Più che paradossale il titolo di questo post è ironico, anzi autoironico. Fa il verso a un sito che poco meno di dieci anni fa aprii sul web con un titolo pretenzioso-narcisistico: “La psicanalisi secondo Sciacchitano”. Fu una scelta infelice. Chi si interessa alla psicanalisi oggi? Chi a uno psicanalista generico? Oggi il nuovo titolo vuole continuare in altro modo il discorso che quel sito ha avviato: il discorso sulla scientificità della psicanalisi. Avverto subito che il tema non è molto gradito, anzi è addirittura politicamente scorretto. Si acconsente a prestare orecchio a chi divulga le diverse psicanalisi secondo Freud, secondo Jung, secondo Lacan, secondo questo o quell’altro maestro, ma una psicanalisi scientifica, senza maestri, frutto del lavoro collettivo di pensiero, non incontra il favore popolare. Perché? Due volte non l’incontra: sia perché si presenta come scienza, e non come genere letterario, che al posto di romanzieri e poeti accoglie psicanalisti, sia perché pretende di vendersi come psicanalisi, e non come psicoterapia, fatta da medici professionisti invece che da psicanalisti free lance. L’esperienza me lo conferma in modo patetico. Quando imprudentemente mi arrischio a parlare in pubblico di psicanalisi scientifica c’è sempre qualcuno in sala che o salta sulla sedia o coraggiosamente dalla sedia si alza e, anche a nome di quelli che pur storcendo il naso non hanno avuto l’ardire di prendere la parola, mi chiede: “Scusi, Lei dove va a parare?”
Vado a parare, proprio come psicanalista, dalle parti di Galilei, in quella regione dove all’alba del XVII secolo emerse dalle acque buie del medioevo un ben preciso crinale storico, che separava con una netta e irreversibile soluzione di continuità la scienza antica dalla moderna. Una rottura epistemologica, diceva Althusser, tuttora mal digerita. Sin dal suo nascere alla scienza galileiana si resiste, per lo più ignorandola in nome di valori umanistici, un tempo, o di lotta al capitalismo, fino a ieri. Potrei fare un lungo discorso in proposito, per esempio sulla fuga dei cervelli dall’Italia o sul penoso stato della ricerca nel nostro paese, ma mi esonero dall’ingrato compito, perché troppo impegnativo e forse anche controproducente: nell’inevitabile polemica rinforzerei le resistenze che pretendo combattere.
Dunque, per farla breve, ammetto che da una parte alligna la vecchia scienza aristotelica, lo scire per causas, tipicamente la storiografia, sul versante collettivo, e la medicina, su quello individuale; dall’altra si estende la moderna scienza galileiana, che formula modelli matematici dei fenomeni a prescindere da agenti eziologici metafisici. Sono due esercizi epistemici molto diversi; in comune hanno solo la prescrizione che Platone diede agli astronomi del suo tempo di “salvare i fenomeni”, nel caso, di spiegare gli erratici movimenti celesti dei pianeti, detti così proprio perché errabondi. Ma le due pratiche eseguono lo stesso compito con modalità molto diverse, addirittura contrapposte: la prima invocando, la seconda non invocando cause; la prima essendo metafisica, la seconda semplicemente fisica.
La finalità di questo post è dimostrare che, in parallelo alle due possibilità di scienza, esistono due possibilità di psicanalisi, l’antica e la moderna: una affiliata alla scienza aristotelica (e prima ancora platonica) e l’altra radicata in territorio galileiano. È chiara l’opzione di chi scrive, nel pieno rispetto della libertà di scelta di chi legge, nonché nel massimo rispetto della produzione dell’autore cui mi riferisco, Freud. Produzione che non rinnego in toto ma solo in parte, preoccupandomi di depurarla di quella parte che potrebbe esporre il tutto al rischio di deperire.
