Dal 18 al 20 ottobre 1946, in un’Italia ridotta in macerie sul piano materiale dalla guerra e sul piano morale dalla delusione, l’imbarazzo e lo sconcerto cui i più, in momenti diversi, erano andati incontro dopo l’iniziale adesione al fascismo, si svolgeva a Roma il XXIII congresso della Società Italiana di Psichiatria[i]. La guerra è terminata da poco più di un anno. E’ un Congresso importante, che segna uno spartiacque, una ripartenza dopo la catastrofe. Fatto di un voltarsi indietro, per trarre un bilancio dei sei anni trascorsi da quello precedente svoltosi in tutt’altro clima politico, e di timidi germogli di una nuova fase che faticosamente accennano a sbocciare, una fase piena in quel momento di incognite, di timore del cambiamento per alcuni; di smania di apertura e di novità per altri. E’ un Congresso importante per le questioni che furono affrontate, e anche per quelle che si scelse di non affrontare.
La SIP esce dalla guerra acefala (da quattro anni la presidenza è vacante) e ancora impreparata a misurare i danni. Durante l’inaugurazione, l’Alto Commissario per l’Igiene e la Sanità Pubblica, onorevole Bergami, inscrive i danni nei manicomi in quelli nel sistema assistenziale nel suo complesso, e questi in quelli subiti dal Paese, lodando l’impegno del personale: «Chi ha avuto la triste ventura di seguire davvicino l’andamento dei fenomeni che hanno seguito la guerra, deve ammettere che non erano prevedibili spettacoli così tristi, quali quelli del riaffiorare nell’uomo degli istinti più brutali, della perdita del controllo su se stesso, dell’esplodere dell’egoismo spinto all’estremo, anche in coloro nei quali non sarebbe stato possibile presumere una regressione delle qualità civili e sociali imprescindibili per le funzioni loro connesse. Anche nel settore assistenziale noi ci siamo trovati di fronte a fenomeni imprevisti. Purtroppo, gli infermi di mente sono abbandonati alla pietà altrui e, negli eventi di guerra, sono i più esposti alla sofferenza. Si è verificato ovunque che, durante i periodi più acuti della guerra, tutte le organizzazioni assistenziali hanno risentito profondamente dello sconvolgimento di ogni servizio e della ricomparsa degli istinti più egoistici. Gli ospedali per alienati sono stati abbandonati alle cure di un ridotto personale che, in momenti di serio pericolo, ha dovuto affrontare difficoltà inaudite, ha dovuto sopportare sforzi incredibili, per assicurare agli infermi un minimo di assistenza e di difesa dai pericoli della guerra, ed ha sacrificato ogni cosa pur di salvare il salvabile».
I morti nei manicomi dovuti direttamente a causa bellica, tra staff e internati, sono circa 300. Tra gli psichiatri in quel momento si contano sette morti e due dispersi[ii]. Tre sono morti nel bombardamento del manicomio di Ancona, uno in quello di Volterra per mitragliamento, Giovanni Mercurio a Mauthausen dopo essere stato catturato come partigiano nei pressi di Voghera[iii], un altro in Russia, Angelo Bravi per malattia contratta mentre prestava servizio all’ospedale di Tripoli; sembrano ancora dispersi, in quel momento, Giuseppe Muggia e Guglielmo Lippi Francesconi, ma oggi sappiamo che furono assassinati dai nazifascisti, per motivi razziali e politici rispettivamente, il primo all’arrivo ad Aushwitz e il secondo nei pressi di Massa nel corso di una rappresaglia, dopo essere stato catturato alla Certosa di Farneta presso Lucca dove aveva ricevuto tra molti altri – antifascisti o ebrei – coraggioso rifugio dai frati[iv]. Molti più colleghi conobbero persecuzioni razziali, politiche o per il rifiuto di combattere per Salò, e alcuni l’internamento in campo di concentramento.
Quanto ai pazienti nei manicomi, la SIP promosse quell’anno un’inchiesta prevista come relazione al Congresso con il titolo “Il calvario dei malati di mente durante la Seconda guerra mondiale” e pubblicata due anni dopo da Giorgio Padovani e Luigi Bonfiglioli, alla quale risposero 66 ospedali psichiatrici pubblici su 69, corrispondenti al 96% della popolazione internata. Erano stati duramente colpiti da incursioni aeree 18 ospedali psichiatrici, e 16 si trovarono in qualche momento a essere direttamente attraversati dal fronte di guerra. Il quadro generale a fine guerra è di 30 ospedali psichiatrici con danni più o meno gravi, fra cui 18 quasi irreparabili; 50 quelli sottoposti a requisizioni o furti; 17 quelli costretti a trasferimenti, parziali o totali, dei malati, con un movimento complessivo di 7-8.000 pazienti. La mortalità annua riportata nelle statistiche ufficiali dei manicomi passa dal 6% circa del decennio 1931-40 al 14% del triennio 1942-45, una sovramortalità quindi che oscilla a seconda delle stime tra le 24.000 e le 30.000 unità.
Ci si interroga sulle ragioni di quella che pare una strage, ed è unanime il giudizio degli psichiatri di allora che relazionano sulle varie riviste della guerra nei diversi manicomi: carenza di viveri, di medicinali e di riscaldamento[v]. E’ molto plausibile il giudizio con il quale Padovani e Bonfiglioli concludono la loro inchiesta: «delle tante distruzioni e sofferenze e perdite umane e patrimoniali subite dagli istituti di assistenza psichiatrica in Italia vediamo una sola concausa specifica: l’imprevidenza, il disinteresse e talvolta persino lo scarso senso di responsabilità delle autorità competenti, fossero esse governative, provinciali o locali».
Come è condivisibile anche una considerazione di Aldo Bertolani, che scrive sulla guerra al San Lazzaro di Reggio Emilia e nei manicomi in generale: «E’, in piccolo, la storia della nostra Patria e di gran parte d’Europa. E’ una pietra di un immenso mosaico che rappresenta un apocalittico quadro di lotta, di distruzione, di rovina, di regresso».
