LA SPERANZA, L’ATTESA E LA CONSOLAZIONE
di Sarantis Thanopulos, il manifesto, 1 ottobre 2016
La speranza è la prima a nascere e l’ultima a morire. Affonda le sue radici nel respiro del corpo e detta i tempi, i ritmi e il movimento della nostra presenza nel mondo. La sua totale assenza, la forma più radicale di anoressia esistenziale, non è compatibile con la vita: se si smette di sperare si muore. Guida del desiderio, la speranza anima e orienta lo spazio dell’attesa. Legata al senso di mancanza l’attesa non è passiva: tende verso ciò che manca, fa aprire il soggetto, spingendolo verso l’altro, lavorandolo dal suo interno. La speranza imprime all’attesa una direzione, che diventa presentimento, immaginazione, prima ancora che la cosa desiderata abbia assunto una forma riconoscibile e definita. Alla speranza non si oppone la disperazione. Quest’ultima è il dolore lacerante che il vuoto di speranza causa. Anche quando sfocia nel suicidio, la disperazione cerca, invoca la speranza, è la sua realizzazione in negativo. L’opposto, l’antagonista della speranza è la consolazione: la chiusura dell’essere, il falso sentimento di stabilità creato dalla contrazione della materia psicocorporea che si nega all’esperienza.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6433
La speranza è la prima a nascere e l’ultima a morire. Affonda le sue radici nel respiro del corpo e detta i tempi, i ritmi e il movimento della nostra presenza nel mondo. La sua totale assenza, la forma più radicale di anoressia esistenziale, non è compatibile con la vita: se si smette di sperare si muore. Guida del desiderio, la speranza anima e orienta lo spazio dell’attesa. Legata al senso di mancanza l’attesa non è passiva: tende verso ciò che manca, fa aprire il soggetto, spingendolo verso l’altro, lavorandolo dal suo interno. La speranza imprime all’attesa una direzione, che diventa presentimento, immaginazione, prima ancora che la cosa desiderata abbia assunto una forma riconoscibile e definita. Alla speranza non si oppone la disperazione. Quest’ultima è il dolore lacerante che il vuoto di speranza causa. Anche quando sfocia nel suicidio, la disperazione cerca, invoca la speranza, è la sua realizzazione in negativo. L’opposto, l’antagonista della speranza è la consolazione: la chiusura dell’essere, il falso sentimento di stabilità creato dalla contrazione della materia psicocorporea che si nega all’esperienza.
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http://www.psychiatryonline.it/node/6433
CHE COSA SUCCEDE AL NOSTRO IO QUANDO LEGGIAMO
di Massimo Recalcati, repubblica.it, 2 ottobre 2016
Un nuovo tabù invade il nostro tempo: è il tabù della lettura. Il lamento è unanime: non si legge più, non si acquistano più libri né giornali, non si dedica più tempo alla pratica della lettura. Meglio l’accesso immediato alle immagini, meglio il loro consumo rapido. Sappiamo bene che la lettura non è un esercizio facile; implica pensiero, applicazione, concentrazione, solitudine. Un libro non è un programma televisivo; leggere implica la pazienza del tempo, non risponde al consumo senza filtri dell’immagine. Ma cosa accade quando leggiamo? Prendiamo le cose alla loro origine. Per leggere bisogna ovviamente conoscere la lingua nella quale il libro è scritto. Ma qual è stata la nostra prima lingua? La prima lingua non è stata quella di cui si nutre a prima vista la lettura. La prima lingua non è la lingua nazionale, quella stabilita dal codice del linguaggio, ma una lingua che ha preceduto tutte le lingue e che viene prima di ogni possibile sua storia collettiva. Questa prima lingua precede l’ordine simbolico, condiviso universalmente, del linguaggio. È fatta di suoni confusi, di affetti, di stati emotivi, di lettere disgiunte, di impasti di fonemi e spasmi del corpo. È una lingua dove il significante non veicola il significato, ma è tutt’uno col corpo di chi parla.
Segue qui:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/10/02/che-cosa-succede-al-nostro-io-quando-leggiamo54.html?ref=search
Un nuovo tabù invade il nostro tempo: è il tabù della lettura. Il lamento è unanime: non si legge più, non si acquistano più libri né giornali, non si dedica più tempo alla pratica della lettura. Meglio l’accesso immediato alle immagini, meglio il loro consumo rapido. Sappiamo bene che la lettura non è un esercizio facile; implica pensiero, applicazione, concentrazione, solitudine. Un libro non è un programma televisivo; leggere implica la pazienza del tempo, non risponde al consumo senza filtri dell’immagine. Ma cosa accade quando leggiamo? Prendiamo le cose alla loro origine. Per leggere bisogna ovviamente conoscere la lingua nella quale il libro è scritto. Ma qual è stata la nostra prima lingua? La prima lingua non è stata quella di cui si nutre a prima vista la lettura. La prima lingua non è la lingua nazionale, quella stabilita dal codice del linguaggio, ma una lingua che ha preceduto tutte le lingue e che viene prima di ogni possibile sua storia collettiva. Questa prima lingua precede l’ordine simbolico, condiviso universalmente, del linguaggio. È fatta di suoni confusi, di affetti, di stati emotivi, di lettere disgiunte, di impasti di fonemi e spasmi del corpo. È una lingua dove il significante non veicola il significato, ma è tutt’uno col corpo di chi parla.
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SIAMO TUTTI UN PO’ PSICOLABILI (MA LE DONNE SEMPRE DI PIÙ). Il divario dei problemi mentali tra i due sessi si allarga: le femmine colpite da disturbi sono il triplo dei maschi
di Claudio Risè, ilgiornale.it, 4 ottobre 2016
I maschi non stanno benissimo di testa, si sa. Ma le donne stanno anche peggio. Lo raccontano le statistiche dei centri di ricerca specializzati, ma anche le cronache quotidiane. Ciò che sorprende maggiormente, però, in un’epoca comunque caratterizzata dalla sempre maggiore affermazione femminile, è il fatto che il divario dei disturbi psichiatrici tra i due sessi invece di ridursi, si stia allargando. Le donne con problemi psichici sono oggi il triplo degli uomini. Il peggioramento riguarda entrambi i sessi, e i più colpiti sono in particolare i più giovani. Negli ultimi 7 anni, secondo uno studio promosso dal governo inglese, nelle ragazze da 16 a 24 anni sono aumentati del 68% gli atti autolesionisti (come il tagliarsi, o bruciarsi), e del 27% le diagnosi di disturbo psichiatrico: 1 donna su 4 ne soffre. Nella popolazione femminile complessiva è invece 1 donna su 5 che ha un disturbo mentale (e un uomo su 8). Molti, anche tra le donne, cominciano a pensare che forse il modo in cui l’affermazione femminile è stata realizzata non sia stato molto vantaggioso per loro.
