Per gli interessati, nel decimo anno dalla Convenzione dei Diritti delle Persone Disabili, pubblico la seconda parte della mia relazione al convegno dell'Unione forense Tutela Diritti Umani “Il ruolo dell’Avvocato per la tutela dei Diritti Umani” – a Genova 13 dicembre 2016.
In Europa.
La Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea
La Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea cita le persone disabili all’interno del principio di non discriminazione previsto dall’art. 21, ed esplicitamente all’art. 26 prevede: "Inserimento dei disabili. L’Unione riconosce e rispetta il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità. " .
Come noto, la Carta ha assunto valore vincolante con il Trattato di Nizza, ma solo con riguardo alle Istituzioni UE; per gli Stati Membri è vincolante relativamente all’implementazione del diritto dell’Unione nel diritto nazionale.
La definizione di cosa sia la disabilità è materia riservata quindi agli atti dell’Unione ed agli stati secondo le interpretazioni delle Corti nazionali che la trasferiscono talvolta, a livello di rappresentazione in fatto, nelle controversie rimesse alla Corte di Giustizia (ECJ). Tuttavia, anche in passato, prima della Convenzione sui Diritti delle Persone Disabili, la ECJ aveva avuto opportunità di indicare cosa per essa rappresentasse disabilità. Ad esempio nel caso Chacòn Navas (Chacòn Navas v. Eurest Colectividades SA – Case C-13/05 [2006] ECR I-6457, 11.07.2006), la ECJ ha avuto modo di considerare l’ambito di applicazione delle norme contro la discriminazione sul lavoro (Dir. 2000/78/CE) e di avvertire che il termine disabilità dovrebbe ricevere una armonizzazione a livello di definizione in ambito UE. La ECJ ha affermato, in tale occasione, che la disabilità rispetto agli scopi della Direttiva in materia di eguaglianza sul lavoro, dovrebbe essere riferita ad una limitazione che risulti in particolare sul piano della menomazione fisica, mentale, o psicologica e che ostacoli la partecipazione della persona da essa interessata alla vita professionale e lavorativa e che debba essere con probabilità permanere per un lungo periodo di tempo, se non per sempre: una menomazione solo transitoria, o perlomeno di durata non apprezzabile rispetto all’aspettativa di vita, insomma, per la Corte non costituiva una disabilità, ma solo uno stato di malattia seppure prolungata. Nell’applicare tale definizione nel caso Chacòn, appunto, la ricorrente non era stata considerata disabile dalla Corte perché aveva proposto causa davanti alle Corti spagnole contestando avere subito una discriminazione, essendo stata licenziata dopo che ella era stata ammalata per un periodo di otto mesi. La ECJ ha ritenuto, in quella occasione, che deve essere demarcata la distinzione tra malattia e disabilità, laddove alla prima non è accordata la protezione in tale caso specifico.
La UE è nel 2010 diventata parte della CRPD – altra particolarità della CRPD: anche le organizzazioni internazionali degli stati a livello regionale come la Unione Europea possono diventare parti – e pertanto la ECJ nelle sue decisioni, deve fare riferimento ad essa ed alle interpretazioni ed anche ai risultati dei monitoraggi del Committee on the Rights of Persons with Disabilities): a conferma di ciò, ad esempio, la Sentenza ECJ del 18.12.2014, C- 354/13) le stesse direttive normative antidiscriminatorie vanno interpretate alla luce della CRPD
A livello di UE sono stati adottati diversi atti, sia come Commissione, che come Parlamento. Ad esempio nella Comunicazione della Commissione europea al Parlamento ed al Consiglio nella strategia sulla disabilità per il decennio 2010/2020 vengono incluse tra le misure dirette ad eliminare gli ostacoli all’esercizio dei diritti dei disabili, i contributi alle azioni degli Stati membri di sostegno per le famiglie e l’assistenza informale (2.1.2), mentre è del 7 luglio 2016 la Risoluzione del Parlamento europeo sull'attuazione della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, a seguito della pubblicazione delle osservazioni conclusive del comitato sui diritti delle persone con disabilità delle Nazioni Unite (CRPD) sull'attuazione della Convenzione sui delle persone con disabilità (CRPD) da parte dell’Unione Europea.
