Riduco a due i sistemi dei filosofi concernenti l’anima dell’uomo. Il primo e più antico è il sistema del materialismo; il secondo è quello dello spiritualismo.
Julien Offray de La Mettrie, L’uomo macchina
Ahimé, non mai due volte configura
il tempo in egual modo i grani!
Eugenio Montale, Vento e bandiere (Ossi di seppia)
La figura qui accanto rappresenta il famoso Pensatore di Rodin, a Parigi in via di restauro. Le sbarre sono quelle della struttura dove operano i restauratori, ma si può anche immaginare siano le sbarre in cui è ingabbiato il pensiero contemporaneo. Cosa pensa il pensatore? Nel caso dovrei chiedermi come pensa l’artista che il pensatore pensi? Nel seguito dirò come un analista pensa che due categorie di pensatori pensino.
I modi di pensare sono impensabilmente innumerevoli, dovendosi annoverare i pensieri ricorsivi sul pensiero. Secondo Bolzano sono infiniti. Tra i pensieri di base ve ne sono almeno due certamente contrapposti e incompatibili. Sono le forme di pensiero meccanicista (o materialista) e idealista (o spiritualista), individuate da La Mettrie.
La mia impostazione intellettuale, nonostante sia etichettabile come “scientista”, mi porta a formulare un’ipotesi che potrebbe essere facilmente condivisa dai più o almeno non immediatamente confutata. Suppongo che la forma di pensiero idealista sia quella più conveniente al potere, anche quello che in apparenza si ispira a dottrine materialiste, come il materialismo storico, e perciò sia quella più persistente nel tempo e più gettonata dai popoli, almeno in Occidente. Infatti, per sopravvivere il potere deve avere linee guida ben definite. Quindi, per autoconservarsi nulla di meglio serve al potere della forma idealista di pensiero che stabilisce una volta per tutte l’essenza delle cose e come una cosa “causa” (etimologia comune!) necessariamente un’altra cosa. Le nozioni di essenza e di causa sono marginali al pensiero meccanicista, ma sono ingredienti fondamentali di ogni idealismo, quindi di ogni ideologia, quindi di ogni potere; in base ad esse il potere stabilisce cosa è giusto e come è giusto realizzarlo. Viceversa, chi usa nozioni di essenza e di causa, anche se rivoluzionario, pensa ancora in termini idealisti, quindi di potere, per esempio per abbattere il potere vigente.
L’idealismo concepito da Platone è una forma di pensiero forte, adatta ai potenti, cioè a chi il potere ce l’ha già e non deve faticare per conquistarlo. Allora le essenze delle cose stabiliscono lo stato delle cose, il Sachverhalt, cioè come le cose devono essere e come devono divenire con le cause giuste, volute e previste dal potere. Quando Foucault parla di precedenza del potere sul soggetto, lo intendo così: il soggetto individuale nasce in un contesto collettivo retto in modo idealista, che ne prefigura le sorti di assoggettamento. Freudianamente parlando, poiché Foucault deve molto a Freud, il Super-Io e l’Ideale dell’Io precedono l’Io, cui dettano le condizioni che deve rispettare per sopravvivere. Quando Althusser sostiene che l’uomo di scienza, anche se nel proprio campo lavora in modo meccanicista, quando vuole dare un senso filosofico al proprio lavoro, fa spontaneamente della filosofia idealista, lo intendo ancora allo stesso modo: anche il soggetto della scienza, quando pensa fuori dalla scienza, rientra nel contesto idealista dominante, che ne condiziona la forma ingenua di pensiero secondo lo schematismo platonico.
Il quale per altro non è tutto da buttare via. Infatti, di tanto in tanto ha prodotto consistenti risultati scientifici, impensabili in prima battuta per il meccanicismo. Si pensi alla prima vaccinazione antivaiolosa di Jenner con l’introduzione nell’organismo sano di un’“essenza attenuata” dell’agente morboso. Insomma, sto dicendo che l’idealismo si mantiene meno in forza del proprio valore di verità, in intensione, e più in forza del proprio valore politico, in estensione. E l’estensione si estende a diversi campi della cognizione socialmente utile, praticamente a tutti i campi tecnologici dove si possono applicare codici decisionali prestabiliti, tra i quali primeggia per importanza sociopolitica la medicina, con le sue affiliate: la psicologia, la psicoanalisi, la bioingegneria…
Da parte sua, non presupponendo alcuna metafisica, il meccanicismo è una forma di pensiero debole, inadatta a ispirare azioni politiche; fondamentalmente è socialmente inutile nel senso che non crea legame sociale. Non facendo riferimento a essenze ingenerate e immutabili e, se indeterminista, non avendo dalla sua delle cause che determinino effetti in modo univoco e certo, il meccanicismo non può arrivare a imporsi come pensiero dominante, tanto meno pretendere di governare la nazione, cui non offre ideali che guidino l’azione politica. Tipicamente, i politici snobbano i tecnici che, se arrivano al governo, ottengono sempre posizioni subalterne. Vi siete mai chiesti perché?
