«Se è la castrazione ciò che dev’essere accettato al termine di un’analisi, quale deve essere il ruolo della cicatrice della castrazione nell’eros dell’analista?»1
Trattare una domanda
Praticare la psicoanalisi significa, tra le molte cose, trattare in un certo modo la domanda di qualcuno. É sempre possibile trattare la domanda di qualcuno secondo l’etica e la tecnica psicoanalitica? Con Lacan possiamo rispondere affermativamente a questa domanda, rimarcando al contempo come non ci sia niente di più semplice e niente di più difficile che trattare una domanda secondo l’etica e la tecnica della psicoanalisi. Vorrei oggi sottolineare un aspetto del problema del trattamento della domanda, particolarmente complesso e particolarmente utile nella pratica, anche e soprattutto in quelle situazioni così dette di “psicoanalisi applicata”.
Non soddisfarsi troppo
In una lezione del Seminario VIII2 – quella del 16 marzo 1961 – Lacan si interroga sulla supposta esigenza di apatia e di ascesi che caratterizzerebbe la posizione dell’analista. L’analista sufficientemente analizzato dovrebbe saper tenere una posizione ascetica rispetto a quanto, di erotico e violento, di odioso e affascinate, un paziente porta in seduta. Lacan sembra essere d’accordo con chi in quegli anni portava avanti con convinzione tale posizione mettendola in relazione alla formazione dell’analista – ossia un analista sufficientemente formato è colui che sa tenere questa posizione ascetica. Lacan non solo sembra essere d’accordo ma bisogna dire che ha insistito per tutto il corso del suo insegnamento sull’importanza della posizione ascetica dell’analista – che gli sviluppi della psicoanalisi hanno poi invece messo in secondo piano a favore del maneggiamento del controtransfert.
Ma, è questo ‘ma’ va sottolineato, in questo essere d’accordo prende corpo, sia in questa lezione che nelle successive, un distinguo che andrà sempre più marcandosi. Lacan si riferisce infatti alla posizione ascetica facendo valere il versante affermativo e non negativo di tale posizione. Il suo accento non è sulla rinuncia, sulla privazione, sull’astinenza, ossia sulla capacità dell’analista di sostenere tutto ciò, ossia non vivere, non agire, non dire, non utilizzare, i propri umani desideri – cioè nevrotici desideri – in relazione a quel che il paziente porta – non dimentichiamo che, il paziente, porta in primis una domanda.
L’accento di Lacan è sul versante affermativo della posizione ascetica. La posizione ascetica è quella di chi è posseduto da un desiderio più forte, più intenso, più deciso, rispetto ai vari e possibili desideri dai quali è preso un essere umano. Tale desiderio più forte è per Lacan il desiderio dell’analista. La posizione dell’analista è una posizione ascetica non perché è la posizione di chi è in grado di rinunciare a tutti i desideri, ma è una posizione ascetica perché è la posizione di chi è posseduto da un desiderio più forte di qualsiasi desiderio possibile.
Lacan dice con chiarezza che la posizione ascetica intesa dal versante negativo non lascia presagire niente di buono circa la possibilità di tenere la posizione dell’analista: «se l'analista realizza qualcosa di simile all'immagine popolare o anche a quella deontologica dell'apatia è nella misura in cui egli è posseduto da un desiderio più forte dei desideri di cui potrebbe trattarsi, come quello di passare alle vie di fatto con il suo paziente, di prenderlo tra le braccia oppure di buttarlo giù dalla finestra. Capitano, questi desideri. Oserei dire che non è un buon presagio se qualcuno non ha mai provato qualcosa del genere»3.
Tutto ciò meriterebbe una spiegazione dettagliata. Mi preme qui sottolineare questa dimensione affermativa della posizione ascetica dell’analista e quanto sia decisiva per intendere la posizione analitica – anche per quel frammento della posizione dell’analista di cui ci stiamo qui occupando, ossia il trattamento della domanda.
