Ieri sera ho incontrato Aldrovandi, ma forse era Cucchi… Aveva già l’aria degradata ma restava alto robusto e minaccioso. È arrivato al pronto soccorso senza manette accompagnato dal 118 e due carabinieri insieme ad altre persone, vicini di casa, con cui era rimasto coinvolto in una rissa.
Tutto il Pronto Soccorso esplode, la sua presenza è inaccettabile e pericolosa, e pretendono che io lo porti subito in Spdc dove chissà perché deve andare tutta la spazzatura umana.
Protesto, con la mia voce gracchiante, cito i casi di cronaca, spiego e tranquillizzo tutti. In pratica devo fare lo psicoterapeuta di massa alternando psicodramma e psicoeducazione. Ci sono davvero troppe persone e troppi pazienti in condizioni mediche e chirurgiche precarie a fare da testimoni con i loro parenti.
Intanto il paziente presunto è sempre agitato e sempre più solo. Sfido gli infermieri, come tattica a fargli solo due milligrammi di diazepam. Sfido i carabinieri ad arrestarlo perché chi è pericoloso e minaccia disastri va fermato. Sfido i vicini a denunciare chi, a loro dire, fa danni, li minaccia e li picchia.
Vinco solo la prima sfida, ovviamente, poi non faccio più niente. Resto in attesa, in piedi dietro le scrivanie dei medici e parlo solo a bassa voce con la novizia collega ricordandole i termini medico legali e la necessità di fare almeno un prelievo di sangue. Sono tre cinque anni, credo, che non possiamo più richiedere il tossicologico, se non dopo autorizzazione del giudice, ma questa arriva sempre dopo ventiquattro quarantotto ore.
Il paziente è contenuto dai carabinieri in uno spazio vicino ai bagni, loro hanno i guanti e lo spintonano quando prova ad alzarsi dalla sedia. Urlano tutti, allora vado io, a mani nude, con voce calda a stringere la mano al paziente, a chiedere chi è, cosa è successo, come si sente. È stata la fiala, ormai dopo un quarto d’ora, ad averlo reso docile al dialogo, ma solo io lo trattavo da essere umano. La diffidenza sale contro il medico neobasagliano in questi casi, fino a scene isteriche di qualche collega, infermiere o rappresentante delle forze dell’ordine esasperati dalla necessaria calma, determinazione e scarsità degli interventi contenitivi violenti o farmacologici.
Quando però si instaura il dialogo, anche per gli altri, lentamente, si installa la fiducia nel paziente, ma non abbastanza in fretta dato che loro non hanno assunto benzodiazepine.
Il paziente è molto empatico, la mia voce o forse la gestualità gli gli fanno capire subito che sono gay, ma sono uno di quelli all’antica, quindi non mi nascondo e non mi offendo. Lui si apre emotivamente e parla di sé, anche se in modo ancora confuso e mostra chiari segni di insofferenza paranoidea verso i vicini, una buona fiducia in me e un aspetto delicato e depresso, nel senso di autodistruttivo, per l’assenza totale di riferimenti e finalità esistenziali. Vive di rendita, sembra, ma comunque in modo miserabile e da solo per non dare troppo fastidio.
Un primo tentativo di fare un prelievo fallisce. Tutti mi chiedono a che serva e se non sarebbe meglio mandare via in qualche modo, pregano anche per un arresto, del paziente, ma altri hanno talvolta reclamato il mio.
Questi carabinieri sono umani, sono gli unici ad aver mantenuto il contatto con il paziente. È per creare questo legame che ero rimasto altrove fermo, fatta fare la fiala, perché la mia onnipotenza presunta o pretesa non impedisse la creazione di una rete di contatti in pronto soccorso.
Arriva la collega chirurgo. Bravissima, accogliente, pragmatica. Lo gestisce meglio di me perché lei ha un obiettivo, l’esame fisico, mentre io sto solo aspettando che il metabolismo e il tempo smaltiscano le porcherie con cui si è avvelenato.
Steso sul lettino, dove solo noi due restiamo il paziente si lascia andare al contatto fisico e un’infermiera orgogliosa e arrabbiata riesce anche a prelevare il sangue.
Più velocemente del normale scopriamo che non ha crasi muscolare significativa ma gammaGT oltre i mille e transaminasi oltre i cinquanta.
I carabinieri rintracciano sorella e cognato. Pratichiamo una seconda fiala di due milligrammi e il paziente torna a casa, lamentandosi di non essere più sballato come vorrebbe con la promessa di andare al Sert a curarsi, perché anche la sua vita merita di essere vissuta, nonostante la sua opinione dichiaratamente contraria. Per onestà alla sorella si informa della possibilità di arresti domiciliari in comunità terapeutica perché le fasi paranoidee post sballo lo rendono davvero pericoloso, forse soprattutto per sé stesso.
0 commenti