, snodi.net, 3 giugno 2016
Nel 1929 Sigmund Freud scriveva un saggio sul “disagio della civiltà”. Purtroppo oggi più che allora la civiltà sembra non solo a disagio, ma gravemente a rischio, vista la sempre maggiore frequenza con cui gli uomini uccidono le donne. Purtroppo quasi ogni giorno le cronache – italiane e non – riportano tragedie che abbiamo rubricato sotto la definizione di femminicidio, un massacro che ha portato la comunità internazionale a dare il via ad una giornata mondiale contro la violenza alle donne, fissata il 25 novembre di ogni anno.
In questa ondata di delitti c’è ben poco di civile: è una barbarie crescente.
A ben vedere si tratta di una vera e propria guerra (in)civile, di cui noi oggi vediamo principalmente la parte dell’attacco degli uomini sulle donne. Ma, all’osservazione attenta, non ci vuole molto ad accorgersi che l’odio è reciproco.
Basta pensare a quanto poco duraturi sono diventati i rapporti di coppia, anche quando iniziati sotto i migliori auspici dei grandi innamoramenti, spesso si trasformano in battaglie all’ultimo sangue, con rappresaglie da una parte e dall’altra, caratterizzati da un odio crescente e indomabile. Assistiamo quotidianamente a famiglie massacrate, anche senza spargimento di sangue, dove ci sono solo vittime, e i figli sono spesso il terreno di queste battaglie.
La storia dei rapporti tra uomini e donne non sempre è andata bene e a volte è andata molto male. La tragedia, la letteratura, l’arte sono piene di rappresentazioni di odio reciproco. La storia ne è intrisa. Giuditta che taglia la gola ad Oloferne, nella potentissima rappresentazione di Artemisia Gentileschi, è un’icona indimenticabile dell’altra faccia della medaglia.
Guardando questa celebre immagine (recentemente riscoperta grazie a mostre internazionali che hanno restituito alla pittrice il posto che le spetta nella storia dell’arte) non ci si poteva illudere nemmeno per un secondo che la donna fosse il sesso debole. E invece per millenni la nostra civiltà ha continuato a raccontarsi quella che è di fatto una ridicola favoletta.
Impostare i rapporti come rapporti di forza, tra una debole e uno forte, non è certo un buon inizio. Infatti, come vediamo negli ultimi decenni, è finita in guerra e come in tutte le guerre c’è un oggetto del contendere. Per cosa si combattono uomini e donne, cosa vogliono conquistare?
Segue qui:
http://www.snodi.net/site/?q=node/204
Nel 1929 Sigmund Freud scriveva un saggio sul “disagio della civiltà”. Purtroppo oggi più che allora la civiltà sembra non solo a disagio, ma gravemente a rischio, vista la sempre maggiore frequenza con cui gli uomini uccidono le donne. Purtroppo quasi ogni giorno le cronache – italiane e non – riportano tragedie che abbiamo rubricato sotto la definizione di femminicidio, un massacro che ha portato la comunità internazionale a dare il via ad una giornata mondiale contro la violenza alle donne, fissata il 25 novembre di ogni anno.
In questa ondata di delitti c’è ben poco di civile: è una barbarie crescente.
A ben vedere si tratta di una vera e propria guerra (in)civile, di cui noi oggi vediamo principalmente la parte dell’attacco degli uomini sulle donne. Ma, all’osservazione attenta, non ci vuole molto ad accorgersi che l’odio è reciproco.
Basta pensare a quanto poco duraturi sono diventati i rapporti di coppia, anche quando iniziati sotto i migliori auspici dei grandi innamoramenti, spesso si trasformano in battaglie all’ultimo sangue, con rappresaglie da una parte e dall’altra, caratterizzati da un odio crescente e indomabile. Assistiamo quotidianamente a famiglie massacrate, anche senza spargimento di sangue, dove ci sono solo vittime, e i figli sono spesso il terreno di queste battaglie.
La storia dei rapporti tra uomini e donne non sempre è andata bene e a volte è andata molto male. La tragedia, la letteratura, l’arte sono piene di rappresentazioni di odio reciproco. La storia ne è intrisa. Giuditta che taglia la gola ad Oloferne, nella potentissima rappresentazione di Artemisia Gentileschi, è un’icona indimenticabile dell’altra faccia della medaglia.