A tal proposito, in questo contesto dove Lacan mette l’accento sulla dimensione affermativa della posizione ascetica, e proprio mentre è intento a fare questo, a Lacan cade un altro accento, adesso però sulla dimensione negativa, sull’esigenza della rinuncia: l’analista non deve essere troppo soddisfatto, deve saper rinunciare a una quota di soddisfazione. Di che cosa si tratta? Si tratta di una soddisfazione molto insidiosa, in particolare per chi si trova a operare come analista. Si tratta della soddisfazione della risposta, della risposta dell’analista che comprende la domanda che il paziente gli rivolge. Che vuol dire comprendere una domanda? Vuol dire saperle rispondere. E che vuol dire sapere rispondere a una domanda? Vuol dire soddisfare questa domanda. A questa soddisfazione della risposta, che come visto chiama subito in causa la soddisfazione della domanda, l’analista deve sapere rinunciare – evidentemente deve sapere rinunciare anche al suo opposto speculare, ossia la soddisfazione del non sapere rispondere da cui la soddisfazione del frustrare la domanda (non sviluppo qui quest’altro versante del problema, la logica è comunque la stessa. Mi limito a ricordare questo passaggio di Lacan: «Nell’analisi ogni risposta alla domanda, si voglia frustrante o gratificante, riporta il transfert alla suggestione»4).
La struttura della domanda
Questa soddisfazione è così insidiosa perché poggia sulla struttura stessa della domanda. In effetti la domanda si articola per Lacan all’interno dello schema della comunicazione invertita, logica della comunicazione che caratterizza l’essere umano, o meglio logica della comunicazione nella quale l’essere umano è da sempre immerso, e proprio per questo è da essa determinato. Lo schema della comunicazione stabilisce che il soggetto riceve il proprio messaggio dall’Altro in forma invertita. Per prima cosa occorre dire che questo schema traduce per Lacan l’inconscio freudiano5. Non posso sviluppare qui questo punto. Due aspetti sono però decisivi per il nostro ragionamento.
Il primo verte sul potere deterministico dell’Altro, sulla radicale esposizione del soggetto all’Altro. Lo schema stabilisce infatti che è l’Altro con la sua risposta a determinare il valore, il senso, la direzione, del messaggio del soggetto. Detto altrimenti è la risposta dell’Altro a determinare il valore della domanda del soggetto – è la risposta che stabilisce e decide il cosa e il come della domanda.
Il secondo verte sull’inversione. L’inversione stabilisce che la risposta dell’Altro alla domanda del soggetto è strutturalmente, cioè necessariamente, la stessa domanda in forma invertita. La risposta a una domanda è dunque sempre una domanda, ed è una domanda che rilancia quella ricevuta invertendola. Invertendo cosa? Il contenuto, il significato? Nient’affatto, si tratta di una inversione dei posti. L’Altro rispondendo alla domanda del soggetto domanda al soggetto quello che il soggetto gli ha domandato. Facciamo un esempio elementare. Un bambino – soggetto – chiede alla madre – Altro –: “sono stato bravo?”. La madre risponde, facciamo l’esempio che dica: “sì, sei stato bravo”. Questa risposta dell’Altro, della madre, alla domanda del soggetto, del bambino, altro non è che la domanda, la richiesta, di essere bravo che la madre rivolge al bambino. Altro esempio. Un paziente chiede all’analista: “riuscirò a risolvere i miei problemi?”; l’analista risponde: “sì riuscirai, sarà difficile ma lavorando insieme ne potrai venire a capo”. La risposta dell’analista altro non è che la domanda, la richiesta, di farcela, che l’analista rivolge al paziente – non è altro dunque che la domanda del paziente che torna su di lui come domanda rivolta a lui stesso.
La domanda nella cura
Torniamo alla soddisfazione della risposta, quella alla quale secondo Lacan un analista deve saper rinunciare. Se teniamo presente il primo asse strutturale dello schema della comunicazione, quello del potere deterministico dell’Altro, è chiaro che per Lacan si tratta allora di rinunciare all’esercizio di questo potere – l’analista deve saper rinunciare alla soddisfazione di esercitare il potere deterministico della risposta sulla domanda. Quale sarebbe il problema per la direzione della cura se si esercitasse questo potere? La domanda del paziente sarebbe soffocata, se non annientata, dalla risposta dell’analista, dunque non avrebbe alcuna possibilità di svilupparsi – e che la domanda del paziente si sviluppi attraverso l’analisi è davvero l’abc della cura. All’interno di questa logica troviamo quella particolare declinazione della determinazione della domanda da parte della risposta che abbiamo chiamato “risposta che comprende la domanda”, risposta dell’analista che soddisfa la domanda del paziente, soddisfazione della domanda che altro non è che una forma più lieve del suo soffocamento-annientamento.