La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo
La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo è uno strumento nato negli anni ’50 e non prevede, a differenza della Carta Fondamentale dell’Unione Europea (che peraltro, si applica ovviamente solo nell’ambito più ristretto dell’UE stessa, a differenza della CEDU) una definizione della disabilità. Tuttavia, la Corte EDU ha notevolmente ampliato l’ambito di applicazione della Convenzione attraverso l’interpretazione evolutiva della Convenzione e si è occupata in diverse occasioni della tematica della Disabilità, non solo sotto il profilo prevedibile del generale divieto di discriminazione previsto all’art. 14, che non cita la disabilità esplicitamente, ma estende il divieto ad ogni altra “condizione” della persona oltre che a quelle di razza, sesso, colore ecc. previste esplicitamente nel testo dell’articolo.
La giurisprudenza della CEDU e del CRPD
Un esempio di decisione del Committee on the Rights of Person with Disabilities in materia di stato di salute e disabilità è H.M. v. Sweden (Comm. N. 3/2011 (CRPD/C/7/D/3/2011), Views 19.04.2012. In questo caso la richiedente soffriva di una grave sindrome, la EDS (Ehlers – Danlos Sindrome) che limita fortemente la mobilità per il rischio di ferirsi. L’unico tipo di riabilitazione per tale sindrome, che può fermare il progresso della malattia invalidante e le sue conseguenze è l’idroterapia, che nelle sue circostanze era praticabile solo in una piscina interna alla casa della Signora, perché l’interessata accedendo ad altre piscine avrebbe rischiato durante il trasferimento di aggravarsi e ferirsi. Tuttavia, quando l’interessata chiese il permesso di utilizzare una superficie adiacente alla sua casa, facente parte del terreno di proprietà, al di fuori della vista pubblica, per costruire la piscina, il permesso di costruire le fu negato, con la motivazione che la maggior parte della costruzione sarebbe avvenuta su terreno che, secondo il piano urbanistico, non era edificabile. Le autorità svedesi, infatti, argomentarono che il piano urbanistico si doveva applicare in tutto e per tutto con riguardo a tutti, che fossero disabili o meno. Nè erano rinvenibili nel piano urbanistico clausole che potessero essere considerate discriminatorie verso le persone con disabilità. Il rigetto del permesso di costruire alla richiedente in questo caso non era in nessun modo riconducibile alla disabilità della richiedente, ma piuttosto consisteva in una prassi che si applicava indifferentemente a tutti, disabili o no. Il Committee ritenne che il diniego del permesso di costruire la piscina fosse una discriminazione ed una violazione del dovere di provvedere ad un ragionevole accomodamento: le condizioni critiche di salute e la conseguente necessità di accedere all’idroterapia mediante una piscina in casa era effettiva ed essenziale, anzi in questo caso l’unico effettivo strumento per rispondere ai propri bisogni di terapia, a tutela della propria salute; né lo Stato, secondo il Committee, aveva indicato un qualsiasi sproporzionato o eccessivo che potesse giustificare la mancata considerazione della disabilità della richiedente e dei bisogni correlati a tale disabilità. Pertanto, il Committee concluse per la violazione dei diritti della Signora disabile conseguenti al rigetto del permesso di costruire sotto il profilo degli articoli 5.1, 5.3, 25 e delle obbligazioni dello Stato parte nascenti dall’art. 26 della CRPD, da solo ed in connessione con gli art. 3(b),(d),(e) e 4.1 (d) della Convenzione.
Rinviando ad un elenco di casi divisi per articolo della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo in allegato, dai quali si ricava la delicatezza ed insieme l’ampio ventaglio delle situazioni portate davanti alla Corte, che riguardano ogni aspetto della vita della persona disabile, ci limiteremo ad affrontarne qui due.
Un primo caso è quello GLOR v. Switzerland (Appl. n. 13444/04), decisione del 30 aprile 2009, dove troviamo di fatto il concetto di reasonable accomodation ripreso nella CRPD ed utilizzato dalla Corte, la quale ha ravvisato la violazione dell’art. 14 CEDU (divieto di discriminazione) in concorso con l’art. 8 CEDU (Diritto alla vita privata e familiare). Il sig. Glor soffriva di diabete e a causa delle proprie condizioni di salute non poteva prestare il servizio di leva obbligatoria, essendo stato giudicato non idoneo fisicamente alla leva. Secondo le Autorità svizzere, le sue condizioni fisiche e di salute costituivano un problema con riguardo alle particolari restrizioni della vita militare, tra le quali un accesso limitato alla assistenza medica ed ai farmaci, i significativi sforzi fisici richiesti e la pressione psicologica esercitata sul militare. Tuttavia, le autorità decisero che la patologia di cui soffriva il Sig. Glor non fosse abbastanza grave per esonerarlo dal pagare una non trascurabile tassa per l’esenzione dal servizio militare su suoi guadagni annuali per diversi anni a venire.
