Dove comincia l’oggetto, finisce il soggetto.
Artur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, 1818
Il titolo di questo post è ironico. Applica il nome di una famosa legge logica, nota come principio del terzo escluso, secondo cui affermare e negare lo stesso enunciato non possono essere entrambi falsi, a una meno famosa e più recente costruzione topologica di Cantor, che pure alla fine si dimostrerà non del tutto estranea al suddetto principio.
La costruzione di Cantor è ricorsiva e si racconta come segue. Anche nella scienza dura si dà qualche scheletrica narrazione, condotta unicamente sulla falsariga della ripetizione autoreferenziale o ricorsività.
Si parte dall’intervallo unitario [0,1] della retta reale, dotata della topologia euclidea degli intervalli aperti (estremi esclusi). L’intervallo [0,1], estremi inclusi, è chiuso e limitato, quindi per il teorema di Heine-Borel è compatto. Si dimostra che è anche connesso come tutti gli intervalli. Secondo la terminologia di questi post, essendo infinito e compatto, l’intervallo unitario [0,1] è un modello di corpo soggettivo – in psicanalisi si direbbe un’immagine del corpo individuale. La costruzione che darò si può considerare una manipolazione corporea, precisamente una frammentazione dell’immagine del corpo individuale, ben nota in psicanalisi.
Il primo passo della costruzione consiste nel sottrarre all’intervallo [0,1] un certo intervallo aperto; precisamente, diviso l’intervallo [0,1] in tre intervalli uguali, togliamo l’intervallo medio, compreso tra 1/3 e 2/3, estremi esclusi. Il risultato è due intervalli chiusi: [0, 1/3] e [2/3,1]. Siamo in condizioni analoghe a quelle di partenza, quindi sui nuovi intervalli possiamo ripetere l’operazione iniziale. Otterremo quattro intervalli chiusi: [0, 1/9], [2/9, 3/9], [6/9, 7/9] e [8/9, 1].
Cosa succede continuando così? Succede che a ogni passo il numero degli intervalli chiusi raddoppia, mentre la lunghezza dei singoli intervalli cala a un terzo della precedente. Allora proviamo ad andare avanti all’infinito. Il proposito infinito non è né mistico né ossessivo. Significa che, arrivati al passo n-esimo, escludiamo l’intervallo intermedio secondo la regola già applicata al passo (n-1)-esimo; otteniamo l’(n+1)-esimo risultato.
Cosa troviamo all’infinito, ammesso che la ricorsività ci porti alla fine? Troviamo “la polvere di Cantor”, un insieme di singoli punti non più suddivisibili in tre intervalli. Allora ci fermiamo e meditiamo su quel che abbiamo combinato e su ciò che l’infinito ci ha riservato.
Partiamo da un dato di fatto: la misura dell’intervallo unitario. La sua estensione va da 0 a 1, quindi la sua misura è 1 – 0 = 1. Qual è la misura della polvere di Cantor? Si può calcolarla sottraendo alla misura dell’intervallo unitario quella di tutti gli intervalli aperti via via sottratti. La prima sottrazione toglie 1/3 della lunghezza dell’intero, la seconda 2/9, la terza 4/27, la quarta 8/81, ecc. Si tratta di una progressione geometrica che anche al liceo classico insegnano a sommare. La somma vale 1. Quindi l'insieme di Cantor, che è “ciò che rimane”, ha misura 0 = 1 – 1, cioè nulla: un risultato paradossale.
Vuol dire che l’insieme è vuoto? Certo che no! L’insieme di Cantor contiene almeno un’infinità numerabile di punti, per esempio, tutti gli inversi delle potenze di 3. Il matematico mi dimostra addirittura di più: l’infinito dell’insieme di Cantor è più che numerabile; nonostante le infinite sottrazioni, ha esattamente tanti elementi quanti ne ha l’intervallo unitario di partenza. Infatti è formato da numeri la cui espansione decimale in base 3 contiene solo le cifre o 0 o 2, per esempio ¼ = 0,02020202… È allora anche intuitivamente chiaro che l’insieme di Cantor ha almeno tanti elementi quanti sono i numeri reali, che in notazione binaria si rappresentano con espansioni decimali formate dalle cifre o 0 o 1. L’intervallo unitario e l’insieme di Cantor sono equivalenti nel senso della cardinalità anche se topologicamente differenti. Ciò giustifica la possibile immersione del secondo (inteso come corpo collettivo) nel primo (inteso come corpo individuale).