Ciò non toglie che il meccanicismo possa ben essere sfruttato dal potere, in particolare da quello economico. Si stima che il 60% del reddito USA provenga da applicazioni della meccanica quantistica, che è indeterministica. Il touch screen del vostro smartphone si basa sull’effetto tunnel quantistico, un effetto meccanico con buona probabilità di verificarsi, quasi certo a ogni tocco. Platone l’aveva previsto. Da aristocratico assegnava il lavoro meccanico agli schiavi, che contribuiscono al benessere immediato e contingente della polis ma non al Sommo Bene, argomento di pertinenza dell’idealismo.
Da psicoanalista provo a intuire l’origine segreta della forza sociopolitica dell’idealismo, da una parte, e la simmetrica debolezza del meccanicismo, dall’altra. Secondo me, il segreto dell’idealismo sta in qualcosa di molto evidente e alla portata di tutti: è la vita in versione vitalista. Chiaramente, ogni filosofia vitalista è idealista. Valga per tutte l’esempio paradigmatico del vitalismo di Bergson. Ma – e questa è la mia congettura – vale anche l’inverso: ogni idealismo è vitalista, nella misura in cui tratta essenze indefinite, supposte come principi primi del mistero dell’essere, quindi della vita.
Concretamente il vitalismo idealista si declina a livello collettivo come storicismo, che pretende dire la verità sulla vita dei popoli e delle nazioni. La verità sulla vita dei singoli l’idealismo la lascia ai romanzi e alle favole. Per riconoscerlo basta la superficiale rassegna dei titoli dei libri appena rovesciati sul bancone di qualunque libreria. L’ho osservato recentemente alla Cooperativa di Cortina: un libro su tre parla di vita. Quanto al vitalismo vigente e prosperante in psicanalisi, basta un aneddoto. Nel giugno 1977 nello studiolo di Lacan vidi per la prima volta il famoso quadro di Courbet intitolato “L’origine della vita”, ora esposto al Museo d’Orsay, cui gli eredi l’hanno donato per ripianare il debito fiscale del maestro. La vita è anche un fatto economico.
Ovviamente, in quest’ambito vitalista la medicina, che tratta la vita malata, assume di necessità un assetto idealista, che è la sua forza e la sua debolezza. È idealista la nosografia medica, che fissa le essenze morbose, se va bene attraverso le loro cause, se va meno bene attraverso sintomi o indizi codificati dallo scopritore che dà loro il proprio nome. È idealista la ricerca nel cadavere delle “basi anatomiche” latenti del processo fisiopatologico, concepite come essenze materiali del fenomeno morboso. (La morte fonda il vitalismo medico.) È idealista il processo indiziario della diagnosi che in via abduttiva riconosce l’essenza morbosa (l’universale) che vive – è in atto – nel singolo caso. Non è da meno la psicologia medica che parla regolarmente di “vissuti” (Erlebnisse), per dire le esperienze soggettive.
In merito, a fronte di ogni vitalismo, la mia posizione filosofica è nietzscheana. Adotto l’aforisma 121 della Gaia scienza (1882), intitolato Das Leben kein Argument (“La vita, neanche un argomento”). Per Nietzsche non si può argomentare alcunché, basandosi sulla vita, perché le stesse condizioni della vita possono incorporare l’errore (Irrtum, ciò che porta a “vaneggiare”). Più soft la posizione meccanicista, che non è contro la vita ma semplicemente non la mette a tema. Erwin Schrödinger tenne conferenze su Che cos’è la vita quando smise (si pentì?) di fare il fisico teorico. Vedremo alla fine se, intorno alla falsità del prefisso “bio” in neologismi come “biopolitica” o “bioetica” (oggi si parla addirittura di “neuroetica”), sarò riuscito ad argomentare almeno mezza verità.
Vita/non vita sono i contenuti del pensiero rispettivamente idealista e meccanicista. Per quanto riguarda la forma del loro pensiero, la tesi di questo post è che in corrispondenza ai due contenuti esistano due forme contrapposte di pensiero, rispettivamente la platonica e la democritea.
Si narra che Platone abbia pubblicamente bruciato i libri di Democrito. Non so se si tratti di verità materiale; so che si tratta di verità storica, secondo la nota e illuminante distinzione freudiana. Platone impose un ritardo di due millenni all’esordio del discorso scientifico: un nonnulla su scala geologica, ma qualcosa di pesante per uomini che non sono pietre. Abbiamo dovuto attraversare l’età classica, l’alessandrina e l’interminabile tunnel medievale prima di approdare all’età scientifica; non tutti sono ancora approdati e molti si rifiutano di approdare in nome di qualche tic idealista.