Segue qui:
http://www.ilgiornale.it/news/siamo-tutti-po-psicolabili-donne-sempre-pi-1314141.html
I maschi non stanno benissimo di testa, si sa. Ma le donne stanno anche peggio. Lo raccontano le statistiche dei centri di ricerca specializzati, ma anche le cronache quotidiane. Ciò che sorprende maggiormente, però, in un’epoca comunque caratterizzata dalla sempre maggiore affermazione femminile, è il fatto che il divario dei disturbi psichiatrici tra i due sessi invece di ridursi, si stia allargando. Le donne con problemi psichici sono oggi il triplo degli uomini. Il peggioramento riguarda entrambi i sessi, e i più colpiti sono in particolare i più giovani. Negli ultimi 7 anni, secondo uno studio promosso dal governo inglese, nelle ragazze da 16 a 24 anni sono aumentati del 68% gli atti autolesionisti (come il tagliarsi, o bruciarsi), e del 27% le diagnosi di disturbo psichiatrico: 1 donna su 4 ne soffre. Nella popolazione femminile complessiva è invece 1 donna su 5 che ha un disturbo mentale (e un uomo su 8). Molti, anche tra le donne, cominciano a pensare che forse il modo in cui l’affermazione femminile è stata realizzata non sia stato molto vantaggioso per loro.
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ADOLF DUTERTE
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 5 ottobre 2016
Hitler ha sterminato tre milioni di ebrei, nelle Filippine ci sono tre milioni di tossicodipendenti. Sarei felice di sterminarli”, ha detto il presidente Rodrigo Duterte. “Se la Germania ha avuto Hitler, le Filippine possono contare su di me”, ha precisato per chi non credeva alle proprie orecchie, producendosi in altre bestialità che il lettore può trovare nell’illuminante pagina di Giulia Pompili. Ma accidenti, come faccio a mettere sul lettino uno così, uno con le idee tanto chiare che già le ha messe in opera ammazzando un paio di migliaia di spacciatori, di drogati o presunti tali, sicché allo sterminio degli ebrei Duterte è capace di avvicinarsi davvero, sterminio che come tutti sanno tranne lui è di sei milioni. Ma forse lo sa, e tiene la popolazione in riserva per altri stermini, quello dei grassi ad esempio, o dei magri, o dei sordi, chissà.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/10/05/duterte-filippine-aleppo-siria___1-vr-148613-rubriche_c241.htm
Hitler ha sterminato tre milioni di ebrei, nelle Filippine ci sono tre milioni di tossicodipendenti. Sarei felice di sterminarli”, ha detto il presidente Rodrigo Duterte. “Se la Germania ha avuto Hitler, le Filippine possono contare su di me”, ha precisato per chi non credeva alle proprie orecchie, producendosi in altre bestialità che il lettore può trovare nell’illuminante pagina di Giulia Pompili. Ma accidenti, come faccio a mettere sul lettino uno così, uno con le idee tanto chiare che già le ha messe in opera ammazzando un paio di migliaia di spacciatori, di drogati o presunti tali, sicché allo sterminio degli ebrei Duterte è capace di avvicinarsi davvero, sterminio che come tutti sanno tranne lui è di sei milioni. Ma forse lo sa, e tiene la popolazione in riserva per altri stermini, quello dei grassi ad esempio, o dei magri, o dei sordi, chissà.
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http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/10/05/duterte-filippine-aleppo-siria___1-vr-148613-rubriche_c241.htm
IN EDICOLA JUNG, L’ALLIEVO (RIBELLE) DI FREUD CHE DIVENNE MAESTRO. Dal 7 ottobre con il quotidiano «Ricordi, sogni, riflessioni» di Carl Gustav Jung, il secondo volume dell’iniziativa editoriale «Biblioteca di psicologia»
di Redazione Cultura, corriere.it, 5 ottobre 2016
Padri fondatori della psicoanalisi, i cui testi fondamentali hanno annunciato la nascita o l’evoluzione di concetti come inconscio, complesso, archetipo, pulsione, oppure il concepimento di una nuova idea dell’uomo e della cura, o un nuovo modo di leggere la mente e le relazioni. E, accanto ai maestri, ecco gli studiosi contemporanei che hanno sviluppato visioni nuove eppure radicate nella storia della disciplina. Da domani, per la Biblioteca di psicologia, sarà in edicola il secondo volume della collana, un’iniziativa editoriale di 30 uscite: classici come Freud, che la settimana scorsa ha inaugurato l’opera con Introduzione alla psicoanalisi, o Lacan, ma anche innovatori come Bettelheim e Basaglia, e autori contemporanei.
Segue qui:
http://www.corriere.it/gli-allegati-di-corriere/16_ottobre_05/collana-corriere-edicola-quotidiano-psicologia-jung-93b6afd0-8b12-11e6-b600-82bab359d14d.shtml?refresh_ce-cp
Padri fondatori della psicoanalisi, i cui testi fondamentali hanno annunciato la nascita o l’evoluzione di concetti come inconscio, complesso, archetipo, pulsione, oppure il concepimento di una nuova idea dell’uomo e della cura, o un nuovo modo di leggere la mente e le relazioni. E, accanto ai maestri, ecco gli studiosi contemporanei che hanno sviluppato visioni nuove eppure radicate nella storia della disciplina. Da domani, per la Biblioteca di psicologia, sarà in edicola il secondo volume della collana, un’iniziativa editoriale di 30 uscite: classici come Freud, che la settimana scorsa ha inaugurato l’opera con Introduzione alla psicoanalisi, o Lacan, ma anche innovatori come Bettelheim e Basaglia, e autori contemporanei.
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http://www.corriere.it/gli-allegati-di-corriere/16_ottobre_05/collana-corriere-edicola-quotidiano-psicologia-jung-93b6afd0-8b12-11e6-b600-82bab359d14d.shtml?refresh_ce-cp
IL VIAGGIO DI JUNG DENTRO DI SÉ.LE SUE SCOPERTE, L’ANIMA, I DEMONI. Lo psichiatra si ritirò sul lago di Zurigo e si immerse nell’autobiografia «Se fossi vissuto nel Medioevo mi avrebbero bruciato come eretico»
di Marco Garzonio, corriere.it, 5 ottobre 2016
Per sua volontà non figura nei diciannove volumi delle Opere. Eppure Ricordi, sogni, riflessioni è «il tutto Jung», un libro unico, dove scienza e biografia sono le due facce d’unica realtà. Per non addetti ai lavori e specialisti è la porta d’accesso alle scoperte di Jung sull’inconscio, al modo in cui lavorava su di sé, sui sogni suoi e dei pazienti, al suo carattere («Ho offeso molta gente… non avevo pazienza con gli uomini»), alla sua idea di Dio, che per lui «era una delle più certe esperienze immediate» («tutti i miei pensieri ruotano attorno a Dio»), con una chiosa: «Nel Medioevo mi avrebbero bruciato come un eretico». È la storia di un’anima questo libro cominciato sessant’anni fa, nel 1956, quando Carl Gustav Jung, a 81 anni (era nato il 26 luglio del 1875 a Kesswil, sulla sponda elvetica del lago di Costanza), era al culmine della fama. Ma guai a cercarvi aforismi sapienziali come molta pubblicistica e derive di tipo New Age sono solite fare; basta un giro sul web per rimanere sconcertati da equivoci e superficialità di una psicologia-fai-da-te che Jung invece condannava: si legga il capitolo «Attività psichiatrica». I Ricordi sono racconto, intensa, godibile, opera d’uno psichiatra (come egli ribadisce d’essere), di uno scienziato che per bussola ha una visione empirica del lavoro clinico e ha distanza critica e coscienza etica nei confronti di sogni, fantasie, passioni, errori.