(Si affaccia qui un affascinante problema, che tuttavia esula dal mio tema e forse anche dalle mie possibilità intellettuali: il rapporto tra il discreto e il continuo, che tutta la topologia sfiora senza risolvere. Ma non è escluso che in futuro possa dire qualche sciocchezza in proposito. Intanto, rimando ai testi di Elvio Fachinelli sulla natura del tempo: La freccia ferma e Claustrofilia).
Allora il paradosso della misura nulla non è tanto paradossale. Come spesso succede, per esempio con quelli di Zenone sul movimento, i paradossi sono in generale solo apparenti. Non è il caso di sfruttarli in psicoterapia. Stupiscono i gonzi; agli altri dimostrano solo che la logica adottata non è adatta al problema e che ne va escogitata un’altra. Nel nostro caso la logica della misura non è giusta per trattare l’infinito, come già gli antichi sapevano bene. Per stabilire se due insiemi hanno cardinalità uguale o diversa, Cantor trovò la logica giusta nella corrispondenza biunivoca tra elementi.
Ma l’insieme di Cantor ci riserva altre interessanti e più profonde sorprese.
Innanzitutto è un insieme chiuso. Infatti è il complementare dell’unione numerabile degli intervalli aperti sottratti all’intervallo unitario, la quale è aperta per l’assioma dell’unione. Poiché i sottoinsiemi chiusi di un compatto sono compatti (si dice che la compattezza è una proprietà debolmente ereditaria), l’insieme di Cantor è compatto. Tanto basta per dire che, essendo infinito e compatto, anche l’insieme di Cantor è un corpo soggettivo. L’infinita frammentazione non ha distrutto la corporeità. Lo psicanalista che lavora sugli psicotici con la sabbia sa bene che esistono corpi molto frammentati. In questo contesto uso l’insieme di Cantor come modello di corpo collettivo.
Inoltre ogni punto dell’insieme è un punto limite, perché in ogni suo intorno esiste un punto diverso dal limite. In questo caso si dice che l’insieme è denso in sé (o che non ha punti isolati, quindi non è disperso). Un insieme chiuso (che contiene tutti i propri punti limite) e denso in sé stesso (che contiene solo punti limite) riceve il titolo prestigioso di insieme perfetto.
Nella mia terminologia l’insieme di Cantor è anche un modello di soggetto, il soggetto collettivo. Infatti, la sua chiusura coincide con sé stesso, essendo chiuso, ed è priva di punti interni, cioè non esistono punti tali che anche un loro intorno sia incluso nell’insieme. Ogni punto dell’insieme di Cantor è un punto di frontiera, perché ogni suo intorno contiene sia punti dell’insieme sia punti dell’insieme complementare. Qui emerge il carattere frattale dell’insieme di Cantor. L’intervallo unitario [0,1] ha la frontiera finita costituita dall’insieme {0,1}. L’insieme di Cantor “infinitizza”, se così si può dire, la frontiera “ripiegandola” infinite volte sull’intervallo unitario. La dimensione frattale dell’insieme di Cantor è ln2/ln3; è maggiore di zero, dimensione del punto, e minore di uno, dimensione della linea.
Conclusione del primo capitolo della narrazione: l’insieme di Cantor è un modello di corpo che è anche modello di soggetto. Per me è un modello di soggetto collettivo, essendo formato da unità distinte e ben separate le une dalle altre (vedi il prossimo discorso sulla connessione). Al lacaniano concedo che in questo molto semplice modello topologico il desiderio dell’altro (collettivo) passi al soggetto (individuale) attraverso l’infinita frontiera frattale di dimensione intermedia tra 0 e 1.
Per venire all’argomento della connessione devo intavolare altre definizioni. (È l’inconveniente del discorso meccanicistico e in un certo senso il prezzo da pagare per fare scienza. Trattando le interazioni tra particelle elementari ed essendo le interazioni molto più numerose delle particelle stesse, il meccanicismo ha bisogno di non poche definizioni preliminari.)