E pensare che gli esordi furono promettenti. La storia della filosofia occidentale cominciò con i presocratici, impropriamente detti ilozoisti con termine platonico, coniato dal professore inglese di filosofia Ralph Cudworth (1617-1688), che lo riferì al pensiero materialista di Stratone di Lampsaco e di Spinoza. I presocratici non furono pensatori vitalisti; fu il successivo idealismo che li suppose tali, proiettando su di loro la propria posizione vitalista. I presocratici furono materialisti puri nel senso di La Mettrie; furono filosofi della scienza nel senso più moderno (si pensi al compianto Putnam o al nostro Enriques); tentavano di pensare i principi naturali come principi primi della natura, cioè la fisica con cause fisiche: Talete l’acqua, Anassimene l’aria, Anassimandro l’infinito indeterminato, Anassagora e Democrito al plurale, il primo i semi originali o omeomerie, il secondo gli atomi (saranno i grani di Montale), i primi regolati dall’intelletto, i secondi dal caso. Platone sconvolse, pervertì e rese non avvenuto l’esordio scientifico del pensiero filosofico. Conservò l’assetto eziologico, ma spostò le cause dal mondo fisico a un impensabile livello metafisico, dove le essenze si danno come idee immutabili. Alla base del reale ci sono loro: le essenze ideali, entità immaginarie extraterrestri, che abitano l’Iperuranio, dove approdò la “seconda navigazione”, non più a vela ma a remi, dell’aristocratico accademico ateniese.
Nell’hortus conclusus dell’idealismo l’antichità partorì la prima forma di umanesimo, madre di tutte le successive varianti. Cessò di pensare alla scienza per pensare all’essenza delle cose, la loro “ek-scienza”, se posso dire. Questa originaria modalità idealista di pensiero si è ultimamente rigenerata e rinvigorita nel secolo scorso sotto il titolo di fenomenologia. Il motto di Husserl “verso le cose stesse” voleva dire “verso l’essenza delle cose” e rilanciava il programma essenzialistico di Platone. Il lodevole sforzo di Derrida di decostruire l’idealismo fenomenologico non ha inciso né molto né molto durevolmente sull’assetto fenomenologico della filosofia continentale. Da millenni abbiamo imparato che l’idealismo è un osso duro da masticare.
Come ragiona l’idealismo sulle essenze? Fondamentalmente per analogia. Tipica analogia è l’eziologia, per cui l’essenza della causa genera l’essenza simile dell’effetto. L’empiria presenta “linee di evidenza” che “suggeriscono” il rapporto di causa-effetto, in realtà precedente l’empiria, essendo idealmente prestabilito. In tale assetto, direi metaforico, si danno solo conferme: se c’è la causa c’è l’effetto, che le assomiglia, quindi viceversa se c’è l’effetto è perché c’è stata la causa (determinismo forte). Nell’idealismo non sono previste confutazioni; la presenza di effetti in assenza di cause è impensabile. Come si vede, il modo di ragionare idealista non ammette possibilità di correzione: è un delirio in senso psichiatrico con una spiccata tendenza a collettivizzarsi. Infatti, è un modo di ragionare guidato dal principio d’autorità: è vera la verità imposta dall’alto di qualche cattedra magistrale, istituita e protetta dal potere (oggi le cattedre universitarie), che a sua volta ricambia il favore proteggendo il potere, fornendogli opportune ideologie. Quando si parla di doppio legame…
Un tratto storicamente ben documentabile distingue il modo di pensare per essenze, o platonico, da quello scientifico, o democriteo. Il primo è conservativo e stabile, il secondo evolutivo e progressivo. Essendo regolato per conferme, il patrimonio di pensiero idealista né si accresce, perché per principio il nuovo non è ammesso all’esame, né diminuisce, perché il vecchio non può essere confutato. È questo il semplice meccanismo che garantisce al dogmatismo idealista di conservarsi sempre uguale a se stesso.
Per contro, nel pensiero democriteo c’è evoluzione. Storicamente l’atomismo (o meccanicismo) si presenta come una modalità dinamica ed evolutiva, nettamente differente dalla modalità idealista che è statica per non dire regressiva. C’è stato, infatti, più progresso nell’atomismo che nell’idealismo. Hegel differisce da Platone meno di Schrödinger da Leucippo, fermi restando gli invarianti di base dei due discorsi: il dualismo essere/non essere (o divenire) per l’idealismo e le simmetrie spaziotemporali delle particelle materiali e delle loro interazioni per l’atomismo. Partito dalle iniziali congetture atomistiche di Leucippo e Democrito, il meccanicismo arriva alle attuali ipotesi sulla materia, per esempio, sulla supersimmetria delle particelle elementari, che stanno per essere testate al CERN di Ginevra, dove molto probabilmente sconvolgeranno il modello standard della fisica delle particelle.