Sebbene il Sig. Glor volesse fare il servizio militare, gli fu quindi proibito sia di farlo, sia di fare il servizio civile alternativo, essendo questo previsto solo per gli obiettori di coscienza. Sulla base dell’art. 14 e dell’art. 8 CEDU il sig. Glor sostenne di essere stato discriminato per la sua disabilità, perché gli fu proibito di prestare il servizio militare e fu obbligato a pagare la tassa per l’esenzione dal servizio di leva, poiché la sua disabilità fu valutata non sufficientemente grave per esentarlo da essa. La Corte condannò la Svizzera per non aver provveduto ad un ragionevole accomodamento nei confronti del sig. Glor, avendo evitato di ricercare una soluzione che rispondesse alla sua situazione individuale. Prestò attenzione al fatto che un ragionevole accomodamento avrebbe potuto essere trovato ad esempio occupando posizioni di servizio che richiedessero minori sforzi fisici per i portatori di disabilità. Nell’evidenziare la carenza delle autorità svizzere, la Corte indicò la legislazione sul servizio militare vigente in altri Stati, che assicura il reclutamento di persone con disabilità mediante l’assegnazione a posizioni adatte sia alla disabilità della persona che alle sue abilità professionali.
Un caso decisamente più complesso è PRETTY v. UK (Appl. n. 2346/02).
La sig.ra Pretty era una donna di 43 anni, Sposata da venticinque anni, abitante con il marito, la loro figlia e la nipote. Ella soffriva di una sclerosi laterale amiotrofica (SLA), malattia neurodegenerativa progressiva che colpisce i neuroni motori all’interno del sistema nervoso centrale e provoca un’alterazione graduale delle cellule che comandano i muscoli volontari del corpo. La evoluzione della malattia conduce ad un grave indebolimento delle braccia e delle gambe così come dei muscoli che controllano la respirazione; ed infatti la morte sopravviene generalmente in seguito a dei problemi di insufficienza respiratoria e di polmonite dovuti alla debolezza dei muscoli respiratori e di quelli che controllano la parola e la deglutizione. Nessun trattamento può bloccare la progressione della malattia, non esistendo ad oggi cura. Lo stato di salute della ricorrente si era deteriorato rapidamente da quando la malattia le era stata diagnosticata, ed al momento della decisione della Corte EDU la malattia era in stato estremamente avanzato: la signora Pretty era quasi paralizzata dal collo ai piedi, essa non poteva in pratica esprimersi in maniera comprensibile e si alimentava mediante un tubo, con una speranza di vita molto limitata, di mesi o settimane. Il suo intelletto e la sua capacità di prendere decisioni rimanevano tuttavia intatti. Gli stadi ultimi della malattia sono estremamente penosi e si accompagnano con una perdita della dignità, pertanto la signora Pretty aveva paura si della sofferenza e della perdita di dignità che dovrà affrontare nell’ulteriore finale evoluzione della malattia. Per questo la Sig.ra Pretty voleva poter decidere quando e come morire per sfuggire a questa sofferenza e questa mancanza di dignità.
Siamo di fronte quindi ad una condizione umana orrenda in primo luogo, e ad argomenti estremamente sensibili dal punto di vista del diritto e più in generale dell’etica.
Il fatto che una persona priva di disabilità possa suicidarsi, ed una con disabilità che le impedisca di commettere tale atto, non possa né di propria mano né di mano altrui, costituisce una discriminazione? Perché può essere lecito decidere di sospendere trattamenti medici salvavita e morire, mentre non è lecito in piena coscienza e libertà, per evitare la completa perdita della propria dignità, sofferenze terribili per sé e per i propri cari, poter decidere di porre fine alla propria vita di fronte ad una malattia incurabile, per mano d’altri non potendo farlo da soli?
