Le considerazioni che seguono – che risalgono al 2005\06 e che poi sono apparse con qualche variazione nel testo “Inter – nos. Sul come si trattano gli psicologi” – nascono dal tentativo di dare una risposta ad alcune domande che l’amico e collega Fabrizio Rizzi aveva fatto a noi e ad altri colleghi. Ed in special modo alle sue domande in tema di “sadomasochismo in didattica, formazione, e supervisione”, che ci avevano riportato ad un tema che per noi psicoterapeuti dell’età evolutiva è stato da sempre un tema centrale della formazione: quello relativo alla presenza sul piano della scena formativa, sia nel docente che nel discente, di ciò che Käes ha chiamato “i fantasmi della formazione”.
Per cui abbiamo deciso di concentrare la nostra attenzione su questo tema, o meglio sulla patologia ad esso connessa, a partire dal particolare rapporto fra learning diseases e teaching diseases che s’instaura sul piano della scena formativa dello psicoterapeuta; per passare poi ad un tentativo di riflessione sui fantasmi formativi presenti in essa; e per finire con un tentativo di analisi delle varie declinazioni possibili della formazione in psicoterapia.
1. Learning diseases e teaching diseases sul piano della formazione e della supervisione dello psicologo clinico
Abbiamo definito in un precedente lavoro i percorsi post lauream che accompagnano il giovane aspirante psicologo clinico nel campo della professione come cerimonie di aggregazione del neoprofessionista nella professione e del giovane nell’età adulta[1]. Ed in quella stessa occasione abbiamo trovato delle analogie fra funzioni svolte dal tutor di tirocinio e funzioni sacerdotali svolte, nel momento del passaggio dall’adolescenza all’età adulta, dalla comunità adulta nella sua interezza o da una porzione di essa nei confronti dei neofiti.
Sempre in quella occasione avevamo visto come, sia nel tirocinio che nella frequenza delle scuole di specializzazione, l’ambito della docenza non fosse (più) limitata alla lezione frontale, ma estesa (molto più conseguentemente che in precedenza) all’esempio e al precettorato.
A nostro avviso già molto di ciò che effettivamente avviene sul piano della nostra scena formativa può essere compreso a partire da un’analisi di come si dislocano nel nostro caso questi tre momenti.
E’ noto che nel caso del tirocinio la lezione frontale praticamente non esiste o, meglio, in base alla collocazione post lauream del tirocinio stesso viene dopo un percorso di laurea tutto sbilanciato sulla teoria e sicuramente sganciato dal mondo della professione. Il metamessaggio che passa al laureando è che la pratica è meno importante della riflessione teorica; e questa sottovalutazione della pratica diventa ancora più evidente allorché – durante il tirocinio – praticamente il neofita viene lasciato in balia del suo tutor di tirocinio, senza che alcuna istanza di contenimento dei fantasmi formativi di quest’ultimo in questo primo momento di impatto con la professione sia prevista e a disposizione di esso. Poi, nel momento dell’ingresso in una scuola di specializzazione il giovane si trova, spesso in contemporanea, da una parte di fronte ad una ripetizione di “lezioni” già ascoltate, dall’altra a doversi assuefare ad un discorso clinico teorico, che rimanda la pratica ad un luogo altro (il tutoring di specializzazione), spesso non organico agli indirizzi della scuola e, ancora una volta, esterno, lontano dalla teoria.
A nostro avviso questo approccio teoreticista denota la presenza nell’istituzione universitaria e nelle scuole (specie in quelle che reiterano piattamente l’impianto teoreticista dell’accademia) di istanze difensive che mirano ad espellere dalla scena formativa i dati più emozionali che vengono sia dall’oggetto della formazione (la clinica) che dai soggetti da formare, dal loro desiderio forte di essere formati (a proposito della forza di questo desiderio la Dolto, citata da Käes afferma: “il discente dice sempre al proprio docente "fammi qualcosa sul mio corpo" ”); o meglio a ridurne il loro impatto emozionale all’interno di un rituale ossessivo volto ad anestetizzare la scena, a ridurla ad un grigio esercizio mentale, che al massimo può condurre gli studenti più compiacenti ad un specie di orgasmo dell’Io di fronte agli azzardati e del tutto teorici voli del sapere astratto.