Insomma, l’idealismo delle essenze si presta bene e meglio del meccanicismo a forgiare ideologie stabili, adatte alla conservazione del potere (di destra, diciamo). E questo è un dato storico abbastanza fondato e generale. Conservazione del potere, in parallelo alla conservazione della dottrina, è quanto su scala ridotta si è verificato anche nel movimento psicoanalitico, in particolare nel freudismo, che tuttavia è andato lentamente logorandosi, fino al punto in cui oggi è legittimo chiedersi se esista ancora e sia praticata la versione originale della metapsicologia freudiana.
Discorso storicamente più complesso va fatto per la modalità atomistica di pensiero. La mossa iniziale di Leucippo e Democrito fu di supporre la contrapposizione tra pieno e vuoto, che i due pensatori opponevano come dicotomia concreta all’astratto dualismo ontologico, intavolato da Parmenide, tra essere e non essere. Il vuoto è lo spazio, che è tale perché non è materia – è nulla – ma contiene la materia. Questa concezione dello spazio come vuoto contenitore di materia arriverà fino a Newton. La materia, invece, è il pieno, costituita com’è da elementi indivisibili, gli atomi. Il senso ontologico di questa congettura è di negare l’infinito potenziale del sempre più piccolo o dell’infinitamente divisibile, simmetrico all’indeterminato sempre più grande o apeiron.
Il modello non si fermò lì ma fu ulteriormente elaborato. In Epicuro lo spazio e gli atomi sono attualmente infiniti. L’evoluzione del modello atomistico di Epicuro è sostanziale, acquisendo dinamicità. Epicuro suppone che gli atomi si muovano: cadano nello spazio con un’inclinazione, la parénklesis, tradotto clinamen da Lucrezio nel De rerum natura, che porta gli atomi a interagire tra loro e ad aggregarsi per formare corpi. L’inclinazione è concepita da Epicuro come esito del libero arbitrio degli atomi, che decidono di muoversi in una direzione piuttosto che in un’altra. Epicuro odiava la meccanica e il ragionamento meccanico (una caratteristica comune all’idealismo), perciò interpretava il suo modello in modo antropomorfo. Rifiutava l’interpretazione meccanicista, dove il clinamen poteva essere una deviazione casuale del moto, perché la variabilità casuale non era nelle corde del pensiero antico. Boltzmann, che con la sua teoria cinetica dei gas darà una versione probabilistica del modello epicureo, entrò in scena solo nel XIX secolo. Lucrezio apportò l’ulteriore perfezionamento al modello atomistico, supponendo che gli atomi cadessero nello spazio con velocità vettorialmente diverse (cioè diverse in direzione) con modulo proporzionale al loro peso (ipotesi falsa, già aristotelica) e perciò potessero incontrarsi e aggregarsi. Va valorizzato “l’errore” di Lucrezio perché è un tentativo – non importa quanto maldestro – per pensare quel che gli antichi non seppero pensare, cioè la variabilità che non è il polimorfismo delle essenze. Allora il riconoscimento delle essenze si riduce a quella che in medicina si chiama diagnosi differenziale, cioè al riconoscimento di un’essenza morbosa in quanto differente dalle altre. Per contro, per la via della variabilità i moderni riusciranno a pensare l’infinito come ciò che è sempre qualitativamente diverso, non solo il sempre più grande o sempre il più piccolo, cioè il quantitativamente diverso attraverso il paradigma della misura.
I contenuti della visione atomistica sono ancora cambiati nel tempo; per esempio, gli antichi atomisti ragionavano come i moderni sulle particelle elementari, ma non supponevano che ruotassero su se stesse; i moderni atomisti, che congetturano la supersimmetria tra bosoni e fermioni, giocano le loro congetture sulla simmetria rotazionale per cui i fermioni, a spin semiintero, diventano bosoni (o sfermioni) e i bosoni, a spin intero, diventano fermioni (o sbosoni).
Quel che non è cambiato dall’antichità a oggi è il modo in cui il pensiero meccanicista si articola. L’atomismo non pensa per essenze inconfutabili; pensa per modelli artificiali che possono essere modificati dall’esperienza. Suppone delle particelle elementari che interagiscono in vario modo tra loro e paragona i risultati dell’interazione, in generale localmente semplice ma globalmente complessa, alle evidenze empiriche, che possono verificare o smentire i presupposti teorici. Il problema del confronto tra teoria e pratica non è mai banale. Si pensi alla complessità delle interazioni delle orbite planetarie, che solo in prima approssimazione sono ellittiche. Oggi con la precisione disponibile dei dati astronomici, spinta fino alla settima cifra decimale, non riusciamo a prevedere la configurazione del sistema solare tra 10 milioni di anni, una bazzecola su scala geologica. La scienza non è una religione che dica la verità su tutto.