Una pietra del mosaico, mi pare la definizione più corretta. Sarebbe infatti ingiusta ed eccessivamente severa l’accusa generica agli psichiatri italiani di quegli anni – che ebbero il merito di contrastare nei consessi internazionali le teorie eugenetiche radicali[vi] – di non aver saputo difendere i propri malati, internati nei manicomi. Essi, nella maggioranza, condivisero con la gran parte dell’élite dirigente del Paese il triplice errore di aderire al fascismo, al razzismo coloniale che divenne poi dopo il ’38 anche antisemita e alla guerra fascista; un errore che risultò fatale per tutti gli italiani e colpì più duramente gli internati dei manicomi, con i quali gli psichiatri però rimasero e condivisero le bombe, perché impediti a muoversi e “arrangiarsi” dalla condizione di malattia o dallo stesso internamento.
La guerra, infatti, non è l’unico tema sul quale è necessario per gli psichiatri, nel 1946, trarre un bilancio. C’è anche la repressione politica con la violenza che ha caratterizzato il regime appena deposto ed è costata la vita a Mercurio e Lippi Francesconi, oltre che sofferenze e ingiuste persecuzioni ad altri. E ci sono le leggi razziali emanate dal 1936 al 1938 prima contro i sudditi dell’Impero e poi anche gli ebrei, che sono costate la vita a Giuseppe Muggia e hanno costretto alla dimissione e poi alla clandestinità tanti, a partire da Gustavo Modena, al quale viene restituita nel corso del Congresso la vicepresidenza dalla quale era stato espulso insieme all’incarico interinale della presidenza resasi vacante, e poi da Marco Levi Bianchini.
Le parole che Modena pronuncia sugli anni appena trascorsi colpiscono per moderazione e assenza di spirito di rivalsa a fronte dell’ingiustizia subita: «una guerra terribile, e per noi sfortunata, una iniqua lotta contro i diritti dell’uomo per teorici e pagani principi di predominio di razza, hanno sconvolto il mondo, hanno recato immense rovine e perdite preziose – e non solo in questa nostra martoriata Italia – hanno intralciato per anni l’attività concorde e fattiva degli studiosi».
Ma non solo. Non si può non rimanere stupiti da come, all’uscita dall’incubo, la SIP sembri avere rimosso quella che il regime aveva sostenuto essere l’adesione del suo presidente, Arturo Donaggio, e con lui dell’intero sodalizio, al Manifesto degli Scienziati Razzisti, pubblicato il 25 luglio 1938, e le conseguenze tragiche che, tramite le leggi razziali e il loro inasprimento da parte della RSI e dell’occupante tedesco, essa aveva avuto per tanti colleghi e pazienti, a partire dallo stesso Modena. Emilio Padovani, nel trarre un bilancio non esita a parlare di “odiose e nefande ragioni razziali”, e di “atto brutale” e “bestiale ferocia nazista”, a proposito rispettivamente dell’allontanamento di Modena e della deportazione e uccisione di Muggia con la moglie, ma non fornisce chiarimenti sull’imbarazzante posizione nella quale la SIP, firmataria del documento, si trovava.
E anzi commemora in questi termini la morte, per incidente d’auto, nel 1942 dello stesso Donaggio: «A lui […] moltissimo deve la SIP per le sue fortune, avendo essa, sotto la sua illuminata guida, emulato le altezze raggiunte sotto la presidenza di Verga, di Tamburini, di Morselli[vii]».
Perché questa vistosa rimozione? Perché evocare proprio la “illuminata guida” di Donaggio, se proprio qui invece sta, con gli occhi di oggi, il problema? Aver esposto se stesso e la SIP sul terreno della razza, nel senso dell’esaltazione della stirpe italica, tanto da evocare nel momento più delicato l’interesse del fascismo per averla come complice, e a quel punto non sapersi più, probabilmente, defilare. Fino al paradosso di un sodalizio tanto lontano dall’antisemitismo da avere per vicepresidente un ebreo, che si trova ad essere l’unico sodalizio firmatario del documento volto a giustificare scientificamente l’antisemitismo italiano e prepararne la commutazione in legge.
Su questo silenzio e questo paradosso, evidentemente, possiamo fare solo congetture; ma vorremmo provare a farne qualcuna.
Forse è stato perché il gruppo dirigente, che doveva aver in qualche misura almeno condiviso con Donaggio l’adesione e conoscerne i retroscena, sapeva essersi trattato di una scelta fatta obtorto collo, e se ne sentiva corresponsabile? E la sibillina e ambigua presa di distanza di Donaggio che (forse) è possibile leggere tra le righe nella prolusione al XXII congresso[viii] era bastata ai colleghi? Forse perché i più sapevano che la firma nasceva da un opportunismo comune tra molti di loro e nella classe dirigente italiana, che non da reali convinzioni antisemite, e in questo nessuno si sentiva di lanciare l’evangelica prima pietra per una damnatio memoriae?
Ma se anche così fosse stato per l’adesione in se stessa, non lo era invece per ciò che stava a monte, dall’adesione di Donaggio al fascismo e ai suoi flirt, sempre ambigui è pur vero ma insistiti, col razzismo fascista (compreso l’aver pubblicato su un periodico come La difesa della razza)[ix].
Mi pare che in queste rimozioni sia possibile (forse) cogliere il segno, anche in psichiatria, di quella complessiva fretta di pacificazione – cioè di «soffocare gli odi che dividono e restituire l’amore tra gli uomini e la fiducia nell’umanità», e colpisce che a pronunciare queste parole sia di nuovo proprio Modena – che caratterizzò la società italiana all’uscita della guerra, investendo la politica, l’amministrazione dello Stato, la cultura, il mondo scientifico. Certo un grande desiderio di pace – all’uscita dalla guerra dentro (dentro le menti e i cuori, e dentro la nazione, tra gli italiani) e dalla guerra fuori (dal cielo, dal mare, da terra) – in quel momento è comprensibile. Certo, guardandosi indietro, erano probabilmente pochi quelli tra i presenti al Congresso che a quel balcone di Palazzo Venezia non avevano prestato, almeno in un’occasione, fiducia, quelli che proprio non avevano nulla da rimproverarsi.