Segue qui:
http://www.corriere.it/gli-allegati-di-corriere/16_ottobre_05/collana-corriere-edicola-quotidiano-psicologia-jung-696dc13c-8b0d-11e6-b600-82bab359d14d.shtml
Per sua volontà non figura nei diciannove volumi delle Opere. Eppure Ricordi, sogni, riflessioni è «il tutto Jung», un libro unico, dove scienza e biografia sono le due facce d’unica realtà. Per non addetti ai lavori e specialisti è la porta d’accesso alle scoperte di Jung sull’inconscio, al modo in cui lavorava su di sé, sui sogni suoi e dei pazienti, al suo carattere («Ho offeso molta gente… non avevo pazienza con gli uomini»), alla sua idea di Dio, che per lui «era una delle più certe esperienze immediate» («tutti i miei pensieri ruotano attorno a Dio»), con una chiosa: «Nel Medioevo mi avrebbero bruciato come un eretico». È la storia di un’anima questo libro cominciato sessant’anni fa, nel 1956, quando Carl Gustav Jung, a 81 anni (era nato il 26 luglio del 1875 a Kesswil, sulla sponda elvetica del lago di Costanza), era al culmine della fama. Ma guai a cercarvi aforismi sapienziali come molta pubblicistica e derive di tipo New Age sono solite fare; basta un giro sul web per rimanere sconcertati da equivoci e superficialità di una psicologia-fai-da-te che Jung invece condannava: si legga il capitolo «Attività psichiatrica». I Ricordi sono racconto, intensa, godibile, opera d’uno psichiatra (come egli ribadisce d’essere), di uno scienziato che per bussola ha una visione empirica del lavoro clinico e ha distanza critica e coscienza etica nei confronti di sogni, fantasie, passioni, errori.
Segue qui:
http://www.corriere.it/gli-allegati-di-corriere/16_ottobre_05/collana-corriere-edicola-quotidiano-psicologia-jung-696dc13c-8b0d-11e6-b600-82bab359d14d.shtml
TROPPA LIBERTÀ SESSUALE? NO, POCO CORAGGIO D’USARLA PER QUANTO VALE. La potenza rivoluzionaria dell’eros è metterci in contatto col fondo enigmatico di noi stessi: ben oltre la trasgressione, l’esperienza dell’assoluto
di Umberto Galimberti e un lettore, 7 ottobre 2016
Sono uno studente universitario di 24 anni e in questo periodo sto riflettendo su quanto è sacra la nostra sessualità. Mi stupisce la facilità con cui persone senza nessun tipo di legame finiscano a letto insieme e non disdegnino l’amore in gruppo. In tutta la mia vita sessuale ho rifiutato praticamente il 98% delle ragazze e le possibilità di concludere “una notte e via”. Da questo mi sorge una domanda: perché e a che serve, fare sesso senza sentimento? È un fattore fisiologico? Lo si fa per “svuotarsi”, per avere un orgasmo? Sinceramente preferisco “riempire” il mio cervello e il mio cuore. Oppure è un comportamento dettato dal fattore psicologico? Lo si fa per dimenticare i problemi? Eppure i momenti belli sono tali anche per il fatto che quando riaffiorano alla nostra mente producono un certo benessere. Che effetto può produrre, il ricordo del sesso con una persona di cui non ti importa niente, di cui non sai neppure il nome? Ma la cosa che più mi spaventa è la reiterazione, il rifarlo senza mai fermarsi: “se ne ho la possibilità, la sfrutto”. Nelle discoteche e in tanti altri posti non si prova più imbarazzo. Ci si bacia, e dopo? Beh, è chiaro: o a casa mia o casa tua, oppure all’aperto, in un posto abbastanza nascosto. E se ci vedono? Fa niente, è un problema altrui, l’importante è che io calmi i miei ormoni. Io vedo dell’assurdo in tutto questo. Non so lei… Christian superdes92@gmail.com
La libertà sessuale è un dono dell’emancipazione femminile. E parlo di “dono”, perché i grandi cambiamenti di costume e quindi di modi di vivere sono sempre opera delle donne, che quando emergono dalla “natura”, nel cui recinto i maschi per secoli le hanno confinate, e fanno la loro apparizione nella “storia”, fanno nascere una storia nuova. Che è scandalosa non per l’abbigliamento per i comportamenti, ma perché fa crollare un ordine collaudato e un modo di pensare (la donna come moglie e madre), di sentire (come oggetto del desiderio maschile), di relazionarsi (la “mia” donna, con tutta la prepotenza dell’aggettivo possessivo). La donna diventa soggetto della propria esistenza e al pari dell’uomo dispone della sua sessualità. È chiaro che ogni rivoluzione porta inevitabilmente con sé un eccesso. Anche un adolescente, quando sente di doversi emancipare dai genitori sbatte la porta, poi quando si sente emancipato riprende ad aprirla e chiuderla educatamente. Rispetto agli eccessi di una biografia, gli eccessi di un’emancipazione storica sono un po’ più lunghi. E quindi questa festa orgiastica della sessualità ha bisogno di un po’ di tempo perché si giunga a porsi la domanda: dopo l’orgia che si fa?
Segue qui:
http://d.repubblica.it/dmemory/2016/10/01/lettere/umbertogalimbertirisponde/250lette20161001692500250.html
Sono uno studente universitario di 24 anni e in questo periodo sto riflettendo su quanto è sacra la nostra sessualità. Mi stupisce la facilità con cui persone senza nessun tipo di legame finiscano a letto insieme e non disdegnino l’amore in gruppo. In tutta la mia vita sessuale ho rifiutato praticamente il 98% delle ragazze e le possibilità di concludere “una notte e via”. Da questo mi sorge una domanda: perché e a che serve, fare sesso senza sentimento? È un fattore fisiologico? Lo si fa per “svuotarsi”, per avere un orgasmo? Sinceramente preferisco “riempire” il mio cervello e il mio cuore. Oppure è un comportamento dettato dal fattore psicologico? Lo si fa per dimenticare i problemi? Eppure i momenti belli sono tali anche per il fatto che quando riaffiorano alla nostra mente producono un certo benessere. Che effetto può produrre, il ricordo del sesso con una persona di cui non ti importa niente, di cui non sai neppure il nome? Ma la cosa che più mi spaventa è la reiterazione, il rifarlo senza mai fermarsi: “se ne ho la possibilità, la sfrutto”. Nelle discoteche e in tanti altri posti non si prova più imbarazzo. Ci si bacia, e dopo? Beh, è chiaro: o a casa mia o casa tua, oppure all’aperto, in un posto abbastanza nascosto. E se ci vedono? Fa niente, è un problema altrui, l’importante è che io calmi i miei ormoni. Io vedo dell’assurdo in tutto questo. Non so lei… Christian superdes92@gmail.com
La libertà sessuale è un dono dell’emancipazione femminile. E parlo di “dono”, perché i grandi cambiamenti di costume e quindi di modi di vivere sono sempre opera delle donne, che quando emergono dalla “natura”, nel cui recinto i maschi per secoli le hanno confinate, e fanno la loro apparizione nella “storia”, fanno nascere una storia nuova. Che è scandalosa non per l’abbigliamento per i comportamenti, ma perché fa crollare un ordine collaudato e un modo di pensare (la donna come moglie e madre), di sentire (come oggetto del desiderio maschile), di relazionarsi (la “mia” donna, con tutta la prepotenza dell’aggettivo possessivo). La donna diventa soggetto della propria esistenza e al pari dell’uomo dispone della sua sessualità. È chiaro che ogni rivoluzione porta inevitabilmente con sé un eccesso. Anche un adolescente, quando sente di doversi emancipare dai genitori sbatte la porta, poi quando si sente emancipato riprende ad aprirla e chiuderla educatamente. Rispetto agli eccessi di una biografia, gli eccessi di un’emancipazione storica sono un po’ più lunghi. E quindi questa festa orgiastica della sessualità ha bisogno di un po’ di tempo perché si giunga a porsi la domanda: dopo l’orgia che si fa?
