Un anno fa, l’8 ottobre 2015, aprivo col primo articolo questa rubrica, auspice la statuetta lignea del Pensador angolano. A esso ne sono seguiti, con questo, 27, poco più di due al mese. I temi trattati sono stati, effettivamente, al crocevia tra psichiatria, impegno civile e suggestioni culturali: c’è stato posto per temi letterari, da Cervantes a Dostoëvskij, così come per questioni inerenti la storia (dalla Grande Guerra alla Resistenza) e la politica globale (guerra, globalizzazione, terrorismo, politiche migratorie) nelle loro ricadute sulla persona, o per altre questioni inerenti il lavoro di salute mentale (vita dei servizi, deistituzionalizzazione, TSO e altre forme di coazione, politiche residenziali, superamento degli OPG). Ho trovato in quest’attività uno stimolo per documentarmi e per fermarmi a formulare i pensieri in forma da poter essere esposti, e soprattutto ho trovato questa esperienza piacevole. Spero che chi ha avuto la curiosità e la pazienza di leggere, provi lo stesso interesse e lo stesso piacere.
A Imola, dal 21 al 28 settembre 1874, si tenne il primo congresso della Società freniatrica, fondata l’anno precedente e divenuta dopo il 1932 la Società italiana di psichiatria[i], sotto la presidenza del direttore del locale manicomio, Luigi Lolli . Durante le battute finali lo psichiatra milanese Serafino Biffi proponeva alcuni quesiti su una questione allora molto attuale, l’intreccio cioè tra psichiatria e giustizia con particolare riferimento all’apertura in Italia del manicomio criminale. A essi una commissione avrebbe dovuto lavorare, per poi riferire in occasione del successivo congresso che si sarebbe tenuto tre anni dopo ad Aversa. Il 6 e 7 ottobre scorsi siamo tornati, chiamati da Massimo Aliverti, nella cittadina romagnola per un congresso di storia della psichiatria, “Lineamenti e percorsi della psichiatria italiana tra ottocento e novecento”, e quando Massimo mi ha chiesto un tema per la mia relazione mi sono tornate alla mente, per l’attualità della questione, i quesiti lì formulati 142 anni prima dal Biffi[ii].
Ma procediamo con ordine, rispondendo in primo luogo alla domanda che chi non si interessa di storia della psichiatria può legittimamente farsi, cioè chi fosse costui. Serafino Biffi nasce a Milano nel 1822 e si laurea in medicina a Pavia nel 1846. Dal 1848 comincia a lavorare presso il manicomio privato di San Celso, sempre a Milano, del quale nel 1851 diventa direttore, succedendo ad Andrea Verga con il quale fonda nel 1852 una delle prime riviste psichiatriche italiane[iii], l’Appendice psichiatrica alla Gazzetta Medica Lombarda. Tra il 1850 e il 1860: viaggi di studio in Germania, Belgio, Francia, Svizzera. Nel 1852 visita Geel, il villaggio belga reso famoso dal viaggio di Esquirol e Voisin[iv] del 1821 per la cura dei malati di mente presso famiglie fin dal medioevo[v]. Tra il 1858 e il 1878 è autore di numerose perizie in processi celebri dell’area milanese, tra i quali i processi Curti (uxoricidio, 1858); Introzzi (omicidio, 1871); Agnoletti (figlicidio, 1872); Verzeni (femminicidio, 1872); Dossena (omicidio, 1876); Passannante (tentato regicidio, 1878). E’ anche autore di saggi nel campo della psichiatria forense, frutto in genere dei suoi viaggi di studio presso istituzioni straniere, come Sui riformatorj pei giovani traviati in Francia, memoria letta all’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere l’11 gennajo 1866 e pubblicata sui Rendiconti dell’Istituto; Secondo quali principj debbano organizzarsi i riformatorj per i giovani, del 1876, o ancora il testo di storia criminologica Sulle antiche carceri di Milano e del ducato milanese e sui sodalizj che vi assistevano i prigionieri e i condannati a morte, pubblicato a Milano nel 1884. Nel 1864 fondava con Andrea Verga l’Archivio italiano per le malattie nervose e più particolarmente per le alienazioni mentali e nel 1873 partecipava a Roma alla Fondazione della Società Freniatrica Italiana, della quale assumeva in quell’occasione la carica di Segretario e divenne presidente dal 1891 al 1896. Dal 1890 al 1891 e dal 1894 al 1896 fu inoltre presidente dell’Istituto Lombardo di Scienze e lettere e ricoprì negli anni numerose cariche pubbliche, tra le quali quella di Membro dei consigli comunale e provinciale di Milano[vi], dove morì nel 1899.