E non era certo il caso di stilare classifiche tra chi aveva guardato da subito con diffidenza il regime (pochi), chi dopo il delitto Matteotti, dopo l’istituzione del Tribunale Speciale, dopo la guerra d’Etiopia, dopo le leggi razziali, dopo l’entrata in guerra, dopo i primi bombardamenti a tappeto, dopo il 25 luglio o dopo l’8 settembre ’43, o solo dopo il 25 aprile ‘45. Ma è anche difficile non mettere in relazione questo clima con una necessità delle classi dominanti di ricompattarsi, con il fatto che mentre da un lato ancora si faticava a spegnere le ultime fiamme dell’incendio e prendere atto che i conti erano chiusi e non era tempo più per regolarli, dall’altro riportava gran parte dell’apparato di potere fascista al proprio posto – affidabile presidio anticomunista in vista della guerra fredda – in un regime di almeno parziale continuità, in particolare in settori delicati come i vertici dell’apparato della giustizia o di quello di polizia[x].
Un esame di coscienza sarebbe stato in quel momento invece utile; e ben al di là del solo Donaggio, avrebbe dovuto incidere molto più in profondità nell’identità e nella storia degli psichiatri italiani. Alla guerra fascista non avevano infatti plaudito molti tra loro, a partire proprio da Emilio Padovani che ancora nel ‘43, poco prima del 25 luglio e dell'8 settembre, chiudeva gli Atti del XXII Congresso, faticosamente pubblicati quell'anno, con parole che esprimevano sentimenti forse ancora comuni tra i colleghi: «Il prof. Donaggio chiude il suo discorso elevando il pensiero al Re Imperatore e al Duce in questa grande ora dell’Italia imperiale (…). I Congressisti si apprestano a raggiungere le loro sedi (…) col cuore presago della grande ora storica che sta per suonare per le nuove immancabili fortune dell’Italia imperiale. Poco più di ventiquattro ore dopo l’Italia dichiarava guerra alla Francia e all’Inghilterra»?
Ci chiediamo cosa possa aver pensato Padovani rileggendo queste sue parole, crudelmente rese indelebili dall’inchiostro, pochi mesi dopo, quando a seguito dell’armistizio dell’8 settembre, il figlio (e collega) Giorgio fu deportato nei lager tedeschi in qualità di Internato Militare Italiano.
E al fascismo non aveva forse aderito già Enrico Morselli, allora presidente della SIP, firmatario con Donaggio del Manifesto intellettuale del fascismo redatto dal filosofo Giovanni Gentile nel 1925, dunque già dopo che Giacomo Matteotti e altri avevano pagato con la vita l’opposizione al regime? E, dopo di lui, non era andata crescendo negli anni la retorica di regime nelle fasi introduttive dei Congressi? Chi poteva sostenere di non essersene accorto?
E ancora, le posizioni razziste di Donaggio non scaturivano naturalmente, come logica conseguenza, da quelle sostenute nei decenni precedenti nei confronti delle popolazioni di colore[xi] da Enrico Morselli, dall’ebreo Cesare Lombroso e fatte proprie persino da Carlo Livi, senz’altro una delle figure più interessanti della nostra psichiatria ottocentesca[xii], proprio nell’esporre le ragioni della sua generosa opposizione alla pena capitale[xiii]?
Meglio stendere un velo pietoso di autoassoluzione generale, allora, che mettere in discussione in modo tanto radicale le proprie radici, indagare le ragioni per cui i padri nobili erano precipitati in quelli che ora si rivelavano pregiudizi infondati – ammantandoli, con la propria adesione, di “scientificità” – e invocare come causa di tante disgrazie la sfortuna che tutti indistintamente aveva colpito, scaricando sul mostro nazista molte responsabilità. E, dunque, piangere insieme sulle macerie senza porsi domande imbarazzanti: i tanti che erano stati fascisti, per convinzione o per opportunismo, e i pochi antifascisti della prima (e i più della seconda) ora; i razzisti più o meno convinti o quanto meno ambigui, e i perseguitati per razza, in parte razzisti anch’essi quando a essere considerati razzialmente inferiori erano altri. Nessun lauro per gli eroi, dunque, nessuna particolare menzione per coloro che avevano partecipato alla Resistenza o nascosto ebrei, renitenti, partigiani nelle corsie; o chiusi nei lager avevano saputo rifiutare la liberazione, condizionata all’adesione a Salò; e nessun imbarazzo, di conseguenza, per gli altri.
Né il desiderio di riprendere da dove si era rimasti prima delle leggi razziali e della guerra, come chiudendo una brutta parentesi, dell’élite psichiatrica italiana rea limitato in quel momento al solo ambito della ricostruzione degli eventi trascorsi. Anche nel campo dei modelli teorici, in particolare relativi alla spinosa questione dei rapporti tra psichiatria e guerra, si faticava ad andare oltre i convincimenti sui quali si era assestata al termine del primo conflitto mondiale e si era mantenuta nel corso del secondo[xiv]. Ne è un esempio l’intervento sul tema dell’igiene mentale del relatore Francesco Bonfiglio (“Il lavoro neuropsichiatrico”, a. I, 1947, pp. 197-221), il quale si dimostra scettico rispetto a una possibile psicogenesi traumatica della patologia mentale, e preoccupato soprattutto di tenere a freno entusiasmi e desideri di innovazione in direzione di un’autonomia del mentale dall’organico:
«Non vi è certamente nessuno che possa contestare che tutti i fattori sociali sfavorevoli al benessere fisico e mentale dell’individuo debbano essere strenuamente combattuti per favorire la sanità mentale e contribuire all’elevazione morale e materiale del popolo. Ma che questi fattori abbiano tanta parte nell’etiologia della pazzia come da molti psicoigienisti viene ammesso, non mi pare che sia stato dimostrato da nessuno (…). Né si può dire che le nostre troppo facili costruzioni etiologico-patogenetiche relative ai fattori mesologici[xv] abbiano ricevuto una conferma nella recente guerra, durante la quale, nonostante i continui e terribili patemi d’animo, le torture materiali e morali, la fame, la denutrizione, le privazioni d’ogni genere e i dolori inenarrabili patiti dalle popolazioni dei vari Paesi non si è constatato un aumento delle malattie mentali. E non soltanto non sono aumentate le malattie mentali che riteniamo di origine endogena, ma neanche quelle che, per dare maggior risalto al relativo fattore esogeno, chiamiamo reattive».