La Sig.ra Pretty aveva richiesto al Director of Public Prosecutions (in breve, l’ufficio del pubblico ministero) l’impegno sulla base della legge inglese sul suicidio del 1961 (che aveva depenalizzato il reato di suicidio nel Regno Unito) di non perseguire il signor Pretty, se avesse aiutato sua moglie a suicidarsi, poiché ella aveva deciso in piena libertà e coscienza di porre fine ala propria vita per evitare le terribili ulteriori sofferenze e perdita di dignità che l’aspettavano, pur non potendo ella stessa, da sola, compiere l’atto del suicidio a causa della sua malattia e della condizione di disabilità.
Il marito stesso era disposto a prestare la propria assistenza, ma solamente potendo ottenere la garanzia di non essere perseguito penalmente ai sensi dell’art. 2 § 1 della legge del 1961 sul suicidio per aver aiutato sua moglie a suicidarsi; garanzia venne negata e avverso il rifiuto la Sig,ra Pretty ricorse i vari gradi della giustizia interna, senza ottenere ragione, ricorrendo infine alla Corte Edu. Nella sentenza si da atto riportando ampi stralci delle motivazione della corte interna del Regno Unito nel rigettare le impugnazioni della Sig.ra Pretty.
Sono motivazioni estremamente complesse ed interessanti, che richiamano oltre alla giurisprudenza della Corte Edu (Osman, Keenan) l’evoluzione del diritto inglese in materia di suicidio e le proposte di riforma anche dopo la depenalizzazione del suicidio negli anni sessanta, proposte dove tra l’altro era stato considerata la possibilità – non accolta poi – di consentire il suicidio assistito, anche in casi come quello della Sig.ra Pretty.
La Sentenza è particolarmente interessante perché la Corte Edu ripercorrendo la propria giurisprudenza e le motivazioni delle Corti nazionali sul caso della Sig.ra Pretty per conclude che il caso non ha precedenti applicabili, esaminando così un caso analogo trattato dalla Corte Suprema del Canada, secondo un’ottica ormai in via di consolidamento per cui le Corti internazionali esaminano anche i precedenti giudiziali di altre Corti, o anche organismi non giudiziali di diritto internazionali, anche al di fuori dell’ambito regionale di competenza.
Il caso in questione è Rodriguez contro Procuratore generale del Canada, dove la Sig.ra Rodriguez soffriva di una malattia e di una conseguente disabilità non dissimile da quella della Sig.ra Pretty, e per le stesse ragioni chiedeva di ottenere una ordinanza che autorizzasse un medico a porre fine alla sua vita mediante un dispositivo medico, sulla base della Carta Canadese dei Diritti e delle Libertà, la quale recita:
“1) La Carta canadese dei diritti e delle libertà garantisce i diritti e le libertà che vi sono enunciate. Essi non possono essere negati che per una regola di diritto, nei limiti che siano ragionevoli e la cui giustificazione possa dimostrarsi nel quadro di una società libera e democratica. (…) 7) Ognuno ha diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della sua persona ; non può essere violato questo diritto se non in conformità con i principi della giustizia fondamentale. (…) 12) Ognuno ha diritto alla protezione contro tutti i trattamenti o pene crudeli e inusitati. (…) 15.1) La legge non fa eccezione a nessuno e si applica ugualmente a tutti, e tutti hanno diritto alla stessa protezione ed allo stesso beneficio di legge, indipendentemente da ogni discriminazione, in particolare discriminazioni fondate sulla razza, l’origine nazionale o etnica, il colore, la religione, il sesso, l’età o le deficienze mentali o fisiche.”.
La domanda della Sig,ra Rodriguez era stata rigettata in primo grado, ma accolta in Appello osservando che quando lo Stato impone delle proibizioni che hanno per effetto di prolungare le sofferenze fisiche e psicologiche di una persona viola prima facie diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della persona, e che una disposizione che impone un periodo indefinito di sofferenza fisica e psicologica inutile ad una persona che è in ogni caso sul punto di morire non può essere conforme ad alcun principio di giustizia fondamentale.
La Corte Suprema confermò il diritto al suicidio della Sig.ra Rodriguez a maggioranza: tutti i giudici, tranne uno, riconoscevano con motivazioni per altro differenti che l’articolo 7 della Carta Canadese (diritto alla vita, alla libertà ed alla sicurezza della persona) conferiva un diritto all’autonomia personale che si estende alle decisioni concernenti la vita e la morte.
La Corte EDU rigetta invece il ricorso della Sig.ra Pretty ritenendo non esservi nel caso una violazione della Convenzione.