Segue qui:
http://d.repubblica.it/dmemory/2016/10/01/lettere/umbertogalimbertirisponde/250lette20161001692500250.html
L’EDUCAZIONE NON SI FA SU FACEBOOK
di Claudio Risè, ilgiornale.it, 7 ottobre 2016
Basta risse tra genitori e insegnanti sui compiti a scuola. È già difficile comunque educare i figli, se poi i maestri e i genitori (le due principali autorità che se ne occupano) si mettono a litigare fra loro, allora è davvero finita. Esistono istituti dove i compiti si fanno a scuola, altri dove si fanno a casa, ed altri dove non si fanno per niente. I genitori scelgano quello con la regola che va bene alla famiglia, e poi la seguano, con animo il più possibile pacificato. L’educazione dei bambini non può realizzarsi attraverso referendum, appelli su Facebook o accordi raggiunti caso per caso; le regole vanno condivise prima, e poi seguite. Costruire oggi un rapporto positivo coi figli, aprendosi un varco attraverso il muro pressoché impenetrabile rappresentato da cellulari, tablet e computer è già (come i genitori sanno benissimo), un’impresa molto difficile, a volte quasi eroica. I ragazzini hanno testa e dita completamente impegnate sugli schermi, difficile farsi ascoltare. Per riuscirci, o almeno provarci, è indispensabile che gli adulti si alleino tra di loro e smettano di competere per chi ha più prestigio presso il bambino. Dando finalmente ai bambini prova di possedere la dote oggi forse più preziosa e più rara: il buonsenso.
Segue qui:
http://www.ilgiornale.it/news/politica/leducazione-non-si-fa-su-facebook-1315498.html
Basta risse tra genitori e insegnanti sui compiti a scuola. È già difficile comunque educare i figli, se poi i maestri e i genitori (le due principali autorità che se ne occupano) si mettono a litigare fra loro, allora è davvero finita. Esistono istituti dove i compiti si fanno a scuola, altri dove si fanno a casa, ed altri dove non si fanno per niente. I genitori scelgano quello con la regola che va bene alla famiglia, e poi la seguano, con animo il più possibile pacificato. L’educazione dei bambini non può realizzarsi attraverso referendum, appelli su Facebook o accordi raggiunti caso per caso; le regole vanno condivise prima, e poi seguite. Costruire oggi un rapporto positivo coi figli, aprendosi un varco attraverso il muro pressoché impenetrabile rappresentato da cellulari, tablet e computer è già (come i genitori sanno benissimo), un’impresa molto difficile, a volte quasi eroica. I ragazzini hanno testa e dita completamente impegnate sugli schermi, difficile farsi ascoltare. Per riuscirci, o almeno provarci, è indispensabile che gli adulti si alleino tra di loro e smettano di competere per chi ha più prestigio presso il bambino. Dando finalmente ai bambini prova di possedere la dote oggi forse più preziosa e più rara: il buonsenso.
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IL TRADIMENTO DI BENIGNI
di Massimo Recalcati, repubblica.it, 7 ottobre 2016
LA SCADENZA per il voto sul referendum costituzionale si avvicina e, come è normale, il dibattito politico si infiamma. In ogni referendum che ha marcato il passo, il paese si è inevitabilmente diviso (monarchia e repubblica; divorzio, aborto). Accade in democrazia che vi sia una maggioranza e una minoranza. La cosa che più mi colpisce non è quindi né l’infiammarsi del dibattito politico, né la divisione del paese, ma un sintomo che manifesta una grave malattia che ha da sempre storicamente afflitto la sinistra (ora pienamente ereditata dal M5S). Ne ha fatto recentemente le spese Roberto Benigni aspramente attaccato per la sua presa di posizione a favore del Sì. A quale grave malattia mi sto riferendo? Si tratta della malattia (ideologica) del ”tradimento”. Anche una parte del fronte di sinistra del No ne è purtroppo afflitta. Non coloro che ragionano nel merito dei contenuti della riforma non condividendoli (come provò a fare con cura Zagrebelsky in un recente confronto televisivo con Matteo Renzi), ma coloro che vorrebbero situare il confronto sul piano etico impugnando, appunto, l’antico, ma sempre attualissimo, tema del tradimento degli ideali.
Segue qui
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/10/07/il-tradimento-di-benigni31.html?ref=search
LA SCADENZA per il voto sul referendum costituzionale si avvicina e, come è normale, il dibattito politico si infiamma. In ogni referendum che ha marcato il passo, il paese si è inevitabilmente diviso (monarchia e repubblica; divorzio, aborto). Accade in democrazia che vi sia una maggioranza e una minoranza. La cosa che più mi colpisce non è quindi né l’infiammarsi del dibattito politico, né la divisione del paese, ma un sintomo che manifesta una grave malattia che ha da sempre storicamente afflitto la sinistra (ora pienamente ereditata dal M5S). Ne ha fatto recentemente le spese Roberto Benigni aspramente attaccato per la sua presa di posizione a favore del Sì. A quale grave malattia mi sto riferendo? Si tratta della malattia (ideologica) del ”tradimento”. Anche una parte del fronte di sinistra del No ne è purtroppo afflitta. Non coloro che ragionano nel merito dei contenuti della riforma non condividendoli (come provò a fare con cura Zagrebelsky in un recente confronto televisivo con Matteo Renzi), ma coloro che vorrebbero situare il confronto sul piano etico impugnando, appunto, l’antico, ma sempre attualissimo, tema del tradimento degli ideali.
