L’uscita dell’Inghilterra dall’Unione Europea, esplosione di un bubbone che ha lungamente covato il suo potenziale infettivo, è un fatto estremamente grave a prescindere dalle sue ricadute economiche. Ha un carattere razzista innegabile e non è un fatto isolato, ma espressione di una tendenza generale, diffusa e contagiante, tra i popoli d’Europa. Segnala che il rigetto dell’alterità stia facendo un temibile salto di qualità: l’avversione nei confronti dello straniero risucchia anche il vicino di casa, lo rende irriconoscibile, un estraneo.
Tra i tutti i narcisismi identitari, il più insidioso è quello delle piccole differenze, quando le dispute tra contrade diventano un muro invalicabile. Sostituire la prossimità con l’indifferenza, colpisce l’apertura alla vita nelle sue radici, cancella l’altro come parte di sé. La convinzione di poter fare da soli è il primo passo verso il più catastrofico dei conflitti, quello che si dissocia dal desiderio.
L’analisi del voto rende questa prospettiva, ormai a portata di mano, raccapricciante. Genitori/nonni hanno votato contro il figli/nipoti, in grande maggioranza favorevoli alla permanenza. Non è stato un conflitto generazionale, ma un figlicidio: la rottura della catena di trasmissione tra le generazioni, il rifiuto di passare il testimone, la pretesa di istituire il passato come futuro. Non è una bizzarria inglese: è la mentalità anonima che governa i nostri destini. In definitiva, cos’è il razzismo se non la più radicale chiusura alle trasformazioni, l’impossibilità di riconoscersi nel cambiamento che imprime la presenza di un figlio, del creato comune partorito dall’incontro e dallo scambio?
Sarebbe bello riporre nelle nuove generazioni le speranze di un riscatto, tifare per la loro voglia di ribellarsi. Non è così semplice. Il vecchio governa il mondo impadronendosi del nuovo, corrompendolo. I giovani inglesi saranno favorevoli all’Europa, ma è stata la loro massiccia astensione dal voto, pari al fervore per un mondo aperto, a favorire il campo avversario. Pare che le pessime condizioni meteorologiche non li abbiano invogliati. L’appuntamento con l’avvenire può attendere.
Il principio che sottende la nostra esistenza è il vecchio che non passa: lo stantio. Il cattivo odore lo si percepisce, ma ognuno lo attribuisce a ciò che preferisce (le scelte abbondano). Si ritiene che la saggezza della vecchiaia stia nell’esperienza che consente di calcolare, con uno spirito di prudenza, possibilità e pericoli. In realtà il vecchio saggio è guidato dalla passione e, memore dei suoi errori, misura la vita con un’inedita apertura del pensiero e degli affetti, che lo riporta a sentirsi giovane. I tempi sono ingenerosi con lui, l’hanno privato del suo specchiarsi nello sguardo ardito dei giovani. Siamo fermi tra la gioventù appassionata che non addiviene e la vecchiaia saggia in pensione, in mezzo ai contabili di tutte le età: l’aritmetica è la loro arte del vivere.
Il legame tra uno sviluppo tecnologico impressionante e la produzione crescente di malessere, mostra che non è la crisi economica a determinare la crisi etica (il disagio della civiltà in cui siamo immersi): è vero l’opposto. La fredda gestione numerica del lavoro e delle risorse, la dittatura impersonale che ci domina, è espressione di una ripetizione del medesimo. Al raggrinzamento della vitalità di un corpo sociale raffermo, corrisponde una concentrazione immensa dei beni materiali. Non sono beni finalizzati a un piacere reale, ma a riprodurre gli ingranaggi che li producono. Il trionfo annunciato dello scheletro sulla carne viva.
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