Sarà Ottorino Balduzzi[xvi] a contestare questa posizione, levando la sua voce dall’aver fatto diretta esperienza del lager; e citiamo dal resoconto del Congresso:
«Esprime la sua perplessità su quanto ha detto il prof. Bonfiglio (…) sulla scarsa importanza dei fattori ambientali nella genesi delle malattie mentali (…). Anch’egli credeva prima che l’ambiente non avesse una influenza determinante molto imponente nelle malattie mentali: si è dovuto ricredere con l’esperienza del campo di concentramento di Mauthausen, dove egli si è trovato e dove ha potuto riscontrare l’insorgenza di sindromi paranoidi complete in individui che apparentemente non presentavano alcuna predisposizione che potesse far pensare alla possibilità di giungere ad atteggiamenti di questo genere. Ricorda che anche autori americani [forse Bettelheim, emigrato negli USA, tra altri? N.d.A.] hanno denunciato l’aumento della schizofrenia in individui che hanno lasciato i campi di concentramento. Conclude, affermando la necessità e l’importanza della profilassi fatta sul terreno della primissima infanzia e della profilassi fatta sul terreno sociale».
Protestano gli astanti che una qualche influenza dell’ambiente non era mai stata negata nella psichiatria italiana, ma abbiamo visto in quali termini. Non si rendono conto evidentemente che ciò di cui Balduzzi avverte l’esigenza è molto più di quanto sono disponibili a concedere: liberare cioè l’idea di mente della psichiatria italiana delle superstizioni dell’organicismo e del costituzionalismo.
Non è questo, del resto, il solo germoglio che è possibile evidenziare in questa direzione in un Congresso per il resto caratterizzato, oltre che da ingombranti rimozioni, dal persistere di posizioni in gran parte tradizionali. Ferruccio Giacanelli ha avuto il merito di evidenziarne altri in un articolo del 2002, ripubblicato in occasione della recente scomparsa[xvii], nel bisogno di novità evocato già da Ugo Cerletti – che si staglia per levatura intellettuale, curiosità e coraggio sulla media dei colleghi[xviii], e sarà eletto presidente al termine del Congresso – nel discorso inaugurale, e nei (non usuali in quella sede) riferimenti filosofici cui ricorre il giovane Lamberto Longhi[xix] nel trattare il tema della coscienza[xx]. Che sono per Giacanelli il segno dell’esigenza avvertita, almeno da qualcuno, di una riflessione metodologica in grado di andare oltre il mero discorso clinico-empirico, per svelare e discutere le premesse filosofiche in esso comunque implicite[xxi]. Né stupisce che queste aperture gli siano valse, nel corso del dibattito, contestazioni.
Anche per questi timidi segni di apertura mi è parso utile ricordare la ricorrenza del settantesimo anniversario del XXIII Congresso della SIP; perché con esso comincia timidamente a schiudersi – sia pure con contraddittori aspetti di apertura e di chiusura, con curiosità e ipocrisie -. una stagione nella quale, a settant’anni di distanza, in parte almeno viviamo ancora.
Nell’immagine: Disegni sulla facciata esterna del Padiglione Lombroso del San Lazzaro di Reggio Emilia, oggi sede del Museo di Storia della Psichiatria, ricordano il bombardamento dell’ospedale l’8 gennaio 1944, che provocò oltre 80 vittime.
DEDICA – Trascorrono in questi giorni dieci anni da quando si spegneva a Genova la giovane collega Alessandra Berti. Alla sua cara memoria, al suo sorriso, alla sua passione per la psichiatria e al coraggio con il quale ha affrontato il periodo della malattia, alle persone che le furono care a partire dalla mamma, da Sergio e Federico, desidero dedicare questo scritto.
La SIP esce dalla guerra acefala (da quattro anni la presidenza è vacante) e ancora impreparata a misurare i danni. Durante l’inaugurazione, l’Alto Commissario per l’Igiene e la Sanità Pubblica, onorevole Bergami, inscrive i danni nei manicomi in quelli nel sistema assistenziale nel suo complesso, e questi in quelli subiti dal Paese, lodando l’impegno del personale: «Chi ha avuto la triste ventura di seguire davvicino l’andamento dei fenomeni che hanno seguito la guerra, deve ammettere che non erano prevedibili spettacoli così tristi, quali quelli del riaffiorare nell’uomo degli istinti più brutali, della perdita del controllo su se stesso, dell’esplodere dell’egoismo spinto all’estremo, anche in coloro nei quali non sarebbe stato possibile presumere una regressione delle qualità civili e sociali imprescindibili per le funzioni loro connesse. Anche nel settore assistenziale noi ci siamo trovati di fronte a fenomeni imprevisti. Purtroppo, gli infermi di mente sono abbandonati alla pietà altrui e, negli eventi di guerra, sono i più esposti alla sofferenza. Si è verificato ovunque che, durante i periodi più acuti della guerra, tutte le organizzazioni assistenziali hanno risentito profondamente dello sconvolgimento di ogni servizio e della ricomparsa degli istinti più egoistici. Gli ospedali per alienati sono stati abbandonati alle cure di un ridotto personale che, in momenti di serio pericolo, ha dovuto affrontare difficoltà inaudite, ha dovuto sopportare sforzi incredibili, per assicurare agli infermi un minimo di assistenza e di difesa dai pericoli della guerra, ed ha sacrificato ogni cosa pur di salvare il salvabile».
I morti nei manicomi dovuti direttamente a causa bellica, tra staff e internati, sono circa 300. Tra gli psichiatri in quel momento si contano sette morti e due dispersi[ii]. Tre sono morti nel bombardamento del manicomio di Ancona, uno in quello di Volterra per mitragliamento, Giovanni Mercurio a Mauthausen dopo essere stato catturato come partigiano nei pressi di Voghera[iii], un altro in Russia, Angelo Bravi per malattia contratta mentre prestava servizio all’ospedale di Tripoli; sembrano ancora dispersi, in quel momento, Giuseppe Muggia e Guglielmo Lippi Francesconi, ma oggi sappiamo che furono assassinati dai nazifascisti, per motivi razziali e politici rispettivamente, il primo all’arrivo ad Aushwitz e il secondo nei pressi di Massa nel corso di una rappresaglia, dopo essere stato catturato alla Certosa di Farneta presso Lucca dove aveva ricevuto tra molti altri – antifascisti o ebrei – coraggioso rifugio dai frati[iv]. Molti più colleghi conobbero persecuzioni razziali, politiche o per il rifiuto di combattere per Salò, e alcuni l’internamento in campo di concentramento.