In particolare, per l’art. 2 (Diritto alla vita) che la Corte ritiene preminente, nel senso che senza il diritto alla vita “il godimento di uno qualsiasi degli altri diritti e libertà garantiti dalla Convenzione sarebbe illusorio”, essa osserva che “In tutti i casi che ha trattato, la Corte ha posto l’accento sull’obbligo per lo Stato di proteggere la vita. Non e’ convinta che il “diritto alla vita” garantito dall’articolo 2 possa essere interpretato nel senso che comporti un aspetto negativo.“ Si tratta di un diritto, non di una libertà; quest’ultima può assumere un aspetto negativo, ad esempio la libertà di non associarsi ad un sindacato rispetto all’art. 11 della Convenzione (Young, James e Webster vs. UK), ma lart. 2 CEDU non è formulato in questo modo: non vi e’ nessun rapporto con le questioni relative alla qualità della vita o a quello che una persona sceglie di fare della propria vita; pertanto l’art. 2 deve essere interpretato nel senso che conferisce un diritto diametralmente opposto, vale a dire un diritto di morire, né potrebbe far nascere un diritto all’autodeterminazione esteso fino a dare ad ogni individuo il diritto di scegliere la morte piuttosto che la vita.
Rispetto all’art. 3 (divieto tortura, pene o trattamenti inumani o degradanti) che la Corte ritiene anch'esso preminente ed inderogabile, essa ritiene che che esigere dallo Stato l’accoglimento della domanda della Sig.ra Pretty, equivale a obbligarlo ad approvare atti volti ad interrompere la vita, obbligo che non può farsi derivare dall’art. 3 della Convenzione; quindi non può imporsi allo Stato un obbligo positivo di non perseguire il marito della ricorrente se aiuta la moglie a suicidarsi o ad istituire un sistema legale per qualsiasi altra forma di suicidio assistito.
Sull’art. 8 (rispetto della vita privata e familiare) concetto che per la Corte EDU è ampio e non suscettibile di definizione esaustiva (e potrebbe, quindi in astratto, fondare un accoglimento del ricorso, magari in analogia alla Corte Suprema Canadese), la Corte pur non avendo mai riconosciuto che l’art. 8 implichi un vero e proprio diritto all’autodeterminazione in quanto tale, osserva che la nozione di autonomia personale è importante nella interpretazione della garanzie previste dall’art. 8.
Per la Corte “La dignità e la libertà dell’uomo sono l’essenza stessa della Convenzione. Senza negare in nessun modo il principio della sacralità della vita protetto dalla Convenzione, la Corte rileva che è sotto il profilo dell’articolo 8 che la nozione di qualità di vita si riempie di significato. In un’epoca in cui si assiste ad una crescente sofisticazione della medicina e ad un aumento delle speranze di vita, numerose persone temono di non avere la forza di mantenersi in vita fino ad un’età molto avanzata o in uno stato di grave decadimento fisico o mentale agli antipodi della forte percezione che hanno di loro stesse e della loro identità personale.”
Richiamando il precedente Rodriguez della Corte Suprema del Canada, la Corte si interroga se effettivamente nel caso della Sig.ra Pretty sotto il profilo dell’art. 8 possa configurarsi una lesione del diritto all’interessata al rispetto della sua vita privata. In particolare, riconoscendo che la lesione in effetti, come nel caso Rodriguez (sottoposto ad altra norma rispetto alla convenzione) c’è, ma se l’ingerenza statuale possa dirsi proporzionata e giustificata alla luce dell’art. 8 e della Convenzione, la Corte conclude che l’ingerenza è giustificata in quanto necessaria, in una società democratica alla protezione dei diritti altrui: non si può ritenere arbitraria o priva di ragionevolezza la decisione del PM di rifiutarsi di assumere l’impegno a non perseguire penalmente il marito della Sig.ra Pretty anche alla luce dell’esigenza di tutelare le persone fragili.
La corte esamina anche l’art. 9 (libertà di pensiero, religione o credo) e l’art. 14 (divieto di discriminazione) ritenendo che anche in questo caso non vi sia una violazione.