In questo clima l’esempio, il secondo importante veicolo di passaggio di ogni forma di sapere pratico e delle competenze cliniche, in particolare, durante il percorso di laurea viene denegato o ridotto alle pantomime delle visite guidate. Mentre il precettorato – pur essendo implicitamente presente in qualsiasi scena formativa – non diventa mai scientemente per i docenti uno strumento sul quale far leva per passare le conoscenze ed indurre nei discenti l’amore per esse.
Ma cosa sono l’esempio e il precettorato? L’esempio è un rallenty: consiste nel rallentare ad arte una pratica, una procedura in modo da permettere all’allievo di apprenderla. Mentre il precettorato è una forma speciale di lectio, collegata con la pratica, e consistente in una lettura di ciò che è stato appena fatto e dei problemi che entrambi – il maestro e l’allievo – hanno dovuto affrontare nel mentre andavano facendo.
Si tratta nel primo caso della definizione di un luogo e di un tempo in cui il maestro possa far vedere all’allievo come si fa: di un luogo che, nel caso del tirocinio degli psicologi, è molto intimo, quasi sempre duale, in cui il tutor e il suo allievo sono uno a fianco a l’altro in due posizioni complementari simili a quelle che gli etnologi definiscono come partecipante – osservatore e osservatore – partecipante.
Nel secondo caso invece si tratta di un confronto fra una lettura – quella dell’allievo – centrata sulle confrontazioni che vengono dal presente e dal passato prossimo, ed una – quella del maestro – che, in base alla sua più lunga esperienza, può fare ben altre confrontazioni centrate sul rapporto fra presente e passato , che nel caso dello psicologo non è altro che l’insieme delle pratiche psicologiche così come esse si sono cristallizzate nella tradizione: è questo praeceptum che rende il maestro in grado letteralmente di cogliere prima e con maggiore ricchezza di riferimenti alla tradizione ciò che sta accadendo.
Vedete bene che, nella misura in cui cominciamo a cogliere il tirocinio ed il precettorato come parti integranti del processo formativo dello psicologo ci avviciniamo – quasi in termini di sovrapposizione – al luogo topico in cui le arti e gli artieri si sono storicamente formati, cioè alla bottega artigiana.
Come nella bottega artigiana fra tutor e tirocinante non vi è lectio che tenga: tutto passa dal tutor al tirocinante in una atmosfera in cui, più che parlare, si fa. Tutto si definisce non di fronte ad una classe, ma in un luogo intimo in cui, uno di fronte all’altro, l’allievo ed il maestro sono in un rapporto diretto e non mediato da alcun rituale pedagogico e per-ciò molto più costretti all’interno di rapporti stringenti e centrati su di una reciprocità asimmetrica e coinvolgente.
Cosicché, mentre il fare formativo centrato sulla lezione dà origine, nel migliore dei casi, a nozze anemofile in cui diventa difficile capire “dopo” da dove deriva una certa idea, una certa influenza, una certa pratica, nei luoghi in cui la formazione si struttura intorno all’esempio ed al precettorato non è affatto così. Qui tutto è centrato sulla dipendenza di quell’allievo con quel maestro, di quello psicologo tirocinante con il tutor che è stato a lui assegnato: maestro e tutor che lo riempiono (o non lo riempiono, che è lo stesso!!) col proprio desiderio formativo. Il che per l’allievo significa che il “dopo” avviene in base ad un’opera di emancipazione dall’influenza del vecchio maestro molto più chiara, ma spesso molto più dolorosa di quanto avvenga solitamente nella classe. Lo stesso dicasi nel caso del maestro, del tutor che deve accettare questa emancipazione e che alla fine l’allievo, lungi dal con-formarsi al suo desiderio formativo, è giusto che vada per la propria strada.