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Il resto del discorso si sviluppa lungo una simmetria molto chiara; l’alternativa dell’eziologia vs la non eziologia, che è qualitativa, sarà quantizzata, cioè sarà vista come contrapposizione tra due modalità logiche: uno-uno vs uno-molti (o molti-uno), essendo la transizione dalla qualità alla quantità la cifra con cui si può leggere il passaggio dalla scienza antica alla moderna, testimoniato per esempio dall’emergere della nozione di variabilità, che gli antichi non avevano.
Dal punto di vista teorico la prima e più antica forma di scienza è un’attività epistemica che ha come oggetto il tempo. Verte, infatti, sulla diacronia. Privilegia in modo quasi esclusivo la narrazione di come i fenomeni evolvono linearmente nel tempo – in psicologia si chiama psicogenesi; racconta storicamente la catena eziologica delle cause e degli effetti, che sono cause di altri effetti, a partire da una causa originale presupposta, la causa prima. En passant, faccio notare l’importanza della nozione di catena nella psicanalisi lacaniana, che presenta la catena eziologica sotto le vesti logocentriche della catena significante, dove ogni significante rappresenta il soggetto per un altro significante, che rappresenta ecc.
La seconda e più moderna forma di scienza è una pratica epistemica orientata alla sincronia (non alla junghiana sincronizzazione!), cioè guarda allo spazio più che al tempo. La sincronia prescinde dal tempo e dall’origine dei fenomeni; mette in gioco degli elementi di base – potrebbero essere gli atomi di Democrito o i significanti di Lacan – e li fa interagire all’interno di una struttura, non necessariamente lineare, grazie a dei clinamen, o inclinazioni, che correlano la traiettoria di un elemento con quelle di tutti gli altri: sono le piccole deviazione nel moto degli atomi, in meccanica, o le piccole variazioni nella discendenza, in biologia. In un regime caotico, piccole variazioni locali possono produrre grandi spostamenti globali in tutto il sistema; sono catastrofi planetarie nell’universo o estinzioni di massa nella biosfera. I risultati delle molteplici interazioni tra particelle elementari sono effetti per cui non si danno cause deterministicamente prevedibili.
En passant, faccio notare che i cultori delle scienze diacroniche chiamano riduzionismo questo secondo approccio scientifico con una connotazione spregiativa, perché non sarebbe in grado di “salvare” la complessità dei fenomeni storici, in genere i fenomeni della vita individuale e collettiva. L’argomento è simile a quello usato da Platone contro i filosofi naturalisti che lo precedettero. Si sa il guadagno della “seconda navigazione” platonica: fu acquisita la dimensione metafisica a spese di quella scientifica nel nome di cause non meccaniche. Come ho già detto, alla scienza sincronica si resiste sin dai tempi del processo a Galilei. Ma non entro nell’analisi delle “cause” di questo fenomeno tuttora rigoglioso. Come diceva Lacan, lascio la resistenza ai resistenti.
In pratica, per ciò che concerne la psicanalisi, la dicotomia dei due approcci scientifici – eziologico il primo, non eziologico il secondo – si ripercuote nel modo di condurre la cura psicanalitica. Da una parte la cura del sintomo nevrotico è orientata alla sua risoluzione, portando il soggetto allo stato psichico pre-sintomatico, ripercorrendo a ritroso la catena eziologica avviata dal trauma psichico, in Freud sessuale; dall’altra la cura è un esperimento puramente mentale, di ordine più etico che terapeutico; la psicanalisi scientifica tenta di portare il soggetto a una revisione del proprio intelletto, alla emendatio intellectus secondo Spinoza, cioè a rivedere l’intera concezione del mondo e della vita. Devo dirne qualcosa di più per uscire dal vago. Qui anticipo che si tratta di passare dalla visione del singolo fenomeno a partire dalla sua origine alla visione del singolo fenomeno nel contesto di fenomeni simili. Come dicevo sopra, si tratta di passare dall’uno ai molti, dalla qualità alla quantità.