Guardando questa celebre immagine (recentemente riscoperta grazie a mostre internazionali che hanno restituito alla pittrice il posto che le spetta nella storia dell’arte) non ci si poteva illudere nemmeno per un secondo che la donna fosse il sesso debole. E invece per millenni la nostra civiltà ha continuato a raccontarsi quella che è di fatto una ridicola favoletta.
Impostare i rapporti come rapporti di forza, tra una debole e uno forte, non è certo un buon inizio. Infatti, come vediamo negli ultimi decenni, è finita in guerra e come in tutte le guerre c’è un oggetto del contendere. Per cosa si combattono uomini e donne, cosa vogliono conquistare?
Segue qui:
http://www.snodi.net/site/?q=node/204
TU SEI SOLO MIA” E QUELLE DOMANDE TROPPO INSISTENTI
di Luisa Pronzato, 27esimaora.corriere.it, 4 giugno 2016
L’amore non uccide, non picchia, non crea possesso. Eppure certi atteggiamenti che sono già indici di controllo possono essere avvertiti come appaganti e amorevoli, «Che c’è di male se lui mi chiede come sono vestina e vuole che gli mandi un selfie?», «Perché mai non dovremmo scambiare le nostre password», «Siamo sempre insieme? Lui mi accompagna ovunque perché siamo una cosa sola».
«Che qualcuno dica “ho bisogno di te” fa sentire importanti», dice Massimo Adolfo Caponeri, psicoanalista che lavora sulle dipendenze. «Attenzione, se poi il bisogno è assoluto ed è proprio vero si sostituisce all’amore e crea situazioni di dipendenza da cui non potersi più staccare. È utile prendere coscienza del modello di relazione che si sta vivendo quando ancora non è avvenuta la prima manifestazione aggressiva». Entriamo allora nelle righe delle storie, le nostre storie, per leggere i segni di una relazione distorta che all’apparenza fa dire (e pensare): guarda che belli quei due, si amano davvero.
«Ci sono atteggiamenti che vanno riconosciuti per evitare di avvitarsi in dinamiche dove l’esclusività non si accontenta di un rapporto privilegiato ma diventa assoluta, nel senso del possesso e di una gelosia ossessiva che si esprime attraverso il controllo», dice lo psicoanalista. Ed è proprio quel controllo che non si riconosce subito come tale.
Segue qui:
«Tu sei solo mia» e quelle domande troppo insistenti
L’amore non uccide, non picchia, non crea possesso. Eppure certi atteggiamenti che sono già indici di controllo possono essere avvertiti come appaganti e amorevoli, «Che c’è di male se lui mi chiede come sono vestina e vuole che gli mandi un selfie?», «Perché mai non dovremmo scambiare le nostre password», «Siamo sempre insieme? Lui mi accompagna ovunque perché siamo una cosa sola».
«Che qualcuno dica “ho bisogno di te” fa sentire importanti», dice Massimo Adolfo Caponeri, psicoanalista che lavora sulle dipendenze. «Attenzione, se poi il bisogno è assoluto ed è proprio vero si sostituisce all’amore e crea situazioni di dipendenza da cui non potersi più staccare. È utile prendere coscienza del modello di relazione che si sta vivendo quando ancora non è avvenuta la prima manifestazione aggressiva». Entriamo allora nelle righe delle storie, le nostre storie, per leggere i segni di una relazione distorta che all’apparenza fa dire (e pensare): guarda che belli quei due, si amano davvero.
«Ci sono atteggiamenti che vanno riconosciuti per evitare di avvitarsi in dinamiche dove l’esclusività non si accontenta di un rapporto privilegiato ma diventa assoluta, nel senso del possesso e di una gelosia ossessiva che si esprime attraverso il controllo», dice lo psicoanalista. Ed è proprio quel controllo che non si riconosce subito come tale.