Le necessarie dimostrazioni e le sensate esperienze di cui Galilei scriveva a Cristina di Lorena nel 1615 hanno origine epicurea. Singolare più che stupefacente è la semplicità del modello di moto accelerato concepito da Galilei: una sola particella elementare, una sfera di bronzo, che rotola lungo un piano inclinato ben levigato, caratterizzato da un ben preciso clinamen. L’analisi matematica di un modello “epicureo” tanto semplice ha portato a risultati scientifici profondi: al principio di inerzia, alla legge quadratica degli spazi percorsi rispetto ai tempi e, fatto epocale, all’invarianza della scrittura delle leggi del moto in sistemi inerziali. Sono risultati meccanici che si possono confermare o confutare in pratica, mentre sul versante idealista l’essere che è e il non essere che non è esulano da ogni controllo empirico.
Insomma, oggi ci troviamo di fronte a due razionalità: una metafisica o idealista, e l’altra fisica, atomistica o scientifica. C’è da chiedersi come la razionalità metafisica possa ancora avere ragionevole corso. (Dell’irragionevole, legato al servizio reso al potere ho già detto).
In risposta a questa questione, parallela alla precedente sul vitalismo, avrei una congettura psicoanalitica. Quando non è un delirio, la metafisica è una favola. Il pensiero metafisico è infantile, quindi è propenso a pensare in termini favolistici o magici. Crescendo, invece della strega il pensiero adulto convoca l’essenza, invece del mago il principio di ragion sufficiente, e spiega tutto in modo semplice attraverso l’analogia antropomorfa. Suppone un’anima nelle cose e un piccolo uomo dentro l’uomo. La personalizzazione delle cause e delle essenze è un topos favolistico, spacciato per metafisico. Si impone alla mentalità infantile, seducendola con considerazioni vitalistiche. Al puer fa credere che la metafisica idealista delle essenze e delle cause riguardi il Sommo Bene che fa vivere il singolo e la comunità in cui è inserito. Oggi va di moda la biopolitica come sapere vero sulla vita politica, ma è una malattia infantile del pensiero. La biopolitica ha la stessa consistenza della più bella favola narcisistica inventata dall’umana debolezza intellettuale: la credenza nell’esistenza di un’anima immortale, di ascendenza divina, che segue leggi morali sempiterne. Nella biopolitica il potere governa l’anima collettiva, spesso in nome di qualche divinità. L’essenza della biopolitica è teologia politica.
Correlativamente il pensiero infantile osteggia l’argomentazione scientifica, non vitalistica, elaborata attraverso modelli di particelle elementari che interagiscono tra loro: per esempio gli spiriti animali che secondo Cartesio attraversano i pori del cervello. Condanna il meccanicismo come pensiero riduzionista, che non affronterebbe la complessità e la specificità della vita. Al suo posto convoca entità immaginarie che combina in dispositivi non solo arbitrari ma non sottoponibili a controllo sperimentale. L’argomentazione contro questa modalità di pensiero fu svolta nel 1747 da La Mettrie in modo più convincente ed efficace del mio. Il merito non secondario di La Mettrie fu di aver strappato a Cartesio la maschera idealista e dualistica. La situazione idealista sembra però immodificabile e non risulta scalfita dalla povera logica materialistica. Per quanti millenni ancora il nostro pensatore qui a lato rimarrà rinchiuso nella gabbia in cui lo incarcerò Platone?
Prima di passare a considerazioni sulla dicotomia idealismo/meccanicismo in psicoanalisi, che è il mio terreno specifico, voglio segnalare un particolare curioso attinente a tale dicotomia, della quale esiste addirittura un modello interno allo stesso meccanicismo. Il fenomeno è particolarmente evidente in biologia dove si danno due selezioni naturali differenti: la selezione individuale e la selezione di gruppo o di specie. La selezione individuale mira alla “particella elementare” dell’individuo; promuove la discendenza dell’“atomo” individuale casualmente meglio adattata all’ambiente. Si realizza un feedback positivo: più fitness individuale, più discendenti con alta fitness. La selezione individuale può essere vista come conseguenza dell’interazione tra l’individuo e l’ambiente (selezione naturale propriamente detta) e tra individui (vedi selezione sessuale) ed è la selezione strettamente meccanicista. La selezione di gruppo concerne collettivi di individui, considerati come entità sovraindividuali di tipo essenziale, ma non si sa bene ancora a cosa miri (la stabilità della specie come la stabilità di un’essenza?) e di quali meccanismi si serva. L’idealismo meccanicista, basato sulla conservazione delle specie, è scientificamente problematico tanto quanto l’idealismo platonico.
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Le considerazioni precedenti non nascono da solitarie elucubrazioni filosofiche a tavolino. Sono il frutto della mia clinica analitica, ispirata e sorretta dal pensiero freudiano (non tutto), dove esistono e confliggono le due suddette forme di pensiero, con la scontata vittoria finale della forma più forte e… meno clinica.