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TRADITORI E RINNEGATI
di Adriano Sofri, ilfoglio.it, 8 Ottobre 2016
Caro Massimo Recalcati, ho una sola obiezione alla tua denuncia della caccia al traditore: non è stalinista. Stalin innovò formidabilmente in quantità. Ma la paranoia e la superstizione del traditore era già connaturata a certe sinistre quando prese un nome più squisito, quello del rinnegato. (Il rinnegato Kautsky ecc.). Il rinnegato dà al traditore qualcosa in più di subdolamente sacrilego, e non a caso ha un’origine religiosa. Tutte le religioni dogmaticamente costituite hanno odiato e perseguitato i loro transfughi ben più accanitamente che gli infedeli in genere. Lo fanno oggi reciprocamente i fanatici sunniti e sciiti. Lo stesso Giuda diventò il prototipo del traditore e il bersaglio dell’antigiudaismo cristiano perché fu propriamente un rinnegato. Cordiali saluti.
http://www.ilfoglio.it/piccola-posta/2016/10/08/traditori-e-rinnegati___1-vr-148875-rubriche_c596.htm
Caro Massimo Recalcati, ho una sola obiezione alla tua denuncia della caccia al traditore: non è stalinista. Stalin innovò formidabilmente in quantità. Ma la paranoia e la superstizione del traditore era già connaturata a certe sinistre quando prese un nome più squisito, quello del rinnegato. (Il rinnegato Kautsky ecc.). Il rinnegato dà al traditore qualcosa in più di subdolamente sacrilego, e non a caso ha un’origine religiosa. Tutte le religioni dogmaticamente costituite hanno odiato e perseguitato i loro transfughi ben più accanitamente che gli infedeli in genere. Lo fanno oggi reciprocamente i fanatici sunniti e sciiti. Lo stesso Giuda diventò il prototipo del traditore e il bersaglio dell’antigiudaismo cristiano perché fu propriamente un rinnegato. Cordiali saluti.
http://www.ilfoglio.it/piccola-posta/2016/10/08/traditori-e-rinnegati___1-vr-148875-rubriche_c596.htm
L’OLIGARCHIA E LA SOCIETÀ CIVILE
di Sarantis Thanopulos, il manifesto, 8 ottobre 2016
Eugenio Scalfari ha scritto recentemente che l’oligarchia è la sola forma accettabile di democrazia. La gestione democratica degli interessi comuni sarebbe un affare di pochi eletti: la “classe dirigente”. Scalfari vede la democrazia come equilibrio tra le élite che amministrano i diversi poteri: legislativo, esecutivo, giudiziario, economico, sindacale, informativo. La dissocia, di fatto, dalla Polis, la città governata dai suoi “cittadini”, e cita Pericle a sostegno della sua tesi. La Polis si fonda sulla differenza tra apparati gestionali e istituzioni, sulla capacità di queste ultime di rappresentare i valori comuni dei cittadini, sul carattere collettivo (diretto e indiretto) delle decisioni e, soprattutto, sulla società civile. Espressione della massima apertura democratica della Polis, la società civile è il luogo in cui le differenze individuali e gruppali, politiche, lavorative e culturali, si incontrano in un gioco di scambi paritari sul piano dei desideri, dei sentimenti e delle idee.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6446
Eugenio Scalfari ha scritto recentemente che l’oligarchia è la sola forma accettabile di democrazia. La gestione democratica degli interessi comuni sarebbe un affare di pochi eletti: la “classe dirigente”. Scalfari vede la democrazia come equilibrio tra le élite che amministrano i diversi poteri: legislativo, esecutivo, giudiziario, economico, sindacale, informativo. La dissocia, di fatto, dalla Polis, la città governata dai suoi “cittadini”, e cita Pericle a sostegno della sua tesi. La Polis si fonda sulla differenza tra apparati gestionali e istituzioni, sulla capacità di queste ultime di rappresentare i valori comuni dei cittadini, sul carattere collettivo (diretto e indiretto) delle decisioni e, soprattutto, sulla società civile. Espressione della massima apertura democratica della Polis, la società civile è il luogo in cui le differenze individuali e gruppali, politiche, lavorative e culturali, si incontrano in un gioco di scambi paritari sul piano dei desideri, dei sentimenti e delle idee.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6446
DALL’ASCESI ALL’ANORESSIA: IL CORPO DELLE DONNE
di Lea Melandri, tysm.org, 9 ottobre 2016
Mai, come in quest’epoca di rapidi mutamenti tecnologici, di emozioni virtuali, Ia presenza dei corpi è parsa così invasiva e inquietante. Per una specie di contrappasso, proprio nel momento in cui la materia di cui siamo fatti sembra dissolversi in un universo di segni, e di manipolazioni senza limite, la scena del mondo torna a popolarsi di spettri antichi che si volevano sconfitti: carni indebolite dalla farne, devastate dalle guerre, dalle malattie.
Al centro resta sempre e comunque il corpo femminile. La donna è stata identificata con le due principali funzioni che si è trovata a svolgere nella vita di un figlio: un corpo che,oltre ad averlo generato, “lo tocca, lo accarezza, lo nutre, gli comunica caldo, freddo”.
Sensazioni vissute dall’uomo in uno stato di estrema dipendenza, come è quello dell’infanzia, ma riaffioranti in ogni successivo rapporto d’amore, hanno finito per costituire, sia pure immaginariamente, un polo unico di attrattiva e minaccia, il fondamento e insieme l’ostacolo principale al nascere della civiltà.
Segue qui:
Dall’ascesi all’anoressia: il corpo delle donne
Mai, come in quest’epoca di rapidi mutamenti tecnologici, di emozioni virtuali, Ia presenza dei corpi è parsa così invasiva e inquietante. Per una specie di contrappasso, proprio nel momento in cui la materia di cui siamo fatti sembra dissolversi in un universo di segni, e di manipolazioni senza limite, la scena del mondo torna a popolarsi di spettri antichi che si volevano sconfitti: carni indebolite dalla farne, devastate dalle guerre, dalle malattie.
Al centro resta sempre e comunque il corpo femminile. La donna è stata identificata con le due principali funzioni che si è trovata a svolgere nella vita di un figlio: un corpo che,oltre ad averlo generato, “lo tocca, lo accarezza, lo nutre, gli comunica caldo, freddo”.
Sensazioni vissute dall’uomo in uno stato di estrema dipendenza, come è quello dell’infanzia, ma riaffioranti in ogni successivo rapporto d’amore, hanno finito per costituire, sia pure immaginariamente, un polo unico di attrattiva e minaccia, il fondamento e insieme l’ostacolo principale al nascere della civiltà.
Segue qui:
Dall’ascesi all’anoressia: il corpo delle donne
SE IL FALLIMENTO INSEGNA L’AMORE PER L’ALTRO
di Massimo Recalcati, repubblica.it, 9 ottobre 2016
Il nostro tempo è assoggettato al dominio del “principio di prestazione”. Con questa categoria Herbert Marcuse in Eros e civiltà intendeva isolare un tratto essenziale della nostra epoca: non è più il principio di realtà — come indicato da Freud — che sottomette il principio di piacere impedendo alla pulsione di soddisfarsi senza tenere conto del limite costituito dalla realtà, ma un nuovo imperativo che impone alla vita l’essere costantemente in gara. La scena della realtà può essere abitata solo da quelli che soddisfano l’agonismo narcisistico della lotta per la propria affermazione. Questa scena diviene, di conseguenza, il luogo della esibizione permanente del proprio successo. Ne consegue che nel nostro tempo l’esperienza del fallimento ha acquisito il valore di un vero e proprio tabù. Accade tra genitori e figli come nel mondo del lavoro: l’esperienza del fallimento è considerata una sciagura che deve essere evitata a tutti i costi. In primo piano è l’individuo come monade chiusa su se stessa che persegue ostinatamente la propria autorealizzazione. La sua libertà è senza vincoli, esaltata, eccitata, infatuata solo di se stessa. A questa nuova idolatria della prestazione efficiente corrisponde, solo in modo apparentemente contraddittorio, la retorica del “dialogo” e dell'”empatia”.