Segue qui:
«Tu sei solo mia» e quelle domande troppo insistenti
“IL TEMPO E L’INCONSCIO. ANCHE AMLETO PUÒ ESSERE D’ESEMPIO”. Si tiene l’11 e il 12 giugno a Milano il XIV Convegno Nazionale della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi sul tema «Il tempo e l’atto nella pratica della psicoanalisi»
di Silvia Vegetti Finzi, corriere.it, 6 giugno 2016
Il prossimo Convegno della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi, Il tempo e l’atto nella pratica della psicoanalisi, ripensa i fondamenti della pratica clinica, che si rifà a Freud, Lacan e Miller, affrontando il tema che più la caratterizza, la durata variabile delle sedute di analisi rispetto a quella standard di 45 minuti. Questa sovversione, per certi versi sorprendente, si propone di sincronizzare, per quanto possibile, il tempo della cura con quello dell’inconscio, discontinuo e intermittente. Lacan individua nel soggetto un «tempo logico» che, emergendo tra le pieghe del discorso, fa risuonare a tratti una parola vera, espressione dell’inconscio sottratto ai filtri della censura. Da quello spiraglio è possibile cogliere i fantasmi remoti che incatenano il desiderio a un’incoercibile ripetizione (com’è evidente nei sintomi di dipendenza) e, interpretandoli nella reciprocità del transfert analitico, conferire loro senso e significato. Interporre una pausa tra le sedute consente allora al paziente, promosso analizzante, di elaborare quanto è emerso precedentemente, e all’analista di valutare se è avvenuto davvero un mutamento strutturale.
Segue qui:
http://www.corriere.it/cultura/16_giugno_06/convegno-nazionale-scuola-lacaniana-psicoanalisi-milano-11-12-giugno-2016-b227b8f4-2c19-11e6-9053-0e7395a81fb7.shtml
Il prossimo Convegno della Scuola Lacaniana di Psicoanalisi, Il tempo e l’atto nella pratica della psicoanalisi, ripensa i fondamenti della pratica clinica, che si rifà a Freud, Lacan e Miller, affrontando il tema che più la caratterizza, la durata variabile delle sedute di analisi rispetto a quella standard di 45 minuti. Questa sovversione, per certi versi sorprendente, si propone di sincronizzare, per quanto possibile, il tempo della cura con quello dell’inconscio, discontinuo e intermittente. Lacan individua nel soggetto un «tempo logico» che, emergendo tra le pieghe del discorso, fa risuonare a tratti una parola vera, espressione dell’inconscio sottratto ai filtri della censura. Da quello spiraglio è possibile cogliere i fantasmi remoti che incatenano il desiderio a un’incoercibile ripetizione (com’è evidente nei sintomi di dipendenza) e, interpretandoli nella reciprocità del transfert analitico, conferire loro senso e significato. Interporre una pausa tra le sedute consente allora al paziente, promosso analizzante, di elaborare quanto è emerso precedentemente, e all’analista di valutare se è avvenuto davvero un mutamento strutturale.
Segue qui:
http://www.corriere.it/cultura/16_giugno_06/convegno-nazionale-scuola-lacaniana-psicoanalisi-milano-11-12-giugno-2016-b227b8f4-2c19-11e6-9053-0e7395a81fb7.shtml
QUEL CORPO CHE SEPPE DIRE NO. Piccola nota sul no e la malattia
di Maurizio Montanari, lettera43.it, 7 giugno 2016
Guarda come è bello’, diceva mia madre, davanti al Grundig rosso con antenna di acciaio deformata dalle mille torsioni che le si imponevano per cercare un segnale accettabile. Ero giovane in un piccolo paese di campagna. Nessuno aveva mai visto uomini di colore, se non nella loro rappresentazione coloniale, tramandata dai alcuni reduci dell’Abissinia. Ricordo che fece scalpore, perché disse no. Lo disse il 28 Aprile 1967, due giorni prima che nascessi io. All’epoca, non conoscevo il no, e la dimestichezza col bello era da venire. La psicoanalisi era ben lontana. Solo nel tempo sono riuscito ad intravedere quanto quest’uomo fondesse corpo e parola, oltreché emanare un’eleganza inusitata per un uomo che era solito picchiare. Il corpo, strumento capace di supplire a carenze di linguaggio e di istruzione, delle quali mai Clay fece mistero (‘Io sono il più grande, non sono il piu’ intelligente’). Seppe dire no in un tempo buio e conservatore, nel quale la paranoia atomica e lo spostamento sul terzo (quel vietcong che tutti noi conoscemmo solo successivamente in tanti film) rendeva impossibile, impensabile, inaccettabile disobbedire al comando della Zio Sam. Non era ancora il tempo del contraddittorio, dei diritti civili, ancora era da venire il dubbio sulla parola imposta. La guerra scatenata oltreconfine, contro il ’nemico’, fu il filo conduttore di una paranoicizazione costante nella storia degli Stati Uniti d’America. ‘Ho avuto un guaio nella mia città natale Così mi hanno messo un fucile in mano mandato a una terra straniera Per andare a uccidere l’uomo giallo’ canta Bruce Springsteen. E poi Fidel Castro, e tanto altri nemici ancora. Mostri stranieri, cattivi perfetti, bersagli ideali per mantenere intatta la linea divisoria che separava i bianchi dai neri, i figli degli ex schiavisti da quelli degli ex schiavi. Fu quell’aristocrazia venerata ancora oggi dalla ‘sinistra’ salottiera locale a incidere ancor piu’ a fondo questa linea di divisione nel tessuto sociale.