In anteprima va richiamata una simmetria epistemologica. La moneta epistemica corrente sul mercato meccanicista ha due facce: la faccia socratica o della critica al sapere – “so di non sapere” – e la faccia freudiana o della ricerca del sapere – “non so di sapere”. La seconda include il sapere inconscio. Infatti, il soggetto della scienza non sa di sapere (che sa) e perciò si mette alla ricerca di quel che non sa di sapere congetturandolo. La distinzione non è farina del mio sacco ma risale a Leibniz, noto idealista, il quale distingueva tra ars inveniendi per la faccia freudiana e ars justificandi per quella socratica, con l’ovvio corollario che la seconda non va senza la prima.
Di fatto si è data una singolare inversione tra logica ed effettivo sviluppo storico del sapere scientifico. Il momento che viene logicamente prima, cioè la ricerca, è venuto storicamente dopo; viceversa, il momento che viene logicamente dopo, cioè la critica, è venuto storicamente prima. In effetti, prima di criticare il sapere devi averlo acquisito in qualche modo. Invece, la critica socratica precedette l’acquisizione effettiva del sapere, esercitandosi in un certo senso a vuoto. Forse Platone intuì non l’inconsistenza ma la vacuità logica dell’operazione socratica; allora stabilì il sapere certo e inconfutabile delle essenze ideali, giunte immodificate fino a noi. Il risultato netto dell’operazione platonica fu di obliterare la componente di ricerca del sapere che non si sa di sapere, promuovendo le certezze incontrovertibili delle dottrine sociali e delle ideologie, a livello collettivo, e dei deliri paranoici, a livello individuale.
La faccia freudiana dell’epistemologia è il motore della ricerca scientifica: se non sai di sapere, cerchi di sapere con l’analisi e con la sperimentazione quel che non sai di sapere ma sai inconsciamente e formuli in modo incerto tramite supposizioni e congetture. Tuttavia, ci vollero un paio di millenni perché Galilei attivasse questo atteggiamento epistemico e altri tre secoli perché Freud chiarisse la natura inconscia del sapere operante nel soggetto della scienza.
Inizialmente, a partire dal V secolo a.C., si affermò solo l’esercizio critico a vuoto – si chiamerà dialettica – su ciò che non si sapeva, condotto da Socrate per le strade di Atene, interloquendo con passanti casuali. Probabilmente Socrate criticava il sapere sulla natura, acquisito dai precedenti fisiocrati, perché non prendevano in considerazione l’uomo. La faccia socratica, che costituisce il momento della critica del sapere acquisito, fu aggiornata in epoca scientifica da Cartesio attraverso il dubbio sistematico. La procedura critica poté sistematizzarsi e concretizzarsi solo dopo Galilei, che promuoveva la “vera” acquisizione di sapere per via delle sensate esperienze e delle necessarie dimostrazioni. Come ho già detto, si può criticare il sapere solo una volta acquisito. Solo con Cartesio, che considerava falso tutto il verosimile, le congetture, che sono sapere incerto e non ancora stabilito, si sarebbero potute criticare sulla base dei risultati sperimentali; solo allora il momento critico cessò di essere fatuo esercizio retorico e si integrò all’effettivo movimento di progresso scientifico, consolidando e corroborando l’acquisizione epistemica, eliminando le congetture più false, cioè falsificate dall’esperienza, e conservando le meno false, cioè non ancora falsificate dai fatti empirici.
L’operazione freudiana va inserita in questo contesto storico, dove però non evolvette in modo lineare e progressivo. In un certo senso Freud procedette a rovescio della storia della filosofia. Esordì come ricercatore ma, non avendo applicato il metodo socratico-cartesiano della critica e del dubbio (un’inibizione?), concluse regredendo da filosofo idealista agli scibbolet inconfutabili del sapere psicoanalitico: i miti dell’edipo e della castrazione. Ma andiamo più piano.
Nel 1895 Freud fece il primo passo in direzione scientifica con il Progetto per una psicologia. Congetturò l’esistenza di tre classi di particelle elementari: i neuroni phi, psi e omega, connessi tra di loro attraverso barriere di contatto o Kontaktschränken, oggi si direbbero sinapsi. Ricordiamo con Jones che per tale ipotesi Freud avrebbe potuto guadagnare il premio Nobel per la medicina, che invece andò al neurologo spagnolo Ramon y Cajal e all’istologo italiano Camillo Golgi nel 1906. Previde anche le interazioni tra particelle come richiede un buon modello cartesiano (le “favole scientifiche” di Cartesio). I neuroni phi, i neuroni dell’arco riflesso, sono permeabili (durchlässig) alle cariche di energia, le misteriose qu-eta, che si scaricano dal versante sensoriale al versante motorio lungo l’arco riflesso; i neuroni psi, che formano il sistema mnestico, sono invece impermeabili (undurchlässig) alle cariche. Tra i neuroni psi le cariche di energia, deviando dall’arco riflesso, si fanno strada per successive complicazioni lungo vie di facilitazione (Bahnungen) nella complicata matassa di collegamenti del sistema nervoso, dove si depositano configurando le immagini mnestiche. Si può criticare Freud per non aver previsto nel suo sistema l’attività di inibizione, che oggi si sa essere prevalente in tutto il sistema nervoso, dove modula le facilitazioni. Infine, i neuroni omega non operano con cariche di energia ma, si direbbe oggi, lavorano in modulazione di frequenza, essendo responsabili delle attività transitorie e reversibili del sistema come sono quelle inerenti alla percezione-coscienza, totalmente indipendenti dall’archivio della memoria.