Segue qui:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/10/09/se-il-fallimento-insegna-lamore-per-laltro52.html?ref=search
Il nostro tempo è assoggettato al dominio del “principio di prestazione”. Con questa categoria Herbert Marcuse in Eros e civiltà intendeva isolare un tratto essenziale della nostra epoca: non è più il principio di realtà — come indicato da Freud — che sottomette il principio di piacere impedendo alla pulsione di soddisfarsi senza tenere conto del limite costituito dalla realtà, ma un nuovo imperativo che impone alla vita l’essere costantemente in gara. La scena della realtà può essere abitata solo da quelli che soddisfano l’agonismo narcisistico della lotta per la propria affermazione. Questa scena diviene, di conseguenza, il luogo della esibizione permanente del proprio successo. Ne consegue che nel nostro tempo l’esperienza del fallimento ha acquisito il valore di un vero e proprio tabù. Accade tra genitori e figli come nel mondo del lavoro: l’esperienza del fallimento è considerata una sciagura che deve essere evitata a tutti i costi. In primo piano è l’individuo come monade chiusa su se stessa che persegue ostinatamente la propria autorealizzazione. La sua libertà è senza vincoli, esaltata, eccitata, infatuata solo di se stessa. A questa nuova idolatria della prestazione efficiente corrisponde, solo in modo apparentemente contraddittorio, la retorica del “dialogo” e dell'”empatia”.
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http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2016/10/09/se-il-fallimento-insegna-lamore-per-laltro52.html?ref=search
EUGENIO SCALFARI E IL PROBLEMA DI DIFENDERE L’OLIGARCHIA
di Angelo Cannatà, ilfattoquotidiano.it, 10 ottobre 2016
Il testo di Massimo Recalcati – “Il ‘tradimento’ di Benigni”, Repubblica, 7 ottobre – è ben scritto. C’è stile. E capacità d’argomentazione. L’autore, attento studioso di Lacan, conosce la potenza della parola e la usa, in difesa del comico toscano, come meglio non si potrebbe. Tuttavia, conclusa la lettura si resta perplessi, c’è del vero nelle sue parole, ma qualcosa non va, qualcosa non torna. L’impressione è che Recalcati costruisca un bersaglio per colpire meglio. Ha stabilito che i fautori del No al referendum hannouna malattia ideologica (non tutti, certo, qualcuno si salva), accusano gli avversari di tradimento come faceva Stalin: ergo, sono stalinisti. Una lettura psicanalitica della sinistra (e del M5S). Interessante. E tuttavia, come tutti i sillogismi, anche il suo, se parte da premesse false non può condurre a conclusioni vere. Recalcati hadeciso che i protagonisti del No sono afflitti da malattia, la pone come premessa del ragionamento, e trae le conclusioni. Non va bene. Marx parlerebbe – non senza qualche ragione – di “mistificazione ideologica” perché sono occultati i reali processi in atto nella società italiana. Lo scontro sul referendum – è questo il punto – nasce da due visioni opposte della democrazia, dietro le quali ci sono forze, poteri, interessi. Sì, interessi di classe. Ben individuati daScalfari nel suo discorso sul ruolo dell’oligarchia nella storia.
Segue qui:
http://www.ilfattoquotidiano.it/2016/10/11/eugenio-scalfari-e-il-problema-di-difendere-loligarchia/3088525/
Il testo di Massimo Recalcati – “Il ‘tradimento’ di Benigni”, Repubblica, 7 ottobre – è ben scritto. C’è stile. E capacità d’argomentazione. L’autore, attento studioso di Lacan, conosce la potenza della parola e la usa, in difesa del comico toscano, come meglio non si potrebbe. Tuttavia, conclusa la lettura si resta perplessi, c’è del vero nelle sue parole, ma qualcosa non va, qualcosa non torna. L’impressione è che Recalcati costruisca un bersaglio per colpire meglio. Ha stabilito che i fautori del No al referendum hannouna malattia ideologica (non tutti, certo, qualcuno si salva), accusano gli avversari di tradimento come faceva Stalin: ergo, sono stalinisti. Una lettura psicanalitica della sinistra (e del M5S). Interessante. E tuttavia, come tutti i sillogismi, anche il suo, se parte da premesse false non può condurre a conclusioni vere. Recalcati hadeciso che i protagonisti del No sono afflitti da malattia, la pone come premessa del ragionamento, e trae le conclusioni. Non va bene. Marx parlerebbe – non senza qualche ragione – di “mistificazione ideologica” perché sono occultati i reali processi in atto nella società italiana. Lo scontro sul referendum – è questo il punto – nasce da due visioni opposte della democrazia, dietro le quali ci sono forze, poteri, interessi. Sì, interessi di classe. Ben individuati daScalfari nel suo discorso sul ruolo dell’oligarchia nella storia.