Segue qui:
http://www.lettera43.it/blog/la-stanza-101-lo-sguardo-di-uno-psicoanalista-sul-contemporaneo/cinematografia/quel-corpo-che-seppe-dire-no_43675248631.htm
Guarda come è bello’, diceva mia madre, davanti al Grundig rosso con antenna di acciaio deformata dalle mille torsioni che le si imponevano per cercare un segnale accettabile. Ero giovane in un piccolo paese di campagna. Nessuno aveva mai visto uomini di colore, se non nella loro rappresentazione coloniale, tramandata dai alcuni reduci dell’Abissinia. Ricordo che fece scalpore, perché disse no. Lo disse il 28 Aprile 1967, due giorni prima che nascessi io. All’epoca, non conoscevo il no, e la dimestichezza col bello era da venire. La psicoanalisi era ben lontana. Solo nel tempo sono riuscito ad intravedere quanto quest’uomo fondesse corpo e parola, oltreché emanare un’eleganza inusitata per un uomo che era solito picchiare. Il corpo, strumento capace di supplire a carenze di linguaggio e di istruzione, delle quali mai Clay fece mistero (‘Io sono il più grande, non sono il piu’ intelligente’). Seppe dire no in un tempo buio e conservatore, nel quale la paranoia atomica e lo spostamento sul terzo (quel vietcong che tutti noi conoscemmo solo successivamente in tanti film) rendeva impossibile, impensabile, inaccettabile disobbedire al comando della Zio Sam. Non era ancora il tempo del contraddittorio, dei diritti civili, ancora era da venire il dubbio sulla parola imposta. La guerra scatenata oltreconfine, contro il ’nemico’, fu il filo conduttore di una paranoicizazione costante nella storia degli Stati Uniti d’America. ‘Ho avuto un guaio nella mia città natale Così mi hanno messo un fucile in mano mandato a una terra straniera Per andare a uccidere l’uomo giallo’ canta Bruce Springsteen. E poi Fidel Castro, e tanto altri nemici ancora. Mostri stranieri, cattivi perfetti, bersagli ideali per mantenere intatta la linea divisoria che separava i bianchi dai neri, i figli degli ex schiavisti da quelli degli ex schiavi. Fu quell’aristocrazia venerata ancora oggi dalla ‘sinistra’ salottiera locale a incidere ancor piu’ a fondo questa linea di divisione nel tessuto sociale.
Segue qui:
http://www.lettera43.it/blog/la-stanza-101-lo-sguardo-di-uno-psicoanalista-sul-contemporaneo/cinematografia/quel-corpo-che-seppe-dire-no_43675248631.htm
SMARTPHONE, LE «CONNESSIONI» DA ACCENDERE A SCUOLA”
di Luigi Ballerini, avvenire.it, 8 giugno 2016
Ammettere lo smartphone in classe è urgente e utile? Già da tempo non si spegne più neanche in volo. Basta metterlo in ‘modalità aereo’ e il cellulare ci fa compagnia per tutto il viaggio. Al momento ci dobbiamo accontentare di essere offline in attesa del Wi-fi a diecimila metri, ma pur sempre possiamo restare incollati a quello schermo così ammaliante. Poco importa che sotto di noi le nuvole scivolino veloci assumendo delle straordinarie sembianze. Noi non le vediamo neanche.
Stando alle dichiarazioni del sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone anche a scuola verrà sancito che non si può fare a meno del cellulare. Il divieto di portarlo e usarlo in classe, imposto da una direttiva del 2007, sembra avere vita breve. Le aule rappresentavano forse l’unico luogo da cui il telefonino riusciva a star fuori o, almeno, poteva addormentarsi nelle tasche degli zaini o nei cassetti dei prof. Quest’ultima barriera potrebbe ora cadere sotto i nostri occhi.
La logica è che una scuola sempre più digitalizzata, wi-fizzata, smaterializzata non possa non stare al passo con i tempi. Chissà se anche nelle classi vigerà la forma compromissoria dell’acceso, ma silenzioso. Succede già al cinema, come se fingessimo tutti di non riconoscere quanto il vicino che ogni tre minuti controlla la mail ci impedisca di entrare nel film, disturbati da quella fastidiosa luce che si accende in continuazione accanto a noi.