Era un modello promettente, da cui Freud sviluppò anche conseguenze psicopatologiche concernenti le psiconevrosi, fondamentalmente la regressione dal versante motorio al versante sensoriale su cui si basa l’allucinazione onirica. Ma a un certo punto per ragioni misteriose, probabilmente legate al transfert negativo verso il suo analista Fliess, Freud buttò tutto nel cestino e regredì all’assetto idealista. Freud si rivolse a una particolare configurazione dell’idealismo, che si è mantenuta invariata nei secoli: al sistema medico, da cui in effetti il Nostro proveniva. La medicina è, infatti, una pratica epistemica idealista a tutti gli effetti, perché opera con essenze, le entità morbose, e con le cause che le producono, la cosiddetta eziologia. Come ho detto sopra, tipica operazione idealista è la diagnosi medica che riconosce l’essenza morbosa, distinguendola dalle simili in base ai sintomi da essa causati, un’operazione tuttora difficile da meccanizzare e rendere automatica. (Perciò l’idealismo non sarà mai del tutto espulso dal discorso medico). Per Freud le entità morbose saranno fondamentalmente di due tipi: le psiconevrosi da transfert e le psiconevrosi narcisistiche; le cause saranno le pulsioni: le pulsioni sessuali, che agiscono come cause efficienti della sessualità (non solo genitale), e la pulsione di morte, che agisce come causa finale, orientando tutti i fenomeni psichici nel senso della ripetizione. Aristotele avrebbe applaudito. Il suo modello cognitivo di pensiero si era imposto una volta di più. Freud lo battezzò metapsicologia, affine più alla metafisica che alla psicologia.
Non è facile correggere l’assetto metapsicologico del pensiero freudiano, proprio perché è idealista. Secondo me sarebbe possibile solo facendo leva su quei pochi assiomi scientifici freudiani, che non rientrano nella configurazione idealista, innanzitutto sull’ipotesi dell’inconscio come sapere che non si sa di sapere. L’inconscio non ha un’essenza specifica, non essendo autoriflessivo: non è un in sé che è per sé. L’inconscio, poi, è protorimosso, cioè possiede rappresentazioni che non diventeranno mai consce. L’inconscio è incompleto e incompletabile, come Gödel dimostrò dell’aritmetica, se è coerente. Ciononostante l’inconscio produce effetti ritardati di sapere (nachträglich), per lo più incongruenti, dotati di realtà psichica ma illogici rispetto alla realtà effettuale, come i lapsus, i sogni, gli atti mancati, compresi quelli erotici, in generale i sintomi nevrotici.
Si può correggere Freud? Certo, ma battere la via della decantazione di Freud dai suoi idealismi ti espone alla critica dei colleghi che rimangono fedeli osservanti di “scuola freudiana” e passi per eretico. Vale la pena?
Credo di sì per una ragione molto semplice da ammettere in teoria, anche se difficile da realizzare in pratica. Decantare Freud dall’idealismo può aiutare a configurare collettivi freudiani non basati sull’identificazione alla psicoanalisi ideale, regolarmente incarnata in qualche maestro o leader e suoi epigoni. Potrebbe essere una psicoanalisi scientifica, basata su congetture in via di conferma o confutazione all’interno di un collettivo di pensiero, formato da persone cooperanti per lo sviluppo della psicoanalisi.
Allora perché non scatta questo meccanismo associativo? La ragione purtroppo è semplice e ben nota all’idealista: il legame sociale all’interno dei collettivi “scientifici” è fragile; si dissolve appena una delle congetture che lo sostengono decade. Quale leader vorrebbe mettersi alla testa di un collettivo così instabile e poco rassicurante per il mantenimento del proprio potere? Quale professionista vorrebbe fondare la propria attività professionale su codici così fragili? Allora campa cavallo, prima di bonificare Freud dall’idealismo. Anche gli oppositori di Freud lo contestano in nome di qualche idealismo, perpetuando forme di pensiero di cui pure negano i contenuti. Altri fanno ritorno a Freud sempre in nome di qualche idealismo, addirittura logocentrico. L’idealismo tiene comunque botta anche in psicoanalisi e tutto resta formalmente come prima, pur se la sostanza apparentemente cambia. Purtroppo solo apparentemente.