Per comprendere cosa può sentire il maestro di fronte ad un allievo che si emancipa, i tanti e controversi sentimenti che possono albergare in lui allorché prende atto della propria superfluità di fronte alla crescita dell’allievo basta dare un’occhiata a questo dipinto del Verrocchio sulla sinistra del quale – a detta di tutti i critici – c’è un angelo dipinto dal suo giovane allievo Leonardo da Vinci:
e, di converso, basta riosservare il dipinto dalla parte di Leonardo per intuire quanti e quali speculari sentimenti può provare un allievo allorché intuisce che è cresciuto professionalmente e che si va emancipando dal proprio maestro.
2. I fantasmi formativi presenti sulla scena della clinica psy
I docenti universitari di psicologia, così come coloro che operano nelle scuole di specializzazione come docenti o come supervisori hanno in comune il fatto di esercitare per scelta il mestiere della docenza. Al contrario un tutor che operi in una istituzione o in un’azienda convenzionata con le università e con le scuole spesso si ritrova cucite addosso funzioni docenti senza avere scelto attivamente questa strada nella propria vita professionale.
Però se noi interrogassimo tutti questi formatori dell’area della clinica psy scopriremmo che in tutti loro, così come peraltro avviene per la generalità degli adulti che solo per avventura si trovino a svolgere funzioni educanti, emerge – spesso come vero e proprio presupposto della loro propensione a formare – un desiderio che da molti di loro viene vissuto come una vera e propria vocazione.
Si tratta di una voce interna che tende ad emergere non solo in chi ha fatto un passo nella direzione della formazione per scelta personale, ma anche in coloro – come accade spesso per i tutor dei giovani psicologi tirocinanti – che nel momento in cui si sono proiettati, per caso o per necessità, sul piano della docenza, sentono come i primi una propensione a formare che però, al contrario dei primi, fino a quel momento non presupponevano di avere dentro di sé..
Da dove proviene questa voce interna che si ritrova non solo sul terreno della clinica, ma in qualsiasi luogo formativo? Come essa si coniuga in ciascuno di noi con le altre istanze interne?
Nel tentativo di mettere a fuoco i connotati di questo particolare personaggio interno che ci abita seguiremo le orme di Kaës che in più occasioni ha cercato di porre in luce il profilo i questa parte interna che, spesso come un’ombra oscura, a volta come una chiara vocazione ci accompagna per tutta la nostra vita.
Esser vocati a formare, per amore o per caso, o anche per necessità, significa innanzitutto riconoscere l'esistenza dentro di noi di una voce interna, di una parte, di un personaggio[2] che ci abita, di un fantasma che ci spinge nella direzione della formazione. E, conseguentemente, a seconda di come sarà possibile per ciascuno di noi coniugare tale voce, tale personaggio con le altre voci, con le altre istanze interne che ci determinano dinamicamente, le possibilità di espressione del desiderio di formare risulteranno in noi più o meno enfatizzate, più o meno compromesse.
Käes ritrova tracce di questo personaggio della formazione, o – come lui dice – di "una fantasmatica nucleare della formazione" sia nella ontogenesi di ogni singolo individuo sia nella filogenesi di ogni cultura.
A livello ontogenetico tali tracce sono riscontrabili nei giochi infantili del tipo "maestro-allievo", nei giochi di modellaggio, nel gioco con la bambola, etc.; e, per un altro verso, nell'area dei sogni e di tutte le messe in scena creative e distruttive che in essa si determinano; per un altro verso ancora in tutto lo sforzo infantile di ricerca delle proprie origini, e quindi nell'area in cui si definiscono dapprima le cosiddette teorie sessuali infantili, ed in un secondo tempo le pulsioni epistemofiliche sublimate.