Nel 1872 è da registrare la pubblicazione da parte sua sui Rendiconti dell’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere di una memoria sui manicomi criminali, con la quale rispondeva indirettamente ad una ivi pubblicata lo stesso anno da Cesare Lombroso. I due concordano sulla necessità di questi istituti, ma poi divergono su tutte le altre questioni: Biffi nega infatti l’esistenza di un “allarme criminalità” riguardo ai folli, il fatto che in caso di reato essi debbano essere curati principalmente nel manicomio criminale anziché in quello ordinario, l’esistenza di un’alta correlazione tra follia e reato e sostiene che i detenuti che si ammalano in carcere di una malattia mentale guariscono in genere rapidamente e quindi possono per la maggior parte essere curati in infermerie da attrezzarsi nelle carceri. Ne consegue che a suo parere saranno sufficienti pochi posti letto, e che l’apertura del manicomio criminale non è un’urgenza: meglio impiegarci un po’ più di tempo ma non partire in modo raffazzonato. Posizioni appunto diametralmente opposte a quelle espresse da Lombroso.
E veniamo dunque ai quesiti, riportabili ai sei seguenti, che sarebbero stati oggetto del lavoro della commissione presieduta da Gaspare Virgilio, che dal 1876 diviene direttore del primo embrione di manicomio criminale voluto dal sovraintendente alle carceri del regno Martino Beltrani Scalia ad Aversa, al modo in cui ad essi si è risposto appunto al congresso di Aversa nel 1877[vii] e a quello nel quale potremmo rispondere oggi[viii]. Due parole, soltanto, sui protagonisti della discussione ad Aversa: si tratta principalmente di Andrea Verga, Serafino Biffi, Augusto Tamburini, Enrico Morselli, cioè dei quattro presidenti che dal 1873 al 1929, per quasi sessant’anni quindi, si sarebbero succeduti al vertice della Società Freniatrica. Ad essi si aggiungono Gaspare Virgilio, direttore del manicomio e da poco anche del manicomio criminale di Aversa, e poi Antonio Berti, medico di Venezia, e Paolo Fiordispini, psichiatra presso il S. Maria della Pietà di Roma.
Al primo quesito, se esista la necessità del manicomio criminale in Italia, ad Aversa la risposta unanime fu “sì”. Oggi sarebbe “no”, o forse meglio “ni”, perché pur non ritenendo più adatto il modello manicomiale si concorda in genere sull’esistenza di un’area di difficile coabitazione tra giustizia e psichiatria e sull’esigenza di strutture particolari, anche se di esclusiva gestione sanitaria al proprio interno, per i pazienti giudiziari di più difficile gestione, che sono state denominate R.E.M.S. (Residenze per l’Esecuzione delle Misure di Sicurezza).
E’ fattibile una più felice denominazione?
Già allora, la denominazione di manicomio criminale suonava come eccessivamente stigmatizzante, non per il sostantivo, ovviamente, ma per l’aggettivo. Ad essa la Commissione Virgilio ad Aversa propose di sostituire quella di Asilo di Sicurezza e di Salute, mentre Berti, riprendendo la bozza di Codice penale in quel momento in discussione in parlamento, proponeva Casa di Custodia, un termine che Tamburini trova poco adeguato alla natura anche sanitaria della nuova istituzione, prevedendo perciò Casa di Custodia Sanitaria. Si discosta dagli altri Verga che, come vedremo, aveva un’idea un po’ particolare della nuova istituzione da creare, e proponeva il termine Claustro, dagli evidenti echi religiosi.