Finora non ho detto come è strutturato un sottospazio topologico di uno spazio topologico. Si tratta di fare ipotesi sugli aperti del sottospazio in riferimento agli aperti dello spazio che lo contiene. Per farlo generalizzo un caso particolare. Ammetto che il sottoinsieme Y su cui si vuole introdurre una topologia sia un aperto dello topologico X. Allora, per l’assioma dell’intersezione finita, è chiaro che l’intersezione di Y con un aperto di X è ancora un aperto di X, che è naturale considerare anche un aperto di Y, essendo interamente contenuto in Y. La generalizzazione per un sottoinsieme Y generico recita allora: la topologia indotta in Y dalla topologia di X è la topologia in cui un sottoinsieme A di Y è aperto in Y se e solo se esiste un aperto B di X tale che A è l’intersezione di B con Y. In breve, gli aperti di Y sono le intersezioni degli aperti di X con Y. Allora Y è un sottospazio topologico di X.
Una definizione più astratta e più adatta al trattamento algebrico di sottospazio topologico richiede che sia continua l’immersione di Y in X, cioè la funzione che a ogni elemento di Y associa lo stesso elemento, considerato come elemento di X.
Gli X e gli Y sono ora rispettivamente l’intervallo unitario e l’insieme di Cantor. Cosa succede intersecando gli intervalli aperti dell’intervallo unitario con l’insieme di Cantor? Si verifica innanzitutto che ogni aperto dell’insieme di Cantor è infinito e poi che lo spazio di Cantor è sconnesso. Infatti sappiamo che ½ non appartiene all’insieme di Cantor. Consideriamo i due intervalli aperti disgiunti [0, ½[ e ] ½,1] dell’intervallo unitario. Le loro intersezioni con l’insieme di Cantor sono ancora aperti disgiunti del sottospazio di Cantor. Ma la loro l’unione restituisce tutto l’insieme di Cantor, che allora risulta sconnesso, essendo unione di due aperti disgiunti. Alla stessa conclusione si giunge dimostrando che ogni aperto è chiuso. Inoltre, mancando di intervalli, perché sono “bucherellati” dalla mancanza di punti la cui espansione ternaria è priva della cifra 1, lo spazio di Cantor non è connesso per archi.
Ovviamente lo spazio di Cantor è separato secondo Hausdorff, avendo ogni punto intorni disgiunti dagli intorni di ogni altro punto come lo spazio originale.
Come ho anticipato nel post precedente Topologie corporee (http://www.psychiatryonline.it/node/6428), lo spazio di Cantor, essendo sconnesso, soddisfa la legge logica del terzo escluso rispetto agli aperti. Infatti l’unione di un aperto e del complemento della sua chiusura (che ora è aperta) è l’intero spazio. Curiosamente la cultura classica, che si proponeva di connettere il tutto nell’Uno, si rivela all’esame topologico intimamente sconnessa – schizofrenica – nella misura in cui adotta il principio del terzo escluso.
Ma si può dire di più. La connessione tra punti dello spazio è una relazione di equivalenza. Due punti dello spazio si dicono connessi se esiste un insieme connesso che li contiene. Come ogni relazione di equivalenza anche questa introduce nello spazio una partizione in classi di equivalenza, formate da punti tra loro connessi nel senso specificato. Tale relazione gode delle classiche proprietà dell’equivalenza: riflessività (un punto è connesso a sé stesso), simmetria (se il punto a è connesso al punto b, allora b è connesso ad a e viceversa) e transitività (se il punto a è connesso al punto b e b è connesso al punto c, allora il punto a è connesso al punto c). Le classi di equivalenza della relazione di connessione si chiamano componenti connesse dello spazio. Se la componente connessa del punto x si riduce all’insieme {x} si dice che lo spazio è totalmente sconnesso. Per esempio, lo spazio discreto, dove ogni sottoinsieme è aperto, è totalmente sconnesso. Si dimostra per assurdo (farlo per esercizio) il notevole fatto che lo spazio di Cantor è totalmente sconnesso, pur non essendo discreto (gli aperti di Cantor devono essere insiemi infiniti).
Come si applica tutta questa topologia alla psicologia? Si può farlo in più modi. Non c’è ortodossia in topologia, ma sono possibili diverse metafore (o modelli). Il mio modello, ispirato da Eugen Bleuler, prende lo spunto dalla schizofrenia. Come ho già detto, l’intervallo unitario è un modello di corpo individuale, essendo infinito e compatto (Cartesio direbbe esteso). L’immersione nel corpo individuale dell’insieme di Cantor, pensato come soggetto collettivo, produce il corpo scisso dello schizofrenico. La scissione schizofrenica, la Spaltung che Bleuler chiama anche Zerfahrenheit, è simile ai solchi che le ruote dei carri – manufatti collettivi – producono passando per una strada fangosa. Anche Freud usa l’aggettivo zerfahren a proposito del suo Es, solcato da moti pulsionali tra loro indipendenti e scoordinati. Nel caso dell’insieme di Cantor l’equivalente topologico dei solchi è dato dagli intervalli intermedi sottratti ricorsivamente dall’intervallo unitario, lasciando lo spazio per il passaggio di altri carri (sempre più piccoli), che generano altri solchi.