L’approccio diacronico è uno-uno; quello sincronico uno-molti. L’approccio diacronico interpreta e comprende, cioè offre un senso svelando il segreto dell’enigma; è ermeneutico. L’approccio sincronico non interpreta ma spiega e giustifica mediante modelli o mediante generalizzazioni. In psicanalisi l’ermeneutica diacronica mira a estrarre dal sintomo, considerato un enigma, il significato latente coperto dal significato manifesto. La logica ermeneutica è uno-uno: dato il significato manifesto, c’è un significato latente che gli corrisponde; visto il volo degli uccelli, l’augure estrae un pronostico. È evidente l’isomorfismo logico con il rapporto eziologico: dato l’effetto c’è una causa che lo produce (a volte più di una, ma ciò non toglie l’univocità deterministica della causa che produce un ben determinato effetto).
Radicalmente diverso è l’approccio sincronico. In psicanalisi, dato un sintomo, l’analista della sincronia si preoccupa di collocarlo nello spazio di tutti i sintomi compatibili con la struttura di base. Uno-molti: il sintomo presentato dal paziente è uno solo, ma l’analista si preoccupa di contestualizzarlo nell’intorno di tutti i sintomi simili dello stesso analizzante o di altri analizzanti che operano nello stesso collettivo. L’approccio sincronico è scientifico nel senso che opera generalizzando. Quello che interessa è la covarianza di tutti i sintomi nevrotici simili, per individuare al loro interno ciò che non varia, ossia il loro invariante. Covarianza-invarianza: covarianza per i molti, invarianza per l’uno. Si chiama anche formalizzazione e si caratterizza per privilegiare la coerenza sulla verità, a prescindere dal senso. Questa è la revisione intellettuale che la nuova scienza propone: uscire dalla modalità interpretativa, nel caso peggiore orientata in senso paranoico, per entrare nella modalità speculativa o del vero pensiero che pensa tutte le possibilità per ridurle eventualmente ad una. (Non sempre la reductio ad unum è possibile, fatta salva la non contraddizione.)
Ci sono differenze clinicamente rilevanti nei due approcci. Nel primo caso la cura analitica agisce metaforicamente, sostituendo al significato manifesto quello latente, ricavato ermeneuticamente. Nel secondo caso la cura analitica agisce metonimicamente, associando al sintomo attuale i suoi co-sintomi potenziali, per individuare il meccanismo che produce l’uno e gli altri. Quale cura è più efficace? Mi sia concesso di non pronunciarmi.
Se quanto precede è chiaro, è chiaro anche come la mia posizione psicanalitica abbia potuto sempre più radicarsi nel territorio della scienza moderna, cioè della sincronia, della struttura, dell’esperimento mentale, del tentativo sperimentale di terapia, del therapeutischer Versuch, come lo chiamava Freud; insomma, per rifarmi al titolo di questo post, oggi sto dalla parte delle sensate esperienze e delle necessarie dimostrazioni, di cui nel 1615 Galilei scriveva a Cristina di Lorena. Nel caso della meccanica galileiana le sensate esperienze furono le diverse prove di caduta di gravi diversi a diverse velocità lungo piani diversamente inclinati – era il momento della covarianza o della variabilità; la necessaria dimostrazione fu l’individuazione della costanza dell’accelerazione di gravità per ogni corpo, indipendente dalla sua massa – fu il momento dell’invarianza (che Lacan platonicamente chiamava equigravità).
Allora mi si chiederà: cosa significa in pratica la scelta di campo galileiana per il mestiere di psicanalista? Quali conseguenze comporta?
Mi sia consentito indugiare brevemente prima sulle conseguenze personali, soggettive; mi dedicherò subito dopo a quelle cliniche, oggettive.