Quanto ai pazienti nei manicomi, la SIP promosse quell’anno un’inchiesta prevista come relazione al Congresso con il titolo “Il calvario dei malati di mente durante la Seconda guerra mondiale” e pubblicata due anni dopo da Giorgio Padovani e Luigi Bonfiglioli, alla quale risposero 66 ospedali psichiatrici pubblici su 69, corrispondenti al 96% della popolazione internata. Erano stati duramente colpiti da incursioni aeree 18 ospedali psichiatrici, e 16 si trovarono in qualche momento a essere direttamente attraversati dal fronte di guerra. Il quadro generale a fine guerra è di 30 ospedali psichiatrici con danni più o meno gravi, fra cui 18 quasi irreparabili; 50 quelli sottoposti a requisizioni o furti; 17 quelli costretti a trasferimenti, parziali o totali, dei malati, con un movimento complessivo di 7-8.000 pazienti. La mortalità annua riportata nelle statistiche ufficiali dei manicomi passa dal 6% circa del decennio 1931-40 al 14% del triennio 1942-45, una sovramortalità quindi che oscilla a seconda delle stime tra le 24.000 e le 30.000 unità.
Ci si interroga sulle ragioni di quella che pare una strage, ed è unanime il giudizio degli psichiatri di allora che relazionano sulle varie riviste della guerra nei diversi manicomi: carenza di viveri, di medicinali e di riscaldamento[v]. E’ molto plausibile il giudizio con il quale Padovani e Bonfiglioli concludono la loro inchiesta: «delle tante distruzioni e sofferenze e perdite umane e patrimoniali subite dagli istituti di assistenza psichiatrica in Italia vediamo una sola concausa specifica: l’imprevidenza, il disinteresse e talvolta persino lo scarso senso di responsabilità delle autorità competenti, fossero esse governative, provinciali o locali».
Come è condivisibile anche una considerazione di Aldo Bertolani, che scrive sulla guerra al San Lazzaro di Reggio Emilia e nei manicomi in generale: «E’, in piccolo, la storia della nostra Patria e di gran parte d’Europa. E’ una pietra di un immenso mosaico che rappresenta un apocalittico quadro di lotta, di distruzione, di rovina, di regresso».
Una pietra del mosaico, mi pare la definizione più corretta. Sarebbe infatti ingiusta ed eccessivamente severa l’accusa generica agli psichiatri italiani di quegli anni – che ebbero il merito di contrastare nei consessi internazionali le teorie eugenetiche radicali[vi] – di non aver saputo difendere i propri malati, internati nei manicomi. Essi, nella maggioranza, condivisero con la gran parte dell’élite dirigente del Paese il triplice errore di aderire al fascismo, al razzismo coloniale che divenne poi dopo il ’38 anche antisemita e alla guerra fascista; un errore che risultò fatale per tutti gli italiani e colpì più duramente gli internati dei manicomi, con i quali gli psichiatri però rimasero e condivisero le bombe, perché impediti a muoversi e “arrangiarsi” dalla condizione di malattia o dallo stesso internamento.
La guerra, infatti, non è l’unico tema sul quale è necessario per gli psichiatri, nel 1946, trarre un bilancio. C’è anche la repressione politica con la violenza che ha caratterizzato il regime appena deposto ed è costata la vita a Mercurio e Lippi Francesconi, oltre che sofferenze e ingiuste persecuzioni ad altri. E ci sono le leggi razziali emanate dal 1936 al 1938 prima contro i sudditi dell’Impero e poi anche gli ebrei, che sono costate la vita a Giuseppe Muggia e hanno costretto alla dimissione e poi alla clandestinità tanti, a partire da Gustavo Modena, al quale viene restituita nel corso del Congresso la vicepresidenza dalla quale era stato espulso insieme all’incarico interinale della presidenza resasi vacante, e poi da Marco Levi Bianchini.
Le parole che Modena pronuncia sugli anni appena trascorsi colpiscono per moderazione e assenza di spirito di rivalsa a fronte dell’ingiustizia subita: «una guerra terribile, e per noi sfortunata, una iniqua lotta contro i diritti dell’uomo per teorici e pagani principi di predominio di razza, hanno sconvolto il mondo, hanno recato immense rovine e perdite preziose – e non solo in questa nostra martoriata Italia – hanno intralciato per anni l’attività concorde e fattiva degli studiosi».
Ma non solo. Non si può non rimanere stupiti da come, all’uscita dall’incubo, la SIP sembri avere rimosso quella che il regime aveva sostenuto essere l’adesione del suo presidente, Arturo Donaggio, e con lui dell’intero sodalizio, al Manifesto degli Scienziati Razzisti, pubblicato il 25 luglio 1938, e le conseguenze tragiche che, tramite le leggi razziali e il loro inasprimento da parte della RSI e dell’occupante tedesco, essa aveva avuto per tanti colleghi e pazienti, a partire dallo stesso Modena. Emilio Padovani, nel trarre un bilancio non esita a parlare di “odiose e nefande ragioni razziali”, e di “atto brutale” e “bestiale ferocia nazista”, a proposito rispettivamente dell’allontanamento di Modena e della deportazione e uccisione di Muggia con la moglie, ma non fornisce chiarimenti sull’imbarazzante posizione nella quale la SIP, firmataria del documento, si trovava.
E anzi commemora in questi termini la morte, per incidente d’auto, nel 1942 dello stesso Donaggio: «A lui […] moltissimo deve la SIP per le sue fortune, avendo essa, sotto la sua illuminata guida, emulato le altezze raggiunte sotto la presidenza di Verga, di Tamburini, di Morselli[vii]».