Negli anni successivi il manicomio criminale sarebbe stato denominato Manicomio Giudiziario soltanto nel Regolamento generale per gli stabilimenti carcerari e pei riformatori governativi del Regno, promulgato con il Regio decreto numero 260 del 1° febbraio 1891, mentre alla denominazione di Ospedale Psichiatrico Giudiziario (O.P.G.), sulla falsariga di quanto era avvenuto per i manicomi provinciali negli anni ’30, si pervenne solo nel 1975[ix].
Quanto alle R.E.M.S. – che certo non corrispondono agli ex O.P.G., ma sono comunque rimaste l’ultimo luogo di faticosa coabitazione tra apparato giudiziario e servizi psichiatrici – Ugo Fornari intervenendo al seminario da poco organizzato da G.B. e Simona Traverso a Pontignano presso Siena dava notizia che il Tavolo tematico n. 11 “Misure di Sicurezza” degli “Stati Generali dell’Esecuzione Penale” attivati presso il Ministero della Giustizia sta lavorando a una nuova denominazione: S.P.P.G. (Servizio Psichiatrico per Pazienti Giudiziari), con riferimento agli S.P.D.C., anche in questo caso per sottolinearne la natura sanitaria[x].
Qual è il numero di quelli Asili occorrenti fra noi?
Come abbiamo visto Lombroso e Biffi avevano idee fortemente divergenti in proposito. Ad Aversa la commissione Virgilio propose da 2 a 4 manicomi, di 300 letti circa ciascuno, da riservarsi ai rei folli. Nella storia del manicomio criminale, nonostante qualche apertura e chiusura[xi], soprattutto negli ultimi decenni ci si è assestati su 6 istituti, per circa 1.200 posti letto. E oggi? Non mi pare possibile prevedere la cifra sulla quale ci si andrà ad attestare, mentre al momento si dispone di un numero imprecisato di posti letto nel circuito psichiatrico ordinario a disposizione di pazienti inviati dall’Autorità Giudiziaria, molto cresciuto negli ultimi anni, oltre a circa 500 letti nelle R.E.M.S. (sarebbero però circa 200 gli internandi in attesa di un posto letto)[xii], e altri posti allocati nelle carceri, su base regionale, per i detenuti in osservazione psichiatrica.
Va da sé, peraltro, che allora come oggi il numero di posti necessari è in stretta relazione con i criteri di inclusione dei pazienti destinati alla struttura.
Quali sono le condizioni materiali e morali dell’impianto e dell’andamento opportuni per quelli asili tra noi?
La struttura e l’organizzazione interna del manicomio criminale sono uno dei temi sui quali gli psichiatri riuniti ad Aversa sono rimasti più sul vago: sappiamo che esso doveva «riunire i vantaggi del manicomio e quelli del carcere»; ma come non sappiamo. Oggetto di dibattito fu piuttosto se esso dovesse essere pensato come corpo a sé stante, o essere immaginato come appendice di un carcere o un manicomio, per ragioni di risparmio. Negli anni successivi, come è noto, entrambe queste soluzioni furono adottate, ma soprattutto mentre per 5 di essi la gestione rimase saldamente in mano al circuito penitenziario, nel sesto essa fu appaltata alla sanità senza che ciò però corrispondesse, almeno ufficialmente, a una distinzione nei criteri d’invio. E oggi le R.E.M.S. rappresentano strutture, se possibile, ancora più eterogenee per dimensione, per livelli di sicurezza e funzionamento interno, con soluzioni da 200 posti letto in ex O.P.G. a Castiglione delle Stiviere, a un paio di posti ospitati in strutture del circuito ordinario nell’area triestina.
Quali sono le condizioni somatiche e morali che devono avere li individui da ricoverare in detti asili?