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Per me l’opzione galileiana è stata una scelta etica che inizialmente ha comportato un rischio di caduta di immagine: rischiavo di passare per eretico sia del freudismo sia del suo derivato, il lacanismo, entro cui ero cresciuto e mi ero formato professionalmente. Poco male: ho perso i contatti con molti supposti amici e colleghi e ho ricevuto qualche paziente in meno. Pubblicamente, non ero più considerato psicanalista perché non operavo con gli insegnamenti scolastici ortodossi. Vantaggi: senza il telefono che squilla e con più ore di lavoro a disposizione si pensa meglio. E qui c’era da pensare bene cosa restava della psicanalisi, una volta alleggerita dalla bardatura eziologica, pesantemente medicale: le pulsioni sessuali e la pulsione di morte in Freud, l’oggetto causa del desiderio in Lacan.
Lo dico ancora in breve: tolta la causa, resta la struttura, magari matematicamente presentabile. Uscendo dal fiume della diacronia, si entra nel mare aperto della sincronia.
Faccio un esempio di clinica quotidiana, ben noto a tutti: il lapsus freudiano. È comunemente considerato un errore causato da una verità inconscia, che finalmente supera le resistenze individuali e le censure collettive e si manifesta quasi come tale. Prima relegata nell’inconscio, senza che il soggetto lo sapesse, ora la verità viene alla luce. Il tema è sempre quello antico dell’uno-uno: un errore, una verità. La verità come causa di errore è il caposaldo degli scritti lacaniani; fa parte della mitologia del maestro francese, ben compendiata nel motto: Moi, la vérité, je parle (“Io, la verità, parlo”).
Ma tutta la vicenda può essere pensata meno mitologicamente, per esempio, topologicamente. Un teorema topologico non facile da dimostrare in modo rigoroso ma molto intuitivo – l’intuizione stessa è topologicamente strutturata in aree della nostra corteccia cerebrale – afferma che due curve chiuse qualsiasi hanno sempre un numero pari di intersezioni o punti comuni (e questo è vero anche se materialmente non si intersecano, essendo lo zero un numero pari). In questo caso la parità delle intersezioni è l’invariante della struttura; la parità è ciò che non varia, comunque varino le curve che si intrecciano. (In qualche post precedente, per esempio, nel secondo, ho pontificato a modo mio sulla variabilità. Se ti interessa, vai al link: http://www.psychiatryonline.it/node/6042 sulla necessità di pensare la variabilità per pensare il collettivo).
Cosa c’entra il teorema universale con il lapsus particolare? Lo vedi tu stesso. Tu disegni male le curve. Vuoi disegnare dei cerchi e ti vengono delle ellissi. Sarebbe un errore? Dal punto di vista strutturale, se anche fosse un errore, non è un lapsus. Per la loro struttura topologica cerchi ed ellissi sono fatti in modo tale che si intersecano sempre in un numero pari di punti: due cerchi al massimo in due, due ellissi al massimo in quattro punti. Insomma, il lapsus o meglio i lapsus segnalano l’esistenza della struttura e, viceversa, la struttura forma l’ambiente in cui i lapsus si contestualizzano. L’errore o meglio gli errori non inficiano la struttura ma la mostrano. Comunque sbagli a disegnare le curve chiuse, le intersezioni sono sempre pari. E sarà sempre così. La struttura non varia nel tempo; è sincronica. La sincronia strutturale sostiene tutte le possibili diacronie, materializzate in tutte le possibili varianti di disegno, che solo per un innato antropomorfismo ci ostiniamo a chiamare lapsus. L’effettiva diacronia è un fatto non strutturale che la struttura giustifica. Due, quattro, sei … intersezioni sono fatti secondari, accessori, accidentali. Accidentale vuol dire senza causa. Capita: è un evento che può essere e può non essere. I filosofi lo chiamano contingente, perché sta alla frontiera tra poter essere e poter non essere. Tutta la biologia darwiniana, lo ricordo en passant, è il regno del contingente. Stesso destino toccherà alla psicanalisi?