Perché questa vistosa rimozione? Perché evocare proprio la “illuminata guida” di Donaggio, se proprio qui invece sta, con gli occhi di oggi, il problema? Aver esposto se stesso e la SIP sul terreno della razza, nel senso dell’esaltazione della stirpe italica, tanto da evocare nel momento più delicato l’interesse del fascismo per averla come complice, e a quel punto non sapersi più, probabilmente, defilare. Fino al paradosso di un sodalizio tanto lontano dall’antisemitismo da avere per vicepresidente un ebreo, che si trova ad essere l’unico sodalizio firmatario del documento volto a giustificare scientificamente l’antisemitismo italiano e prepararne la commutazione in legge.
Su questo silenzio e questo paradosso, evidentemente, possiamo fare solo congetture; ma vorremmo provare a farne qualcuna.
Forse è stato perché il gruppo dirigente, che doveva aver in qualche misura almeno condiviso con Donaggio l’adesione e conoscerne i retroscena, sapeva essersi trattato di una scelta fatta obtorto collo, e se ne sentiva corresponsabile? E la sibillina e ambigua presa di distanza di Donaggio che (forse) è possibile leggere tra le righe nella prolusione al XXII congresso[viii] era bastata ai colleghi? Forse perché i più sapevano che la firma nasceva da un opportunismo comune tra molti di loro e nella classe dirigente italiana, che non da reali convinzioni antisemite, e in questo nessuno si sentiva di lanciare l’evangelica prima pietra per una damnatio memoriae?
Ma se anche così fosse stato per l’adesione in se stessa, non lo era invece per ciò che stava a monte, dall’adesione di Donaggio al fascismo e ai suoi flirt, sempre ambigui è pur vero ma insistiti, col razzismo fascista (compreso l’aver pubblicato su un periodico come La difesa della razza)[ix].
Mi pare che in queste rimozioni sia possibile (forse) cogliere il segno, anche in psichiatria, di quella complessiva fretta di pacificazione – cioè di «soffocare gli odi che dividono e restituire l’amore tra gli uomini e la fiducia nell’umanità», e colpisce che a pronunciare queste parole sia di nuovo proprio Modena – che caratterizzò la società italiana all’uscita della guerra, investendo la politica, l’amministrazione dello Stato, la cultura, il mondo scientifico. Certo un grande desiderio di pace – all’uscita dalla guerra dentro (dentro le menti e i cuori, e dentro la nazione, tra gli italiani) e dalla guerra fuori (dal cielo, dal mare, da terra) – in quel momento è comprensibile. Certo, guardandosi indietro, erano probabilmente pochi quelli tra i presenti al Congresso che a quel balcone di Palazzo Venezia non avevano prestato, almeno in un’occasione, fiducia, quelli che proprio non avevano nulla da rimproverarsi.
E non era certo il caso di stilare classifiche tra chi aveva guardato da subito con diffidenza il regime (pochi), chi dopo il delitto Matteotti, dopo l’istituzione del Tribunale Speciale, dopo la guerra d’Etiopia, dopo le leggi razziali, dopo l’entrata in guerra, dopo i primi bombardamenti a tappeto, dopo il 25 luglio o dopo l’8 settembre ’43, o solo dopo il 25 aprile ‘45. Ma è anche difficile non mettere in relazione questo clima con una necessità delle classi dominanti di ricompattarsi, con il fatto che mentre da un lato ancora si faticava a spegnere le ultime fiamme dell’incendio e prendere atto che i conti erano chiusi e non era tempo più per regolarli, dall’altro riportava gran parte dell’apparato di potere fascista al proprio posto – affidabile presidio anticomunista in vista della guerra fredda – in un regime di almeno parziale continuità, in particolare in settori delicati come i vertici dell’apparato della giustizia o di quello di polizia[x].
Un esame di coscienza sarebbe stato in quel momento invece utile; e ben al di là del solo Donaggio, avrebbe dovuto incidere molto più in profondità nell’identità e nella storia degli psichiatri italiani. Alla guerra fascista non avevano infatti plaudito molti tra loro, a partire proprio da Emilio Padovani che ancora nel ‘43, poco prima del 25 luglio e dell'8 settembre, chiudeva gli Atti del XXII Congresso, faticosamente pubblicati quell'anno, con parole che esprimevano sentimenti forse ancora comuni tra i colleghi: «Il prof. Donaggio chiude il suo discorso elevando il pensiero al Re Imperatore e al Duce in questa grande ora dell’Italia imperiale (…). I Congressisti si apprestano a raggiungere le loro sedi (…) col cuore presago della grande ora storica che sta per suonare per le nuove immancabili fortune dell’Italia imperiale. Poco più di ventiquattro ore dopo l’Italia dichiarava guerra alla Francia e all’Inghilterra»?
Ci chiediamo cosa possa aver pensato Padovani rileggendo queste sue parole, crudelmente rese indelebili dall’inchiostro, pochi mesi dopo, quando a seguito dell’armistizio dell’8 settembre, il figlio (e collega) Giorgio fu deportato nei lager tedeschi in qualità di Internato Militare Italiano.
E al fascismo non aveva forse aderito già Enrico Morselli, allora presidente della SIP, firmatario con Donaggio del Manifesto intellettuale del fascismo redatto dal filosofo Giovanni Gentile nel 1925, dunque già dopo che Giacomo Matteotti e altri avevano pagato con la vita l’opposizione al regime? E, dopo di lui, non era andata crescendo negli anni la retorica di regime nelle fasi introduttive dei Congressi? Chi poteva sostenere di non essersene accorto?
E ancora, le posizioni razziste di Donaggio non scaturivano naturalmente, come logica conseguenza, da quelle sostenute nei decenni precedenti nei confronti delle popolazioni di colore[xi] da Enrico Morselli, dall’ebreo Cesare Lombroso e fatte proprie persino da Carlo Livi, senz’altro una delle figure più interessanti della nostra psichiatria ottocentesca[xii], proprio nell’esporre le ragioni della sua generosa opposizione alla pena capitale[xiii]?