Sempre in relazione alla soddisfazione della risposta alla quale l’analista deve saper rinunciare, prendiamo in considerazione il secondo asse dello schema della comunicazione, quello dell’inversione. Se l’analista risponde alla domanda del paziente, inevitabilmente, cioè indipendentemente da ciò che risponde, domanderà al paziente: se l’analista risponde alla domanda di aiuto del paziente la sua risposta sarà inevitabilmente la domanda di lasciarsi aiutare – così vale per la domanda d’ascolto, che diventerà domanda di farsi ascoltare, così per la domanda d’amore, che diventerà domanda di lasciarsi amare.
Qui troviamo un passaggio di Lacan molto significativo: «a causa della struttura significante [quella che in queste pagine abbiamo chiamato logica della comunicazione invertita], alla domanda di essere nutrito risponde quindi nel luogo dell’Altro, la domanda di lasciarsi nutrire»6.
Se alla domanda di essere nutrito del soggetto l’Altro risponde con la domanda di lasciarsi nutrire, il rapporto soggetto-Altro ristagnerà a livello della domanda, senza che il suo al di qua e il suo al di là entri mai in gioco. Qui può sorgere, proprio per fa entrare in gioco questo al di là e questo al di qua, il rifiuto dell’Altro da parte del soggetto, di cui il rifiuto più plateale è «il rifiuto di lasciarsi nutrire nell’anoressia»7.
Il punto è questo. Rispondere a una domanda comporta strutturalmente domandare. L’analista allora deve sapere rinunciare a quale soddisfazione? Lo abbiamo detto. Deve rinunciare alla soddisfazione della risposta, a quella di determinare e soddisfare la domanda del paziente con la sua risposta. Ma interna a questa declinazione della soddisfazione della risposta ce n'è un’altra, ben più insidiosa, che consiste nel rispondere alla domanda del paziente “come la struttura della comunicazione invertita vuole”, ossia nel rispondere alla domanda del paziente domandando. Qui per l’analista si tratta di stare nello schema della comunicazione in un altro modo, detto altrimenti per l’analista si tratta di rinunciare alla soddisfazione – rassicurante, perché permette che non emerga mai la questione del desiderio – del domandare!
Nella direzione della cura, se alla domanda di curarsi, o alla domanda di guarigione o alla domanda d’ascolto, prodotta dal paziente, l’analista risponde, l’analista risponderà inevitabilmente con la domanda di lasciarsi curare, di lasciarsi guarire, di lasciarsi ascoltare, il che comporterà “necessariamente” anoressia, dunque rifiuto di farsi curare, di lasciarsi guarire, di farsi ascoltare, ecc… in sostanza rifiuto della cura centrata a livello della domanda.
Rispondere alla domanda del paziente domandando provoca “necessariamente” anoressia della cura, ossia rifiuto della cura affinché nella cura entri in gioco l’al di là e l’al di qua della domanda – dunque affinché ci sia cura è fondamentale, ma non sufficiente, che l'analista sappia rinunciare alla soddisfazione del domandare.
Due precisazioni: l’obesità e il puro rifiuto
Qui occorre precisare su quel “necessariamente” che non ha caso ho scritto per due volte virgolettato. La risposta dell’analista che soddisfa la domanda del paziente e che domanda al paziente crea le condizioni per l’anoressia, ossia per il rifiuto della cura – evidentemente di una cura così condotta. Non è scontato però che questo si verifichi – ad esempio si può concretizzare una sorta di obesità della cura, dove il paziente non riesce più a dire no alle incessante domanda dell’analista (questo esito è sia più frequente sia più nefasto).