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BENIGNI E RECALCATI, QUANDO IL TRADIMENTO “COLPISCE” A SINISTRA
di Paolo Gheda, ilsussidiario.net, 10 ottobre 2016
Nella concitata fase politica che stiamo attraversando, appressandoci alla fatidica data del referendum costituzionale, mentre sui media televisivi impazzano le interviste, i confronti a due in alcuni casi sui contenuti e in diversi altri semplicemente “muscolari”, e si leggono i resoconti più o meno neutrali delle convention organizzate dai vari comitati pro Sì e pro No, il mondo intellettuale italiano sembra essere scosso da un’inconsueta vitalità, che ha spinto e tutt’ora spinge molti a coinvolgersi direttamente o almeno a pronunciarsi con interventi piuttosto diretti (per onestà verso i lettori del sussidiario, chi scrive ha aderito al comitato presieduto da Lorenzo Ornaghi e coordinato da Giovanni Guzzetta “InsiemeSìCambia”). È recentissimo il caso di Roberto Benigni (a cui ormai oggi in Italia, tra ammiratori e detrattori, nessuno toglierebbe la qualifica di intellettuale), che ha suscitato una vasta discussione, in primis per il peso specifico che le sue prese di posizione possono assumere nell’orientamento dell’opinione pubblica nazionale. Non è la prima volta che Benigni si pone al centro di un turbinio di polemiche a causa di sue scelte pubbliche (partecipazioni a programmi e manifestazioni, interviste…), certamente questa è quella con la sua maggiore esposizione politica di sempre. Eppure la sua osservazione-battuta secondo cui una vittoria dei No “sarebbe peggio della Brexit” manifesta semplicemente la propria opinione personale, e rimarca semmai una posizione rispetto al referendum pure da altri intellettuali abbracciata (certo non da tutti): cioè semplicemente quella per cui — al di là di una valutazione del merito specifico sui singoli punti di modifica introdotti nel testo costituzionale in ratifica referendaria (rispetto ai quali ci sarebbe naturalmente molto da dire in altra sede) — sopra ogni altra considerazione viene avvertita fortemente la preoccupazione che la mancata approvazione della legge, in mancanza di un’alternativa disponibile a breve, vada letta come un segno negativo nella politica interna e nelle relazioni internazionali, la quale appaleserebbe sostanzialmente un quadro storico di irriformabilità istituzionale nel nostro Paese, degradandone l’immagine attuale e le aspirazioni di crescita. Sarebbe, semmai, da riprendere il termine di paragone utilizzato da Benigni nel frangente in chiave negativa, ovvero appunto il recente referendum britannico, ma questo, di nuovo, è un altro discorso. Il No nel referendum come un “no” al futuro dell’Italia è naturalmente un punto di vista assai dibattuto, il quale, ad esempio, al di là del florilegio di battute “fuori campo”, mi è parso costituire pure il nucleo centrale del contendere nell’altrettanto recente dibattito televisivo a “Otto e mezzo” da Lilli Gruber tra la ministra Maria Elena Boschi e il leader della Lega Nord Matteo Salvini. Ma pare che a Benigni — a cui è sempre stato “concesso” tutto, dall’anticlericalismo d’antan dei tempi più giovanili sino alle “sceneggiate amorose” in diretta con Raffaella Carrà — questa presa di posizione così netta non sia stata proprio “perdonata”. Sarebbe pertanto interessante domandarsi come mai si sia in questo frangente prodotta quest’alzata di scudi in difesa di un’onestà (questa volta intesa in senso molto poco intellettuale…) eventualmente compromessa dal suo implicito endorsment al Sì. Assodata l’autorevolezza del personaggio — e se la riflessione fosse fatta risalire alla di lui professione di comico, bisognerebbe per coerenza far notare quanto scrive Lorenzo Giarelli su Linkiesta: “eppure nessuno ha detto nulla quando Paolo Rossi si è espresso per il No” —, ho trovato assai stimolante l’interpretazione che di questo atteggiamento di condanna moral(istico) ne ha restituito su Repubblica del 7 ottobre scorso Massimo Recalcati, noto psicanalista (e a sua volta intellettuale) italiano, interprete del modello psichiatrico di Lacan, dandone una versione appunto di tipo comportamentale. Secondo Recalcati la critica “da sinistra” all’endorsement referendario del comico toscano sarebbe un sintomo riconducibile ad una “una grave malattia che ha da sempre storicamente afflitto la sinistra” (e che ora sarebbe stata pienamente ereditata dal M5s), ovvero una “malattia (ideologica) del ‘tradimento'”, affliggente peraltro la destra come la sinistra dell’inconsueto fronte del No.
Segue qui:
http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2016/10/10/LETTURE-Benigni-e-Recalcati-quando-il-tradimento-colpisce-a-sinistra/3/727368/
Nella concitata fase politica che stiamo attraversando, appressandoci alla fatidica data del referendum costituzionale, mentre sui media televisivi impazzano le interviste, i confronti a due in alcuni casi sui contenuti e in diversi altri semplicemente “muscolari”, e si leggono i resoconti più o meno neutrali delle convention organizzate dai vari comitati pro Sì e pro No, il mondo intellettuale italiano sembra essere scosso da un’inconsueta vitalità, che ha spinto e tutt’ora spinge molti a coinvolgersi direttamente o almeno a pronunciarsi con interventi piuttosto diretti (per onestà verso i lettori del sussidiario, chi scrive ha aderito al comitato presieduto da Lorenzo Ornaghi e coordinato da Giovanni Guzzetta “InsiemeSìCambia”). È recentissimo il caso di Roberto Benigni (a cui ormai oggi in Italia, tra ammiratori e detrattori, nessuno toglierebbe la qualifica di intellettuale), che ha suscitato una vasta discussione, in primis per il peso specifico che le sue prese di posizione possono assumere nell’orientamento dell’opinione pubblica nazionale. Non è la prima volta che Benigni si pone al centro di un turbinio di polemiche a causa di sue scelte pubbliche (partecipazioni a programmi e manifestazioni, interviste…), certamente questa è quella con la sua maggiore esposizione politica di sempre. Eppure la sua osservazione-battuta secondo cui una vittoria dei No “sarebbe peggio della Brexit” manifesta semplicemente la propria opinione personale, e rimarca semmai una posizione rispetto al referendum pure da altri intellettuali abbracciata (certo non da tutti): cioè semplicemente quella per cui — al di là di una valutazione del merito specifico sui singoli punti di modifica introdotti nel testo costituzionale in ratifica referendaria (rispetto ai quali ci sarebbe naturalmente molto da dire in altra sede) — sopra ogni altra considerazione viene avvertita fortemente la preoccupazione che la mancata approvazione della legge, in mancanza di un’alternativa disponibile a breve, vada letta come un segno negativo nella politica interna e nelle relazioni internazionali, la quale appaleserebbe sostanzialmente un quadro storico di irriformabilità istituzionale nel nostro Paese, degradandone l’immagine attuale e le aspirazioni di crescita. Sarebbe, semmai, da riprendere il termine di paragone utilizzato da Benigni nel frangente in chiave negativa, ovvero appunto il recente referendum britannico, ma questo, di nuovo, è un altro discorso. Il No nel referendum come un “no” al futuro dell’Italia è naturalmente un punto di vista assai dibattuto, il quale, ad esempio, al di là del florilegio di battute “fuori campo”, mi è parso costituire pure il nucleo centrale del contendere nell’altrettanto recente dibattito televisivo a “Otto e mezzo” da Lilli Gruber tra la ministra Maria Elena Boschi e il leader della Lega Nord Matteo Salvini. Ma pare che a Benigni — a cui è sempre stato “concesso” tutto, dall’anticlericalismo d’antan dei tempi più giovanili sino alle “sceneggiate amorose” in diretta con Raffaella Carrà — questa presa di posizione così netta non sia stata proprio “perdonata”. Sarebbe pertanto interessante domandarsi come mai si sia in questo frangente prodotta quest’alzata di scudi in difesa di un’onestà (questa volta intesa in senso molto poco intellettuale…) eventualmente compromessa dal suo implicito endorsment al Sì. Assodata l’autorevolezza del personaggio — e se la riflessione fosse fatta risalire alla di lui professione di comico, bisognerebbe per coerenza far notare quanto scrive Lorenzo Giarelli su Linkiesta: “eppure nessuno ha detto nulla quando Paolo Rossi si è espresso per il No” —, ho trovato assai stimolante l’interpretazione che di questo atteggiamento di condanna moral(istico) ne ha restituito su Repubblica del 7 ottobre scorso Massimo Recalcati, noto psicanalista (e a sua volta intellettuale) italiano, interprete del modello psichiatrico di Lacan, dandone una versione appunto di tipo comportamentale. Secondo Recalcati la critica “da sinistra” all’endorsement referendario del comico toscano sarebbe un sintomo riconducibile ad una “una grave malattia che ha da sempre storicamente afflitto la sinistra” (e che ora sarebbe stata pienamente ereditata dal M5s), ovvero una “malattia (ideologica) del ‘tradimento'”, affliggente peraltro la destra come la sinistra dell’inconsueto fronte del No.