Segue qui:
http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/LE-CONNESSIONI-DA-ACCENDERE-A-SCUOLA-.aspx
Ammettere lo smartphone in classe è urgente e utile? Già da tempo non si spegne più neanche in volo. Basta metterlo in ‘modalità aereo’ e il cellulare ci fa compagnia per tutto il viaggio. Al momento ci dobbiamo accontentare di essere offline in attesa del Wi-fi a diecimila metri, ma pur sempre possiamo restare incollati a quello schermo così ammaliante. Poco importa che sotto di noi le nuvole scivolino veloci assumendo delle straordinarie sembianze. Noi non le vediamo neanche.
Stando alle dichiarazioni del sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone anche a scuola verrà sancito che non si può fare a meno del cellulare. Il divieto di portarlo e usarlo in classe, imposto da una direttiva del 2007, sembra avere vita breve. Le aule rappresentavano forse l’unico luogo da cui il telefonino riusciva a star fuori o, almeno, poteva addormentarsi nelle tasche degli zaini o nei cassetti dei prof. Quest’ultima barriera potrebbe ora cadere sotto i nostri occhi.
La logica è che una scuola sempre più digitalizzata, wi-fizzata, smaterializzata non possa non stare al passo con i tempi. Chissà se anche nelle classi vigerà la forma compromissoria dell’acceso, ma silenzioso. Succede già al cinema, come se fingessimo tutti di non riconoscere quanto il vicino che ogni tre minuti controlla la mail ci impedisca di entrare nel film, disturbati da quella fastidiosa luce che si accende in continuazione accanto a noi.
Segue qui:
http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/LE-CONNESSIONI-DA-ACCENDERE-A-SCUOLA-.aspx
ODE A BENIGNI. Schiavo di antichi pregiudizi è chi oggi attacca il comico per il suo sì al referendum d’ottobre
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 8 giugno 2016
Al tavolino accanto al mio, due signori di mezza età dialogano con accanimento. Il tema è il referendum, dal suono sempre più funereo. “Sia gentile, mi spieghi perché mai Benigni, che è sempre stato comunista, ora dovrebbe votare con la destra?”. “Semplice, perché il Pd non è più un partito comunista. Non se n’è accorto?”. “Si che me ne sono accorto. E non le va bene che finalmente il partito comunista sia diventato riformista?”. “No, caro, non va proprio bene, perché il Pd non è un vero partito riformista, è un partito di destra che si finge riformista”. “Pensavo che di destra fossero gli altri, Berlusconi, Salvini, Meloni”. “Sì che lo sono, ma una destra al chiaro di luna, che non rinnega d’esserlo; quelli del Pd invece, del Pd renziano, sono falsi sinistri e falsi destri, falsi falsi insomma”. “Falsi? Ma se il loro nume tutelare è nientemeno che Napolitano, il comunista più riformista della storia italiana, il più saggio e giusto”. “Lo era, forse, ma adesso è diventato anche lui un falso riformista”. “Lei straparla. E Benigni…”. “È un traditore, non c’è dubbio. E mi fermo qui, perché c’è un signore che fingendo di leggere il giornale ci sta ascoltando”. “Che ascolti pure, non ho niente da nascondere. Quindi?”. “Appello al popolo: nessuno più in piazza a sentire l’inferno benignano! Tra l’altro recita come un cane latra”. “Lei sta esagerando, Benigni è un grande attore”. “E’ un travestito”. “In che senso?”. “E’ un opportunista; lo è sempre stato, un Pinocchio, un pidocchio”.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/06/08/ode-a-benigni-referendum-costituzionale___1-vr-142952-rubriche_c306.htm
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Al tavolino accanto al mio, due signori di mezza età dialogano con accanimento. Il tema è il referendum, dal suono sempre più funereo. “Sia gentile, mi spieghi perché mai Benigni, che è sempre stato comunista, ora dovrebbe votare con la destra?”. “Semplice, perché il Pd non è più un partito comunista. Non se n’è accorto?”. “Si che me ne sono accorto. E non le va bene che finalmente il partito comunista sia diventato riformista?”