Si tratta qui, evidentemente, del punto più delicato e più discusso. Ad Aversa la proposta di Virgilio era stata di accogliere i condannati divenuti alienati solo se con tendenze pericolose, divenuti folli lucidi vittime delle loro perverse tendenze, o se di scandalo o pericolo (interessante che si tratti dello stesso criterio adottato nel 1904 per il ricovero in manicomio ordinario), o ancora sui quali pende dubbio il giudizio tra pazzia e delitto. Paolo Fiordispini, intervenendo, propone invece di individuare queste categorie: simulatori e folli ragionanti; pazzi impulsivi; folli affetti da follie sistematizzate, una selezione quindi, parrebbe, su base nosografica. Quanto a Verga, propone che il manicomio criminale sia riservato a casi di dubbia responsabilità[xiii], e semi-responsabili e rei prosciolti perché irresponsabili che altrimenti dovrebbero andare liberi; in questo caso si tratta di un particolare problema legato alla legislazione dell’epoca, mentre nel primo è interessante il fatto che l’alienista milanese motivi la sua scelta con la difficoltà in molti casi di distinguere tra ragione e follia, e la necessità quindi di una soluzione intermedia, il claustro appunto, che consenta di non prendere provvedimenti troppo distanti dalla giustizia in caso di errore. Si apre, a questo punto, un’interessantissima polemica tra Verga, favorevole ad ammettere da un punto di vista anche clinico la possibilità che un soggetto sia posto dalla malattia in una posizione di semi-responsabilità; e Morselli, che insorge a difesa delle posizioni volte a negarla che erano state proprie del suo maestro, Carlo Livi, morto pochi mesi prima[xiv]. E, quantunque altrove abbiamo avuto modo di manifestare la nostra ammirazione per Livi e per il giovane Morselli[xv], in questo caso non possiamo fare a meno di notare come il loro confronto con Verga rientri in quello più generale, caratteristico dell’Italia di quegli anni e bene illustrato da Filippo Maria Ferro nella lezione magistrale con la quale ha aperto le nostre due giornate imolesi[xvi], tra un positivismo ideologico, ancorato ai propri pregiudizi e asserzioni di principio, e un positivismo scientifico, aperto appunto – come Verga dimostra di essere in questo caso – ai dati della ricerca e dell’esperienza. Una commissione formata da Virgilio, Biffi, Verga, Lolli, Tamburini è incaricata di riformulare il problema, e lo fa prevedendo il manicomio criminale per coloro tra i detenuti che sono più gravi sul piano clinico, per gli altri essendo sufficienti le infermerie carcerarie, e per coloro tra i prosciolti per infermità di mente che hanno compiuto i reati più gravi, essendo sufficiente per gli altri il comune manicomio, e sposando quindi per l’un caso e per l’altro un criterio di soglia.
Negli anni successivi, come è noto, il manicomio criminale è stato un’emanazione del sistema carcerario che fino al 1930 ha accolto quasi esclusivamente detenuti con gravi problemi di salute mentale; col Codice Rocco, al manicomio criminale hanno cominciato ad accedere i prosciolti per infermità di mente pericolosi, i semiinfermi dopo espiata la pena, i detenuti con maggiori problemi di salute mentale per il periodo dell’osservazione. Numerosi argini che inizialmente limitavano la discrezionalità del magistrato sono stati negli anni rimossi.
Oggi accedono, mi pare, alle R.E.M.S. i prosciolti per malattia mentale se particolarmente pericolosi, tanto che il normale circuito psichiatrico è considerato insufficiente, e gli imputati ai quali la misura di sicurezza è provvisoriamente anticipata per ragioni cliniche. Di nuovo un criterio di soglia, perciò. La situazione pare però in movimento, perché si vorrebbero, da più parti, escludere questi ultimi; mentre da parte di una proposta avanzata in commissione parlamentare si vorrebbe riportare nelle R.E.M.S. l’osservazione psichiatrica del detenuto.