Meglio stendere un velo pietoso di autoassoluzione generale, allora, che mettere in discussione in modo tanto radicale le proprie radici, indagare le ragioni per cui i padri nobili erano precipitati in quelli che ora si rivelavano pregiudizi infondati – ammantandoli, con la propria adesione, di “scientificità” – e invocare come causa di tante disgrazie la sfortuna che tutti indistintamente aveva colpito, scaricando sul mostro nazista molte responsabilità. E, dunque, piangere insieme sulle macerie senza porsi domande imbarazzanti: i tanti che erano stati fascisti, per convinzione o per opportunismo, e i pochi antifascisti della prima (e i più della seconda) ora; i razzisti più o meno convinti o quanto meno ambigui, e i perseguitati per razza, in parte razzisti anch’essi quando a essere considerati razzialmente inferiori erano altri. Nessun lauro per gli eroi, dunque, nessuna particolare menzione per coloro che avevano partecipato alla Resistenza o nascosto ebrei, renitenti, partigiani nelle corsie; o chiusi nei lager avevano saputo rifiutare la liberazione, condizionata all’adesione a Salò; e nessun imbarazzo, di conseguenza, per gli altri.
Né il desiderio di riprendere da dove si era rimasti prima delle leggi razziali e della guerra, come chiudendo una brutta parentesi, dell’élite psichiatrica italiana rea limitato in quel momento al solo ambito della ricostruzione degli eventi trascorsi. Anche nel campo dei modelli teorici, in particolare relativi alla spinosa questione dei rapporti tra psichiatria e guerra, si faticava ad andare oltre i convincimenti sui quali si era assestata al termine del primo conflitto mondiale e si era mantenuta nel corso del secondo[xiv]. Ne è un esempio l’intervento sul tema dell’igiene mentale del relatore Francesco Bonfiglio (“Il lavoro neuropsichiatrico”, a. I, 1947, pp. 197-221), il quale si dimostra scettico rispetto a una possibile psicogenesi traumatica della patologia mentale, e preoccupato soprattutto di tenere a freno entusiasmi e desideri di innovazione in direzione di un’autonomia del mentale dall’organico:
«Non vi è certamente nessuno che possa contestare che tutti i fattori sociali sfavorevoli al benessere fisico e mentale dell’individuo debbano essere strenuamente combattuti per favorire la sanità mentale e contribuire all’elevazione morale e materiale del popolo. Ma che questi fattori abbiano tanta parte nell’etiologia della pazzia come da molti psicoigienisti viene ammesso, non mi pare che sia stato dimostrato da nessuno (…). Né si può dire che le nostre troppo facili costruzioni etiologico-patogenetiche relative ai fattori mesologici[xv] abbiano ricevuto una conferma nella recente guerra, durante la quale, nonostante i continui e terribili patemi d’animo, le torture materiali e morali, la fame, la denutrizione, le privazioni d’ogni genere e i dolori inenarrabili patiti dalle popolazioni dei vari Paesi non si è constatato un aumento delle malattie mentali. E non soltanto non sono aumentate le malattie mentali che riteniamo di origine endogena, ma neanche quelle che, per dare maggior risalto al relativo fattore esogeno, chiamiamo reattive».
Sarà Ottorino Balduzzi[xvi] a contestare questa posizione, levando la sua voce dall’aver fatto diretta esperienza del lager; e citiamo dal resoconto del Congresso:
«Esprime la sua perplessità su quanto ha detto il prof. Bonfiglio (…) sulla scarsa importanza dei fattori ambientali nella genesi delle malattie mentali (…). Anch’egli credeva prima che l’ambiente non avesse una influenza determinante molto imponente nelle malattie mentali: si è dovuto ricredere con l’esperienza del campo di concentramento di Mauthausen, dove egli si è trovato e dove ha potuto riscontrare l’insorgenza di sindromi paranoidi complete in individui che apparentemente non presentavano alcuna predisposizione che potesse far pensare alla possibilità di giungere ad atteggiamenti di questo genere. Ricorda che anche autori americani [forse Bettelheim, emigrato negli USA, tra altri? N.d.A.] hanno denunciato l’aumento della schizofrenia in individui che hanno lasciato i campi di concentramento. Conclude, affermando la necessità e l’importanza della profilassi fatta sul terreno della primissima infanzia e della profilassi fatta sul terreno sociale».
Protestano gli astanti che una qualche influenza dell’ambiente non era mai stata negata nella psichiatria italiana, ma abbiamo visto in quali termini. Non si rendono conto evidentemente che ciò di cui Balduzzi avverte l’esigenza è molto più di quanto sono disponibili a concedere: liberare cioè l’idea di mente della psichiatria italiana delle superstizioni dell’organicismo e del costituzionalismo.
Non è questo, del resto, il solo germoglio che è possibile evidenziare in questa direzione in un Congresso per il resto caratterizzato, oltre che da ingombranti rimozioni, dal persistere di posizioni in gran parte tradizionali. Ferruccio Giacanelli ha avuto il merito di evidenziarne altri in un articolo del 2002, ripubblicato in occasione della recente scomparsa[xvii], nel bisogno di novità evocato già da Ugo Cerletti – che si staglia per levatura intellettuale, curiosità e coraggio sulla media dei colleghi[xviii], e sarà eletto presidente al termine del Congresso – nel discorso inaugurale, e nei (non usuali in quella sede) riferimenti filosofici cui ricorre il giovane Lamberto Longhi[xix] nel trattare il tema della coscienza[xx]. Che sono per Giacanelli il segno dell’esigenza avvertita, almeno da qualcuno, di una riflessione metodologica in grado di andare oltre il mero discorso clinico-empirico, per svelare e discutere le premesse filosofiche in esso comunque implicite[xxi]. Né stupisce che queste aperture gli siano valse, nel corso del dibattito, contestazioni.
Anche per questi timidi segni di apertura mi è parso utile ricordare la ricorrenza del settantesimo anniversario del XXIII Congresso della SIP; perché con esso comincia timidamente a schiudersi – sia pure con contraddittori aspetti di apertura e di chiusura, con curiosità e ipocrisie -. una stagione nella quale, a settant’anni di distanza, in parte almeno viviamo ancora.
Nell’immagine: Disegni sulla facciata esterna del Padiglione Lombroso del San Lazzaro di Reggio Emilia, oggi sede del Museo di Storia della Psichiatria, ricordano il bombardamento dell’ospedale l’8 gennaio 1944, che provocò oltre 80 vittime.