Sull’art. 9 la Corte osserva che “La Corte non dubita della serietà delle convinzioni della ricorrente in merito al suicidio assistito, ma osserva che non tutte le opinioni o convinzioni rientrano nel campo di applicazione dell’articolo 9, paragrafo 1, della Convenzione. Le doglianze dell’interessata non concernono una forma di manifestazione di una religione o di una convinzione mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche o il compimento di riti, ai sensi della seconda frase del paragrafo 1 dell’articolo 9. Come ha dichiarato la Commissione, il termine “pratiche” utilizzato nell’articolo 9, paragrafo 1, non include qualsiasi azione motivata o influenzata da una religione o da una convinzione (Arrowsmith c. Regno Unito, n. 7050/77, rapporto della Commissione del 12 ottobre 1978, D.R. 19, pagina 19, paragrafo 71).” e quindi non ravvisa violazione.
Sull’art 14, richiamando il proprio precedente Thlimmenos c. Grecia [GC], n° 34369/97, CEDH 2000-IV, paragrafo 44) esiste per la Corte una giustificazione obiettiva e ragionevole all’assenza di distinzione giuridica tra le persone che sono fisicamente capaci di suicidarsi e quelle che non lo sono, nonché vi sono buoni motivi per non introdurre nella legge sul suicidio inglese eccezioni che consentano di valutare la situazione di persone considerate non vulnerabili. Esistono per la Corte, considerando l’articolo 14, analoghe convincenti ragioni per non cercare di fare distinzione tra le persone che sono in grado di suicidarsi senza aiuto e quelle che non ne sono capaci. La linea di confine tra le due categorie è spesso molto labile, e secondo la Corte “tentare di introdurre nella legge un’eccezione per le persone ritenute incapaci di suicidarsi da sole comprometterebbe seriamente la protezione della vita che la legge del 1961 ha inteso consacrare e aumenterebbe in maniera significativa il rischio di abuso”
Principali decisione delle Corte EDU in materia di Disabilità (traduzione dal Release Press EHCR in occasione della giornata della Disabilità (3 dicembre 2015) dell’Avv. Matteo De Longis in https://matteodelongis.it/2015/12/03/persone-con-disabilita-e-corte-europea-dei-diritti-delluomo/)
Articolo 2 – Diritto alla Vita
• Decesso di una persona sordomuta in custodia di polizia – Jasinskis c. Lettonia;
• Decesso di una persona disabile in cura presso un ospedale psichiatrico – Nencheva ed altri c. Bulgaria; Center of Legal Resources per conto di Valentin Campeanu c. Romania.
Articolo 3 – Proibizione della Tortura
• Condizioni di detenzione – Price c. Regno Unito; Vincent c. Francia; Z.H. c. Ungheria;
• Condizioni di vita in istituti psichiatrici e case di riposo – Stanev c. Bulgaria;
• Rischio di trattamenti degradanti in caso di espulsione o estradizione – Hukic c. Svezia; Aswat c. Regno Unito;
• Sterilizzazione a scopo contraccettivo – Gauer ed altri c. Francia;
• Molestie verbali e/o fisiche – Dordevic c. Croatia.
Articolo 5 – Diritto alla libertà e alla sicurezza
• Trattamenti sanitari obbligatori e ricovero coatto in struttura psichiatrica – H.L. c. Regno Unito; Stanev c. Bulgaria; D.D. c. Lituania.
Articolo 6 – Diritto a un equo processo
• Eccessiva durata della procedura tesa all’ottenimento della pensione di invalidità – Mocie c. Francia;
• Interdizione legale – Shtukaturov c. Russia.
Articolo 8 – Diritto al rispetto della vita privata e familiare
• Accesso alla spiaggia – Botta c. Italia;
• Accesso agli edifici pubblici – Zehnalova e Zehnal c. Repubblica Ceca; Molka c. Polonia.
• Suicidio assistito ed autodeterminazione – Pretty c. Regno Unito;
• Privazione della capacità legale – Shtukaturov c. Russia;
• Sostegno economico alle famiglie con minori disabili – La Parola ed altri c. Italia;
• Diniego di accesso ad esami genetici prenatali – R.R. c. Polonia;
• Carenza di rappresentanza legale per un bambino disabile – A.M.M. c. Romania;
• Trattamenti medici e mancato consenso – Glass c. Regno Unito;
• Responsabilità medica – Spyra e Kranczkowski c. Polonia;
• Stupro di una persona mentalmente disabile – X e Y c. Paesi Bassi;
• Revoca della potestà genitoriale, affidamento dei minori, e diritto di visita genitoriale – Kutzner c. Germania; Saviny c. Ucraina; A.K. e L. c. Croazia.
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