Quali sono, infine, le modalità della loro ammissione e dimissione dall’Asilo, e le cautele da prendersi a loro riguardo anche dopo che siano dimessi dall’Asilo?
Ad Aversa si prevede che si tratti di una decisione giudiziaria su segnalazione medica, con possibilità di passaggio per il manicomio ordinario; viene altresì formulata per questi pazienti considerati in generale particolarmente pericolosi l’ipotesi che, anche in caso di risoluzione apparentemente totale del quadro morboso, debba essere prevista una sorta di «presa in carico» ambulatoriale alla dimissione, il che è certamente interessante. Anche negli anni di funzionamento dell’OPG si è trattato di decisioni giudiziarie su segnalazione medica, con iniziali vincoli che poi sono caduti negli anni e la possibilità di passaggio per il manicomio ordinario, che è stata sostituita dopo il 1978 da quella per le strutture della nuova psichiatria. E oggi, certo, ingresso e uscita nelle REMS continuano a essere saldamente regolati dall’apparato giudiziario, ma il fatto che si tratti di strutture sanitarie, soggette ad accreditamento pone nuovi problemi.
Per concludere, mi sono chiesto cosa potremmo rispondere all’illustre collega se ci rivolgesse oggi gli stessi quesiti di allora, e ne è uscita questa lettera.
«Caro Biffi, sono spiacente ma mi pare che i sei quesiti che avevi formulato al Congresso di Imola restino ancora, 142 anni dopo, in buona parte inevasi. Certo, oggi sappiamo che il manicomio – neppure un «buon manicomio» come quello da te realizzato a Milano – è uno strumento utile e un buon luogo per la cura. Abbiamo tuttavia, come l’avevate voi, la percezione che un’area in cui psichiatria e giustizia si sovrappongono, esista. Abbiamo cercato di limitare al minimo – come sostenevi tu, contro Lombroso – le strutture psichiatrico-giudiziarie; anzi di posti letto in manicomio criminale tu ne volevi pochi, il minimo; noi proprio li abbiam chiusi e ne siamo soddisfatti. Abbiamo riassorbito per quanto possibile il carico umano di sofferenza degli OPG nei normali circuiti di cura, e abbiamo previsto pochi posti letto giudiziari, a gestione però sanitaria (e non ti nascondo che trovare il giusto equilibrio in questa formulazione equivoca non è facile) e in strutture che dovrebbero essere piccole, per i casi nei quali proprio non ci riusciamo. Pure, non sappiamo ancora darti una risposta certa se ci chiedi come chiameremo questi luoghi (ed è il meno), di quanti di essi alla fine dovremo disporre, a quali standard minimi comuni di cura e di sicurezza dovranno adeguarsi. Meno che meno, siamo d’accordo su quali soggetti li utilizzeranno, quali cureremo lì, quali nelle carceri e quali nei luoghi normali di cura. Addirittura, si paventa il rischio che a restare in carcere alla fine sia proprio chi ha compiuto da poco il delitto, spesso nel corso di una acutizzazione, e quindi avrebbe più bisogno della cura; solo perché nessun tribunale si è ancora (e per quanto tempo?) preso la responsabilità di sancirne la malattia, le così dette misure di sicurezza provvisorie. Impeccabile da un punto di vista giuridico; ma assurdo dal punto di vista clinico. Abbiamo, come voi, il problema della zona grigia, quella degli psicopatici e degli altri, che continuano a essere rimpallati un po’ a caso e per i quali non si riescono a individuare percorsi ragionevoli e flessibili, come sarebbe necessario. Del resto, nel governare ingresso e uscita degli autori di reato dalle strutture il dialogo con la Magistratura è spesso impacciato, difficile; ci sono modelli interessanti negli USA, ma qui in Italia se ne parla poco[xvii]. L’avevi posta bene quindi, non c’è che dire, ai tuoi tempi la questione. Complimenti!».
Imola, addì 6 ottobre 2016
Nell'immagine: Busto di Serafino Biffi presso l'Ospedale Maggiore di Milano, opera di Giulio Branca.
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