DEDICA – Trascorrono in questi giorni dieci anni da quando si spegneva a Genova la giovane collega Alessandra Berti. Alla sua cara memoria, al suo sorriso, alla sua passione per la psichiatria e al coraggio con il quale ha affrontato il periodo della malattia, alle persone che le furono care a partire dalla mamma, da Sergio e Federico, desidero dedicare questo scritto.
[i] Gran parte delle considerazioni che seguono sono tratte dal volume: P.F. Peloso, La guerra dentro. La psichiatria italiana tra fascismo e resistenza (1922-1945), Verona, Ombre Corte, 2008. Ad esso rimando per una trattazione più completa nonché per i riferimenti bibliografici qui omessi. Su psichiatria e II guerra mondiale in Italia è recentemente ritornato: P. Giovannini, La psichiatria di guerra. Dal fascismo alla seconda guerra mondiale, Milano, UNICOPLI, 2015. Su psichiatria e leggi razziali, V.Caretti, A. Conca, Italian psychiatry and fascism: racial laws and life in Psychiatric Hospitals during Warld War II, Evidence Based Psychiatric Care, vol. 1-2, 2015-16, pp. 105-110, disponibile online.
[ii] A questi nove censiti nell’occasione pare che occorra aggiungerne almeno altri tre.
[iii] Rimando in questa stessa rubrica a: 25 aprile 2016: ricordando il sacrificio di Giovanni Mercurio per la libertà degli Italiani.
[iv] Cfr.: P. Tranchina, Intervista al prof. Pierluigi Lippi Francesconi, Fogli di Informazione, 191, 2002, pp. 32-41.
[v] P. F. Peloso, La guerra dentro… cit., pp. 193-215.
[vi] P. F. Peloso, La guerra dentro… cit., pp. 104-118.
[vii] Si tratta di tre dei quattro predecessori, con Serafino Biffi qui omesso.
[viii] P. F. Peloso, La guerra dentro… cit., p. 151.
[ix] Lo stesso Donaggio attribuisce alla continuità dell’impegno suo e della SIP l’onore (e onere! N.d.A.) dell’essere stato coinvolto nella promozione del razzismo fascista (P. F. Peloso, La guerra dentro… cit., pp. 150-151.
[x] Si veda in proposito la ricostruzione del clima di quell’immediato secondo dopoguerra recentemente operata in: M. Franzinelli, N. Graziano, Un’odissea partigiana. Dalla Resistenza al manicomio, Milano, Feltrinelli, 2015, pp. 7-18 (vedi recensione su Pol. it).
[xi] Per la conoscenza della diffusione di pregiudizi razzisti nella psichiatria italiana e non solo, un doveroso rimando alle puntuali e costanti notazioni della rubrica “Psichiatrie coloniali italiane”, curata su POL. it da Luigi Benevelli.
[xii] P.F. Peloso, Osare la psichiatria. Benefici, rischi e significato dell’ergoterapia nella polemica degli anni ’70 dell’Ottocento, Rivista di Storia della Medicina, in stampa.
[xiii] P.F. Peloso, Tom Dening, The abolition of capital punishment: contribution from two nineteenth-century Italian psychiatrists, History of Psychiatry, XX, 2009, pp. 215-225.
[xiv] P. F. Peloso, La guerra dentro… cit., pp. 165-193.
[xv] Non sembra privo di significato che al termine “ambientali” sia qui preferito un sinonimo strettamente appartenente al linguaggio della biologia, a ulteriormente ribadire l’appartenenza del ragionamento psichiatrico alle scienze naturali.
[xvi] Neuropsichiatra e neurochirurgo nato a Godiasco (PV) nel 1897 e operante a Genova, fu antifascista della prima ora e militante del PCI clandestino; fondò su incarico del CLNAI una delle prime organizzazioni in grado di stabilire contatti tra Resistenza e Alleati, l’organizzazione Otto, che rifornì di armi le prime bande partigiane in Liguria e nel basso Piemonte, fu catturato e internato a Mauthausen, avendo poi la fortuna, al termine di una complessa vicenda, di uscirne, passare a lavorare in un ospedale militare tedesco e tessere relazioni con la Resistenza austriaca. E, infine, essere incaricato dagli Alleati di occuparsi con Giuliano Pajetta di occuparsi del rimpatrio dei compagni di prigionia, per poi rientrare salvo a Genova dove riprese il lavoro all’ospedale S. Martino; è morto a Portovenere (SP) nel 1964.
[xvii] F. Giacanelli, Il nostro “ieri”, l’”altro presente” della psichiatria italiana, Rivista Sperimentale di Freniatria, vol. CXXXVII, 2013, pp. 114-129 (pp. 117-119).
[xviii] Cfr. in proposito i due saggi recentemente dedicati alla sua figura dalla storica Roberta Passione: Ugo Cerletti. Storia dell’elettroshock (Milano, Franco Angeli, 2006); Ugo Cerletti. Il romanzo dell’elettroshok (Reggio Emilia, Aliberti, 2007). Nonché quanto osservato a suo proposito in: V.P. Babini, Liberi tutti. Manicomi e psichiatri in Italia. Una storia del Novecento, Bologna, Il mulino, 2009.
[xix] Nato a Genova nel 1909, si è distinto come cultore della fenomenologia operando prevalentemente in ambito neurologico a Roma e lasciando importanti contributi nei campi delle afasie, delle emiplegie e della psicopatologia. E’ deceduto a Roma nel 1997.
[xx] Sul tema ho avuto recentemente il piacere di partecipare, invitato dallo storico del pensiero scientifico P.A. Rossi, a una riflessione multidisciplinare che colgo l’occasione per ricordare (cfr. G. Andrioli, P.A. Rossi, Ai confini e dentro la coscienza, Genova, Nova Scripta, 2014).
[xxi] Imprescindibile qui un richiamo a Karl Jaspers, per il quale, come ricorda l’amico Lodovico Cappellari: «Chi crede di poter escludere la filosofia e di poterla lasciare da una parte perché senza importanza, ne è sopraffatto in forma oscura: così nasce negli studi psicopatologici quella intrusione della peggior filosofia».
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