Fermiamoci un momento e rassicuriamoci. La psicanalisi non va a monte se si sospende la nozione di causa. L’epoché eziologica rischia di diventare un’operazione scientifica. Quel che resta di Freud una volta espunta la causalità metapsicologica non è roba da poco. Ho già segnalato in questa rubrica le tre congetture scientifiche fondamentali di Freud, indipendenti dal principio di ragion sufficiente (vai al link: http://www.psychiatryonline.it/node/6230 sulla contemporaneità di Freud). Qui riprendo il tema, precisando che sono tre congetture universal-esistenziali, formulabili in termini dei quantificatori logici “per ogni” e “almeno uno”, come si confà a molti enunciati matematici, sempre all’insegna dell’uno-molti. Per esempio, il V postulato di Euclide si formula affermando che per ogni punto del piano esiste una sola parallela a una retta data. Questa è la formulazione moderna; l’originale euclidea non usa operatori logici, ma convoca l’infinito, apeiron. Su questa differenza, che non è solo retorica, non mi posso soffermare qui.
Allora, matematicamente parlando, nella psicanalisi freudiana si può dire che
a) per ogni soggetto esiste un inconscio, cioè esiste un sapere che il soggetto non sa di sapere;
b) per ogni soggetto esiste una rimozione originaria, cioè esiste almeno una rappresentazione che non sarà rappresentata alla coscienza (in altri termini, il sapere sull’inconscio è e rimane incompleto);
c) per ogni soggetto esiste un tempo di sapere, cioè ogni soggetto acquisisce parte del sapere inconscio in un secondo tempo, grazie al lavoro analitico che avrà fatto (Nachträglichkeit o azione differita o après-coup).
Analogamente, quel che resta di Lacan, una volta depurato del suo logocentrismo analogico, (“l’inconscio è strutturato come un linguaggio”) è tutta la sua analisi dell’intersoggettività mediata dal piccolo e dal grande altro, dal simile e dal dissimile, dall’immaginario e dal simbolico, dal desiderio che non è bisogno, dal godimento che non è piacere.
Per un galileiano come me c’era molto da lavorare. Risultati raggiunti? Mi piace segnalarne uno che apre prospettive… retrospettive, addirittura cartesiane.
Ho scoperto, infatti, una riposta affinità tra freudismo e intuizionismo già a partire da Cartesio. Per Freud l’inconscio era “il regno dell’illogica” (Compendio di psicanalisi, cap. V), non ospitando né il tempo né la negazione. Freud esagerava. Forse – mi sono detto – l’inconscio freudiano ha una sua logica, che ovviamente non è quella sillogistica di Aristotele. Perché non provare con la logica intuizionista di Brouwer, che sospende il principio del terzo escluso? (Mi aprì questa via l’insegnamento di Lacan sulla funzione simbolica del padre come terzo, in quanto separatore della diade materno-filiale.) Nella logica intuizionista, essenzialmente costruttivista, che dà per vero ciò che si costruisce e rifiuta verità innate, A e non A possono essere entrambi enunciati falsi (mentre in logica aristotelica uno dei due enunciati è sempre vero, anche se non si può dire quale). Come si intuisce, la mossa intuizionista allarga il campo del sapere al di là dell’hic et nunc dell’enunciato al campo di tutte le possibili (infinite) enunciazioni, comprese le congetture che non si possono né dimostrare né confutare, quindi non sono – per ora – né vere né false. Ecco così introdotta la dimensione del tempo epistemico, assente dalla logica aristotelica ma ben presente in psicanalisi nelle nozioni di azione differita secondo Freud e di tempo logico secondo Lacan (vedi il sofisma dei tre prigionieri).
Due considerazioni sul sapere intuizionista: una teorica, una clinica.
Il sapere intuizionista è parente di quello cartesiano. Per Cartesio tutto il verosimile, sia in forma affermativa (A) sia negativa (non A), è potenzialmente falso. È questa la base di partenza da cui il soggetto ancora non esistente parte alla ricerca della propria esistenza (paradosso!). Solo a posteriori (nachträglich) sarà un soggetto che pensa. Se pensa il falso, esisterà veramente.