È chiaro allora che la schizofrenia è una condizione soggettiva infinita che si autogenera da sé stessa ed è praticamente incorreggibile, essendo inarrestabile. Ci saranno sempre solchi che si aggiungono a solchi, generandosi negli spazi non solcati da altri solchi. Insomma non esiste alcuna terapia medica che possa restituire lo stato originario non solcato. Ciò fa onestamente dire a Bleuler di non aver mai dimesso uno schizofrenico guarito. “Non ho mai dimesso uno schizofrenico in cui non potessi ancora vedere chiari segni di malattia e sono solo molto pochi coloro nei quali tali segni – i solchi – si debbano espressamente cercare”. (E. Bleuler, La dementia praecox o gruppo delle schizofrenie (1911), corsivo dell’autore). La consistenza della schizofrenia è quella di una frana che continua a franare su sé stessa senza fine, en abîme, si dice in francese.
La psicanalisi, come la topologia, non autorizza alcun ottimismo ma neppure si lascia andare al pessimismo. Una volta concepita la schizofrenia come inserzione di un soggetto totalmente sconnesso, quello collettivo, nell’individuale connesso, è chiaro che la psicanalisi non può curare la “malattia” schizofrenica. Può tuttavia aiutare a vivere accanto alla schizofrenia, sapendo che accanto a una scissione ce n’è subito un’altra che la rilancia nell’eterna ripetizione dell’identico (per cui non c’è bisogno di supporre nessuna causa pulsionale mortifera alla Freud).
“Accanto” è l’avverbio intorno a cui ruotano tutte le elucubrazioni topologiche su quella res extensa che costituisce la soggettività umana. È un’illusione ingiustificata pensare a una res cogitans indipendente e superiore all’extensa. È un’illusione psicoterapeutica, perché accanto a un solco non c’è altro che un altro solco che scava inesorabilmente la soggettività. Quel che resta è poca cosa: ha misura nulla. Giustamente Lacan parlava di soggetto in afanisi o in dissolvenza. Hegel parlerebbe di verschwinden, “dileguare”, da intendere anche nel senso metaforico di andare in quel posticino, cioè di andare a cagare. “Il soggetto scompare quando compare l’oggetto”, diceva Schopenhauer un secolo è mezzo prima. Ciò non toglie che il soggetto pensi con il proprio oggetto, come ancora Lacan insegnava nell’XI seminario e come mezzo secolo dopo ripete il topologo dilettante, autore di queste righe e allievo di quell’analista.
Un’ultima considerazione tra l’allegorico e il filosofico.
Con l’insieme di Cantor abbiamo polverizzato l’Uno, l’intervallo unitario della retta euclidea. “C’è dell’Uno”, Y a d’l’Un, era il ritornello dell’ultimo Lacan, che non si canta in topologia. Abbiamo così minato alla base la filosofia idealistica fondata sul principio “se l’uno è”, fondamento di quell’ontologia mirabilmente esposta da Platone nel Parmenide. Cosa ci abbiamo guadagnato? Di certo uno sguardo non antropomorfo e non vitalistico sulla schizofrenia, ma anche sulla non schizofrenia. Non dimentichiamo, infatti, che nell’intervallo unitario (modello di corpo individuale), in cui è stata immersa la polvere di Cantor (modello di soggetto collettivo), restano attivi e operanti degli intervalli aperti connessi, su cui si possono innestare e da cui possono partire spunti di transfert. La distinzione freudiana tra le psiconevrosi di transfert (topologicamente connesse e di misura pari a 1) e le narcisistiche (totalmente sconnesse e di misura pari a 0), nonché la loro intima prossimità, tanto che in ogni intorno delle psiconevrosi narcisistiche ci sono quelle da transfert (in topologia si dice che le prime sono densamente distribuite tra le seconde), resta infatti al fondo della nostra concezione dell’inconscio, inteso come luogo dell’interazione tra individuale e collettivo (tra individuo e specie, direi in termini darwiniani). Lì sta anche la possibilità di “cura” della follia nel tentativo di riconnetterla alla “normale” nevrosi di transfert mediante un pesante (infinito) lavoro analitico.
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