Altra precisazione è sul fine del rifiuto. Anche qui per due volte ho indicato che la ragione del rifiuto della cura, di un certo modo di dirigerla, della risposta e della domanda dell’analista, sta nel tentativo di far sorgere l’al di qua e l’al di là della domanda. Non è detto che sia sempre così. Una certa conduzione della cura crea le condizioni per l’anoressia, poi non è detto che questa si concretizzi e al contempo non è detto che qualora si concretizzi lo faccia per far sorgere altro, potrebbe essere un semplice e secco rifiuto del troppo domandare dell’analista, cioè della troppa soddisfazione dell’analista.
Il desiderio come scarto della domanda
Cercherò di precisare per quale ragione nella direzione della cura il domandare dell’analista in risposta alla domanda del paziente produce necessariamente anoressia della cura, o meglio crea le condizioni per l’anoressia della cura.
Mi pare di poter dire che ci sia almeno una ragione molto semplice. Fino a prova contraria la psicoanalisi è una cura del desiderio, dunque occorre che in un’analisi entri in gioco il problema del desiderio dell’analizzante, del paziente – quello che fino ad ora abbiamo chiamato l’al di qua e l’al di là della domanda (il che comporterebbe considerare qui il problema del godimento, ma per adesso tralasciamo questo aspetto). Il desiderio non può entrare in gioco che come eccedenza e come scarto di quel che un paziente vuole e domanda. La risposta dell’analista che soddisfa la domanda del paziente – stesso caso vale per frustrarla abbiamo detto –, e che inevitabilmente si soddisfa di ciò, impedisce che dalla domanda del paziente emerga quell’eccedenza, che è il desiderio. Allo stesso modo la risposta dell’analista che soffoca la domanda del paziente impedisce che questa si sviluppi e articoli, dunque impedisce che da questo sviluppo e articolazione possa emergere la questione del desiderio – siamo qui alle prese con quel che abbiamo chiamato esercizio del potere. Infine, ed è l’ultimo punto considerato, la risposta dell’analista che diventa domanda al paziente impedisce strutturalmente che sorga quell’eccedenza della domanda e del domandare che è il desiderio. Questo per molte ragioni. Mi limito ad indicarne due. La prima. Se è l’analista a domandare sarà lui l’oggetto dell’analisi e non il paziente – dunque tanto meno il desiderio del paziente. La seconda. Se è l’analista a domandare, la domanda del paziente non potrà mai fare i suoi giri e incontrare i suoi scacchi, dunque non potrà mai incontrare il desiderio che la causa.
Rispondere sempre
Concludo insistendo su quest’ultimo asse del ragionamento. Giunti a questo punto dobbiamo per forza dire che un analista non deve mai rispondere alla domanda dell’analizzante? Se rispondere comporta inevitabilmente domandare e se domandare impedisce l’emergenza del desiderio e dunque che ci sia l’analisi, l’analista è tenuto e obbligato a non rispondere? Per quanto logica, questa conclusione va rigettata radicalmente. L’analista deve sempre rispondere! L’analista deve sempre rispondere alla domanda dell’analizzante, ma deve sempre rispondere evocando l’altrove, l’al di qua e l’al di là, di quel che la domanda domanda. La risposta dell’analista può essere tecnicamente anche una domanda, ma una domanda volta a evocare altro, a evocare il vuoto da cui la domanda dell’analizzante si genera – e non una domanda rivolta a domandare all’analizzante che continui a domandare, ossia che si lasci domandare.
1 J. Lacan, Il Seminario. Libro VIII. Il transfert, Einaudi, Torino, 2008, p. 116.
2 Id, Il Seminario. Libro VIII, cit.
3 Ivi, pp. 203-204.
4 Id., La direzione della cura, in Scritti, vol. II, Einaudi, Torino, 2002, p. 631.
5 Si tratta di uno schema al quale Lacan non cessa di dare valore per tutto il corso del proprio insegnamento. All’inizio del suo insegnamento questo schema condensa il modo di operare dell’inconscio freudiano – un’altra scena opera al fondo dell’essere umano e lo determina. Quest’altra scena è per Lacan per niente al fondo, ma attorno all’essere umano, è la superficie, il luogo nel quale un essere umano è da sempre immerso, e che lo determina. Tale superficie, tale luogo, nel quale l’essere umano è da sempre è appunto per Lacan lo schema della comunicazione invertita, cioè l’inconscio.
6 Id., Il Seminario. Libro VIII, cit. p. 221.
7 Ivi, p. 222.
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