Per completezza segnalo che oggi l’intuizione filosofica cartesiana è formalizzata attraverso l’algoritmo del forcing di marca intuizionista, messo a punto da Paul Cohen. L’enunciato potenzialmente falso A è forzato a esser vero dallo stato epistemico Gamma. Non esiste forcing del falso, essendo tutti gli enunciati di per sé potenzialmente falsi. La negazione dell’enunciato A è forzata a essere vera nello stato epistemico Gamma, se A non è forzato a essere vero né da Gamma né da tutti gli stati epistemici accessibili da Gamma (che formano l’estensione di Gamma). Questa logica è molto vicina a quella freudiana. “Non è la madre”, dice l’analizzante. “Calma”, ribatte l’analista. “In un futuro stato epistemico accessibile al lavoro analitico potrebbe essere la madre”.
(Apro qui una piccola parentesi galileiana, che ha una sua rilevanza psicopatologica. “Ché la scienza non può se non avanzarsi”, afferma Galilei alla fine della prima giornata del suo più famoso dialogo. Nello spirito galileiano non è un’affermazione illuministica sul generale progresso dello spirito umano; è una semplice questione di logica della pratica scientifica. Se pensi il falso, come accade per qualunque ipotesi di lavoro, i casi sono due: o il tuo pensiero è in seguito confermato falso, per esempio dalle risultanze sperimentali, e nel tuo stato epistemico non cambia nulla, o viene confutato da nuove acquisizioni e il vero nel tuo stato epistemico si accresce. Il modo di procedere del soggetto della scienza è l’esatto contrario del modo di procedere paranoico. Nel suo delirio il paranoico pensa il vero. Anche qui i casi sono due: o viene confermato il vero ed epistemicamente non cambia nulla o viene confutato e il vero decresce. Il paranoico, che è lucido, lo sa molto bene e ammette solo conferme al suo delirio, che risulta perciò incorreggibile.)
Segnalo alcuni teoremi di questa logica “progressiva” (non difficili da dimostrare), perché hanno un’aria freudiana per la simmetria con le tre citate congetture di base.
a) Non si può non sapere (l’inconscio esiste e sa).
b) Se non sai, allora sa (che non sai).
c) So di non sapere (che so, quindi potrò sapere).
Analoghi teoremi valgono sostituendo all’operatore “sapere” l’operatore “desiderare”, a conferma della natura epistemica del desiderio inconscio. I dettagli di questa analisi si trovano nel mio ultimo libro Il tempo di sapere. Saggio sull’inconscio freudiano (Mimesis, Milano 2013). Da ultimo, aggiungo che di questa logica epistemica si possono dare modelli topologici infiniti, facendo corrispondere agli enunciati gli insiemi aperti (privi di frontiera) di opportuni spazi topologici, per esempio quelli connessi. Per altro, come ha dimostrato Gödel, la semantica della logica intuizionista è necessariamente infinita. Sull’oggetto infinito il discorso sarà prossimamente ripreso, come ho già annunciato.
Lungo questa strada, che può sembrare tortuosa, ci si allontana sempre più dall’antropomorfismo dei miti freudiani del parricidio e della castrazione, come era in parte prevedibile avendo da tempo abbandonato la dimensione diacronica della narrazione. I miti freudiani sono fantasmi maschili molto comuni, che hanno il loro corrispondente nei fantasmi femminili di violazione. Entrambe le mitologie (o fantasmologie) sono generiche, non generali. Sono narrazioni presenti in molti casi clinici, non in tutti.
A pensarci bene anche l’approccio eziologico determinista è antropomorfo, in quanto presuppone che le cause siano potenze animistiche che agiscono sempre e in modo magico trasformando una cosa in un’altra. Qui l’eziologismo decade perché decade il principio del terzo escluso e non si può stabilire a priori se la causa o agisce o non agisce. (I filosofi ritornino all’argomento aristotelico dei futuri contingenti o della battaglia navale).