. “No, caro, non va proprio bene, perché il Pd non è un vero partito riformista, è un partito di destra che si finge riformista”. “Pensavo che di destra fossero gli altri, Berlusconi, Salvini, Meloni”. “Sì che lo sono, ma una destra al chiaro di luna, che non rinnega d’esserlo; quelli del Pd invece, del Pd renziano, sono falsi sinistri e falsi destri, falsi falsi insomma”. “Falsi? Ma se il loro nume tutelare è nientemeno che Napolitano, il comunista più riformista della storia italiana, il più saggio e giusto”. “Lo era, forse, ma adesso è diventato anche lui un falso riformista”. “Lei straparla. E Benigni…”. “È un traditore, non c’è dubbio. E mi fermo qui, perché c’è un signore che fingendo di leggere il giornale ci sta ascoltando”. “Che ascolti pure, non ho niente da nascondere. Quindi?”. “Appello al popolo: nessuno più in piazza a sentire l’inferno benignano! Tra l’altro recita come un cane latra”. “Lei sta esagerando, Benigni è un grande attore”. “E’ un travestito”. “In che senso?”. “E’ un opportunista; lo è sempre stato, un Pinocchio, un pidocchio”.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/06/08/ode-a-benigni-referendum-costituzionale___1-vr-142952-rubriche_c306.htm
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CUORI CHE CERCANO: RELIGIONI NEL TRAMBUSTO DEL MONDO” CON UMBERTO GALIMBERTI
da radio3.rai.it, 5 giugno 2016
Ancora una riflessione sul significato delle religioni in un tempo in continua trasformazione come il nostro: che cosa affiora alla superficie, nel trambusto e nel travaglio che le comunità religiose stanno vivendo, delle ragioni profonde che conducono gli esseri umani a elaborare una fede, un pensiero intorno a Dio, alla speranza, al bene, al desiderio, alla vita? In che direzione è cambiato il senso della fede in Occidente? È andato verso una desacralizzazione del religioso, o verso una sua essenzializzazione? È possibile che oggi chi viva in profondità un’esperienza di fede vada verso una maggiore responsabilità delle proprie azioni nei confronti del mondo? “La religione è molto di più di un libro di immagini” afferma il nostro ospite di oggi, il filosofo Umberto Galimberti. E allora come mai i giovani di oggi “desiderano liberarsi della religione come dell’infanzia”, come ci scrive una professoressa? Che cosa vede lo sguardo del filosofo al di là dell’universo dominato dalla tecnica?
Vai al link:
http://www.radio3.rai.it/dl/portaleRadio/media/ContentItem-98c7507c-dec5-4be3-a96a-60c7b4bedd93.html
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Ancora una riflessione sul significato delle religioni in un tempo in continua trasformazione come il nostro: che cosa affiora alla superficie, nel trambusto e nel travaglio che le comunità religiose stanno vivendo, delle ragioni profonde che conducono gli esseri umani a elaborare una fede, un pensiero intorno a Dio, alla speranza, al bene, al desiderio, alla vita? In che direzione è cambiato il senso della fede in Occidente? È andato verso una desacralizzazione del religioso, o verso una sua essenzializzazione? È possibile che oggi chi viva in profondità un’esperienza di fede vada verso una maggiore responsabilità delle proprie azioni nei confronti del mondo? “La religione è molto di più di un libro di immagini” afferma il nostro ospite di oggi, il filosofo Umberto Galimberti. E allora come mai i giovani di oggi “desiderano liberarsi della religione come dell’infanzia”, come ci scrive una professoressa? Che cosa vede lo sguardo del filosofo al di là dell’universo dominato dalla tecnica?
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MASSIMO RECALCATI A REPIDEE: “LA PERVERSIONE COME CIFRA DEL NOSTRO TEMPO”
da video.repubblica.it, 8 giugno 2016
Al Maxxi di Roma lo psicoanalista e saggista Massimo Recalcati parla della perversione come “la cifra del nostro tempo”.
Vai al link:
http://video.repubblica.it/dossier/la-repubblica-delle-idee-2016/repidee-massimo-recalcati-la-perversione-come-cifra-del-nostro-tempo-integrale/242546/242557
(Fonte dei pezzi della rubrica: http://rassegnaflp.wordpress.com)
Al Maxxi di Roma lo psicoanalista e saggista Massimo Recalcati parla della perversione come “la cifra del nostro tempo”.
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http://video.repubblica.it/dossier/la-repubblica-delle-idee-2016/repidee-massimo-recalcati-la-perversione-come-cifra-del-nostro-tempo-integrale/242546/242557
(Fonte dei pezzi della rubrica: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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