Con la morte della giovane spinta al suicidio da quell’entità impersonale, e per definizione irresponsabile, chiamata “rete”, tutti i nodi vengono al pettine, ma è ragionevole dubitare che, passato il clamore mediatico, saranno affrontati veramente. La “rete” è un mostro che si nutre dei suoi crimini, diventa più potente.
Nel dramma di un’azione crudele, che una volta avviata (per un errore della vittima, la volontà di un sadico o la dabbenaggine di un cretino di massa) nulla può più fermare, diventa palese la rivalsa del “servo” inanimato sul “padrone” vanesio e arrogante. La protesi digitale fagocita il corpo vivo delle relazioni sociali. Le leggi sono inadeguate, se non tragicomiche, e la globalizzazione le rende inapplicabili, il più delle volte. Il nostro modo di sentire e di pensare subisce una progressiva spersonalizzazione, assestandosi in schemi collettivi omologanti, prossimi a meccanismi di difesa primitivi.
Il voyeurismo viaggia alla velocità della luce e cancella spietatamente due sentimenti strettamente associati: il pudore e la compassione. Come la psicoanalisi ha da tempo intuito, si cerca di vedere a occhi aperti (con lo sguardo del giorno) quello che si vede a occhi chiusi (con lo sguardo del sogno): la “scena primaria”, l’amplesso erotico dei genitori. Dell’incontro erotico dei genitori il lattante ha un’intima intuizione attraverso il suo legame erotico con il corpo della madre (la donna si apre, o si chiude, in modo analogo come amante e come madre). L’intuizione non è vedere, toccare con mano, è presentimento, immaginazione.
L’analista francese Pontalis, scomparso recentemente, diceva che tra la stanza dei bambini e la stanza dei genitori ci deve essere un corridoio, un luogo di passaggio e di gioco. Tra il presentimento del lattante e la sessualità adulta ci deve essere una distanza, uno spazio intermedio, in cui il giocare diventa premessa, apertura, ricognizione. Nel voyeurismo il corridoio, e con questo, il sogno e il gioco, si cancellano: guardare è un atto concreto. Si rigetta, come intollerabile, lo sfumare del visibile nell’invisibile, l’incertezza della penombra.
Il visibile espelle l’invisibile; la femminilità, l’apertura all’altro perdono il loro diritto di cittadinanza. La congiunzione erotica delle differenze (rappresentata nella scena primaria) cede il suo posto all’ibrido, all’androgino, al “tutto in vista”. Se ne fa le spese il pudore: il sentimento che difende lo spazio del nostro essere nella sua più privata intimità dall’avidità dello sguardo altrui, ma anche quello, compassionevole, con cui il nostro sguardo difende lo spazio intimo degli altri, per non saccheggiarlo e svuotarlo (di modo che non abbiamo nulla più da vedere). Smarrito il pudore non sogniamo, non immaginiamo e non possiamo veramente vedere. Siamo ciechi e, al tempo stesso, non siamo visti.
Il sentirsi non visti, ci può portare disperatamente a esibirsi, ma solo per allontanarsi di più da ciò che effettivamente siamo, restare prigionieri nel campo visivo privo di prospettiva di uno sguardo compulsivo, assente a se stesso. Se dentro di noi un po' di sensibilità femminile resiste all’oblio, cadiamo in un sentimento di “vergogna a essere”, nella percezione di un’esistenza inutile e irreparabilmente svilita. Nell’atto deliberato di morire, si incontrano ancora, fugacemente, la voglia di esserci, nel palcoscenico teatro della propria uccisione (ultima sfida alla cecità assassina), e un uscire di scena in cui il pudore ritrova la sua ragione sconfitta, nel mentre la “vergogna a essere” viene restituita al suo mittente collettivo.
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