L’antiantropomorfismo è per me un segnale che la strada imboccata è buona e forse porta a una psicanalisi scientifica, cioè galileiana. Forse a più di una psicanalisi galileiana. Non esistono forse oggi due fisiche galileiana, entrambe con sensate esperienze e necessarie dimostrazioni, ma finora inconciliabili? Sono la relativista e la quantistica. Troppa grazia! E pensare che a me ne basterebbe una sola di psicanalisi galileiana!
Concludo con una considerazione di pratica clinica.
Gödel ha dimostrato ma non ha mai pubblicato la dimostrazione (non sapremo mai perché) che la prova ontologica dell’esistenza di dio richiede come condizione necessaria, tra l’altro, il principio del terzo escluso. In logica intuizionista non si può dimostrare l’esistenza di dio, cioè dell’Uno, benché ammetta semantiche infinite, come quelle topologiche. Ciò è rilevante per la direzione di un’analisi. L’analista intuizionista è avvertito che chi parla in seduta non è necessariamente uno e forse non esiste di necessità il soggetto che parla. Dalla logica intuizionista viene messo in dubbio il ça parle lacaniano. Il soggetto, se c’è, non è un dato oggettivo ma è in dissolvenza. Non è certamente singolare, forse è plurale e collettivo. Il singolo parlante non è il soggetto dell’enunciazione, ma solo un suo modello, un esemplare accidentale della classe di tutti i soggetti che possono realizzare quella enunciazione. Anche in clinica vale la logica uno-molti. Insomma, l’analisi non si fa con la persona singola ma con il contesto cui la persona singola appartiene. Chi parla in analisi non è l’uno; l’uno presta la propria voce ai molti che parlano attraverso lui. Il fenomeno del transfert è esemplare della pluralità che costituisce la singolarità. Don Giovanni non ama forse sempre la stessa donna nelle donne che insegue nelle diverse nazioni europee? Non c’è del collettivo in lui?
L’analisi, cioè, è sempre collettiva, anche quando si realizza nel setting classicamente freudiano del divano e della poltrona; l’analista rientra a far parte di una classe di personaggi amati-odiati; l’analizzante è il portavoce di ciò che pensa il collettivo di appartenenza. La vera analisi è l’analisi dell’invarianza all’interno di una covarianza ambientata nel collettivo dove il soggetto individuale vive. Ricordiamolo questo: analizzare la singola persona, spingendola alla ricerca della sua singolarità più propria è pericoloso; può spingere verso il delirio di unicità (non dimentichiamo le “professioni deliranti” secondo Valéry); può scatenare reazioni terapeutiche negative (Freud) o paranoie post-analitiche (Lacan). Una buona teoria degli agiti in analisi potrebbe partire da qui, rilevando, per esempio, che per lo più discendono dall’accanimento terapeutico dell’analista sul singolo caso.
PS. Nelle 7000 e più pagine delle sue Gesammelte Werke Freud non citò MAI Galilei. Si era fissato su Leonardo, grande artista ma più ingegnere che uomo di scienza. Al museo leonardesco di Vinci ho visto un esemplare in legno di velocipede costruito da Leonardo. Aveva il manubrio fisso. Pertanto non poteva stare in equilibrio in corsa, perché la caduta della bicicletta va corretta dal ciclista, per effetto giroscopico, girando il manubrio dalla parte dove sta per cadere. La meccanica di Leonardo era ancora archimedea, cioè statica. Leonardo non accedette alla cinematica.
Più scaltro fu Lacan, che nel Discorso di Roma del 1953 citò Galilei per segnalare l’affinità epistemologica tra gli esperimenti mentali del fisico e dell’analista. Come ho detto, a Lacan devo la sostanza, anche se non la forma, delle soprariportate considerazioni.
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