L’alternativa che propongo al collettivo che ruota attorno a questa rubrica consiste nel completare il circolo di pensiero avviato da La Mettrie; se l’illuminista proponeva di passare dall’uomo alla macchina, può essere ragionevole il tragitto di ritorno: dalla macchina all’uomo, che è anche il programma di ricerca dell’odierna intelligenza artificiale, rinata da almeno un decennio su basi più meccaniciste di mezzo secolo fa con il deep learning delle reti neurali.
Conclusione e proposta operativa a medio termine
L’uomo dell’accademia, collezionista di libri che coltivano pensieri ortodossi, pensa cosa pensa un pensatore. L’uomo accademico è idealista nella misura in cui pensa le essenze codificate una volta per sempre in testi ritenuti classici da autori ritenuti maestri.
L’uomo di scienza, orientato al meccanicismo, è estraneo a riferimenti antropomorfi. Non pensa a quel che l’altro ha pensato; pensa a quel che l’altro non ha pensato; soprattutto pensa alle condizioni che hanno inibito il pensiero dell’altro. Per esempio, io, che non sono accademico, penso che i pensatori classici non abbiano pensato la variabilità e quindi penso alla variabilità, per esempio in termini topologici. Riconosco che gli antichi pensavano una forma qualitativa di variabilità, il polimorfismo, cioè la diversità delle forme o degli eidola, essendo viziati dall’idealismo platonico. Il polimorfismo gode di una topologia discreta, fondamentalmente banale, cioè senza punti limite e senza possibilità di approssimare una forma con l’altra. La variabilità, invece, presuppone topologie più ricche di struttura, che avvicinano una forma all’altra. I greci e i latini non avevano neppure la parola per dire “variabile”. Senza la nozione di variabilità e quella immediatamente conseguente di simmetria, non si può pensare la meccanica. Infatti, gli antichi disprezzavano la meccanica. Per Platone il lavoro meccanico era una faccenda da schiavi. “Fatti da parte, vile meccanico”. Manzoni capì qualcosa dell’antico e sempre rinnovato idealismo. L’attuale e diffusa resistenza alla scienza si radica nel rifiuto idealista di pensare la variabilità. Infatti, se esiste la variabilità, non esistono più essenze ideali immutabili.
Per finire segnalo una forma di resistenza idealista che va prendendo sempre più piede, soprattutto in campo lacaniano. È un discorso da calzolai. Si sostiene che il terapeuta fa scarpe su misura per il paziente, nel senso che non applica codici collettivi, validi in generale, ma opera da ortopedico sulla singolarità soggettiva del paziente. Buttata la variabilità dalla finestra, entra dalla porta l’idiomorfismo dell’essenza soggettiva. Buttata la variabilità dalla finestra si perde non solo la dimensione scientifica (ritenuta “scientista”) ma si scotomizza tutto l’orizzonte del soggetto collettivo. Che ha mille piedi, non solo due. Troppi per un calzolaio. Su suggerimento di Francesco Bollorino, l’unica singolarità che intravedo è una bi-singolarità: l’incontro di due universali, spesso disgiunti, l’universale dell’analista, in posizione d’oggetto, e l’universale dell’analizzante, in posizione di potenziale soggetto. Nell’interazione bi-singolare, già collettiva, si realizza il lavoro analitico individuale.
Se quanto precede offre un’analisi attendibile dell’attualità psicanalitica, ne consegue che un vero freudiano, non necessariamente ortodosso ma neppure eterodosso, dovrebbe prima o poi pensare quel che Freud non ha pensato, magari individuando in via preliminare quelle parti del pensiero di freudiano che hanno impedito a Freud di progredire nel pensiero. Analogo discorso va fatto per il vero junghiano, il vero kleiniano, il vero lacaniano e per tutti gli altri “veri”. Il discorso va corretto prima che sia troppo tardi e la psicoanalisi non sia stata definitivamente inghiottita dall’idealismo dominante e asservita al potere.
A mo’ di conclusione poco filosofica, credo di aver messo a punto alcuni attrezzi intellettuali per rispondere alla domanda: la psicanalisi è terapeutica? Ma certo, in alcuni casi!
La terapia psicanalitica consiste nell’emendatio intellectus, direbbe Spinoza. Offre l’occasione irrepetibile per passare da una modalità di pensiero idealista, basata sulla considerazione di certe figure ideali secondo Freud: l’Io ideale, l’Ideale dell’Io, il Super-Io, a una modalità di pensiero terra terra, o meccanicista, basata sulle interazioni e sulle simmetrie dei grani materiali, di cui parlava Montale, le persone comprese. Sì, ma attenzione: non è una terapia medica, proprio perché non è idealista. Non si misura come restituzione dello stato ideale pre-morboso. È in genere una terapia che apre il soggetto a nuovi modelli di vita, quindi sfugge alla codifica mediante questionari o inventory scale e alla valutazione statistica quantitativa. Rispetto ad essa lo psicanalista medico parte svantaggiato sullo “psicanalista laico”.
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