Segue qui:
http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2016/10/10/LETTURE-Benigni-e-Recalcati-quando-il-tradimento-colpisce-a-sinistra/3/727368/
IL CIELO, CHE CELO. La grammatica celeste, così oscura anche da docenti, e quei bambini siriani senza maestri
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 12 ottobre 2016
Sul lettino oggi lo psicoanalista. Tra tante tragedie e schifezze, gentile l’autunno porta sempre qualcosa di bello, la scuola. Quei ragazzi che pieni di vita entrano ed escono dalla scuola, quelle fanciulle che cerchiamo di capire nei loro moti più misteriosi, siamo noi, noi psicoanalisti. Se evitiamo d’interrogarci intorno a quella che è stata la nostra infanzia e giovinezza, c’impediamo d’intendere con chi e di cosa stiamo parlando. Occorre umiltà e ascolto di quello che diciamo e pensiamo; quando ebbri di sapere pontifichiamo sull’altrui esistenza, diventiamo quello psicanalista frettoloso che pensa di poter donare all’altro… senza avere aperto i pacchi natalizi che da misteriose terre a lui giungono. Come aiutare un ragazzo difficile senza prima avere incontrato quella difficoltà che è il tesoretto di ciascuno? Aggirando la difficoltà si ristagna nell’onnipotenza, la trappola per topi, quella che porta un genitore, uno psicoanalista o un professore a ordinare: ‘Fai così, devi farlo, devi stare attento, devi, devi, devi…”. Quanti ragazzi, per colpa di quel terribile verbo ‘dovere’, si sentono espropriati del desiderio e rigettano ogni progetto.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/10/12/il-cielo-che-celo___1-vr-149043-rubriche_c396.htm
Sul lettino oggi lo psicoanalista. Tra tante tragedie e schifezze, gentile l’autunno porta sempre qualcosa di bello, la scuola. Quei ragazzi che pieni di vita entrano ed escono dalla scuola, quelle fanciulle che cerchiamo di capire nei loro moti più misteriosi, siamo noi, noi psicoanalisti. Se evitiamo d’interrogarci intorno a quella che è stata la nostra infanzia e giovinezza, c’impediamo d’intendere con chi e di cosa stiamo parlando. Occorre umiltà e ascolto di quello che diciamo e pensiamo; quando ebbri di sapere pontifichiamo sull’altrui esistenza, diventiamo quello psicanalista frettoloso che pensa di poter donare all’altro… senza avere aperto i pacchi natalizi che da misteriose terre a lui giungono. Come aiutare un ragazzo difficile senza prima avere incontrato quella difficoltà che è il tesoretto di ciascuno? Aggirando la difficoltà si ristagna nell’onnipotenza, la trappola per topi, quella che porta un genitore, uno psicoanalista o un professore a ordinare: ‘Fai così, devi farlo, devi stare attento, devi, devi, devi…”. Quanti ragazzi, per colpa di quel terribile verbo ‘dovere’, si sentono espropriati del desiderio e rigettano ogni progetto.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2016/10/12/il-cielo-che-celo___1-vr-149043-rubriche_c396.htm
NERVI E I 100 ANNI DEL LAPSUS FREUDIANO
di Edoardo Meoli, ilsecoloxix.it, 15 ottobre 2016
Il lapsus freudiano compie cent’anni. E il fenomeno psicologico che tutti ben conosciamo si deve al suo scopritore che poi gli ha dato il nome, Sigmund Freud, ma anche a una località ben precisa: Nervi. Perché proprio con riferimento al quartiere, che all’epoca era Comune autonomo, Freud ha messo per iscritto una spiegazione scientifica che è poi diventato un caso di scuola. Per spiegare i meccanismi di rimozione psicologica, che avvengono quotidianamente, nella nostra psiche Freud sul finire del 1916 scrisse in una lettera rimasta poi negli annali di psicologia…
Segue qui:
http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2016/10/14/ASStPXhE-nervi_freudiano_lapsus.shtml
Il lapsus freudiano compie cent’anni. E il fenomeno psicologico che tutti ben conosciamo si deve al suo scopritore che poi gli ha dato il nome, Sigmund Freud, ma anche a una località ben precisa: Nervi. Perché proprio con riferimento al quartiere, che all’epoca era Comune autonomo, Freud ha messo per iscritto una spiegazione scientifica che è poi diventato un caso di scuola. Per spiegare i meccanismi di rimozione psicologica, che avvengono quotidianamente, nella nostra psiche Freud sul finire del 1916 scrisse in una lettera rimasta poi negli annali di psicologia…
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http://www.ilsecoloxix.it/p/genova/2016/10/14/ASStPXhE-nervi_freudiano_lapsus.shtml
IL MIRAGGIO DELLA CONSAPEVOLEZZA
di Sarantis Thanopulos, il manifesto, 15 ottobre 2016
La rappresentazione che abbiamo del mondo, il nostro modo di rendere il rapporto con esso sensato, comprensibile e attendibile, decide della nostra possibilità di abitarlo e usarlo ricavando soddisfazione e benessere. Questa rappresentazione non si costruisce in modo rigorosamente scientifico (la scienza ne é solo una parte) né con l’aiuto di tecniche appositamente pensate. Può essere costruita in relazione stretta con la nostra reale esperienza di vita, che trascende l’“ordine del simbolico”. In tal caso rispetta il “non so che” delle cose vissute, che eccede la nostra capacità di significazione e le conferisce un carattere sperimentale (nel doppio senso di sperimentare e di esperire). Quand’è così, la nostra rappresentazione del mondo è fatta della materia dei nostri sogni, delle nostre emozioni e dei nostri desideri più profondi. Si radica nella “meraviglia” dei nostri sentimenti – il loro essere esposti all’attesa, la sorpresa, la scoperta – è una visione rigorosa, autentica della realtà.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6457
(Fonte dei pezzi della rubrica: http://rassegnaflp.wordpress.com)
La rappresentazione che abbiamo del mondo, il nostro modo di rendere il rapporto con esso sensato, comprensibile e attendibile, decide della nostra possibilità di abitarlo e usarlo ricavando soddisfazione e benessere. Questa rappresentazione non si costruisce in modo rigorosamente scientifico (la scienza ne é solo una parte) né con l’aiuto di tecniche appositamente pensate. Può essere costruita in relazione stretta con la nostra reale esperienza di vita, che trascende l’“ordine del simbolico”. In tal caso rispetta il “non so che” delle cose vissute, che eccede la nostra capacità di significazione e le conferisce un carattere sperimentale (nel doppio senso di sperimentare e di esperire). Quand’è così, la nostra rappresentazione del mondo è fatta della materia dei nostri sogni, delle nostre emozioni e dei nostri desideri più profondi. Si radica nella “meraviglia” dei nostri sentimenti – il loro essere esposti all’attesa, la sorpresa, la scoperta – è una visione rigorosa, autentica della realtà.
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http://www.psychiatryonline.it/node/6457
(Fonte dei pezzi della rubrica: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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