E a livello della filogenesi nella presenza in qualsiasi cultura di oggi e di ieri dei cosiddetti miti di formazione dell'uomo. A noi occidentali è noto ad es. che, secondo la tradizione giudaico-cristiana, Dio creò l'uomo "a propria immagine e somiglianza", impastando della polvere e soffiando, in\spirando nel "pupazzo" così ottenuto in modo tale da infondergli la vita. Ma miti molto simili a questo mito nostrano – come afferma Käes – si ritrovano in tutte le religioni.
Così come sia a livello ontogenetico che filogenetico è possibile trovare traccia di ciò che potremmo definire come il negativo della formazione: alla costruzione corrisponde la distruzione. Le ragioni che portano a formare sono le stesse che portano a de\formare, a distruggere. E così, come a fianco all'immagine del dio amorevole e costruttore del mondo e della vita, in ogni teogonia c'è anche l'immagine rovesciata di un anti\dio distruttore e padrone del male e delle tenebre, allo stesso modo uno stretto e più o meno integrato collegamento fra formazione e de\formazione, fra costruzione e distruzione è riscontrabile dentro ciascuno di noi.
Abbiamo accennato prima a ciò che solitamente avviene all’interno dell’area onirica in cui la parziale e momentanea latenza delle nostre parti vigili e coscienti permette una più esplicita articolazione fra costruzione e distruzione rispetto a ciò che accade nei momenti diurni. Ma, anche se ritorniamo sulla scena della formazione le cose, a ben vedere, non è che cambino di molto. Infatti se pensiamo per un attimo a quei momenti dell'esperienza dell'educatore in cui l'oggetto della formazione non "vien su" come l'educatore stesso vorrebbe ecco che anche in questo luogo in cui l’impulsività solitamente è sotto controllo, si assiste all'emergere di istanze aggressive, distruttive, de\formative.
Questa ambivalenza di sentimenti e di emozioni presente in ciascun formatore ci permette di comprendere contemporaneamente, da una parte, la ragione psicologica in base alla quale, a fianco e a fronte dei learning diseases ci sono sempre i teaching diseases; dall'altra perché i teaching diseases, nella scena del processo di insegnamento-apprendimento, passano sempre in secondo piano.
Di fronte a questa ambivalenza e, prima ancora, di fronte al fatto che il personaggio della formazione sia il precipitato di imago genitoriali introiettate, il formatore italiano dell’area psy finisce spesso col disporsi sul piano formativo in maniera del tutto specifica, frutto della storia della professione in Italia, oltre che di quella personale di ogni singolo formatore.
Vediamo innanzitutto questo secondo aspetto del problema: è noto che in Italia la professione di psicologo non nasce da una dialettica e da uno scambio fra luoghi della formazione e luoghi in cui i primi psicologi si sono spesi sul piano della formazione. Ciò ha contribuito a definire un mondo della professione impregnato di quel clima kohutiano di cui parlavamo in un nostro precedente intervento, ed un mondo dell’accademia che fin dall’inizio è rimasto ostentatamente distaccato da quello della professione, modellandosi autisticamente su se stesso e cioè sul sistema teoreticista che impregna di sé la maggior parte delle facoltà italiane. Per rendersi conto di quanto ciò sia vero anche sul piano formativo basta guardare, da una parte, a come è stato pensato dall’accademia il percorso di tirocinio post lauream; dall’altra ai percorsi formativi di noi primi psicologi tutti incentrati sui modelli psichiatrici, nel caso in cui sono prevalse in noi le tendenze alla traslazione idealizzante nei confronti delle professioni limitrofe, o sulla esaltazione ecolalica e fraudolenta di sé, nel caso in cui sono prevalse le tendenze al sé grandioso.
Ritornando ora a Kaës va detto innanzitutto che la sua, più che la descrizione di una galleria dei personaggi della formazione, è una bozza molto allusiva, e perciò a nostro avviso molto efficace, a quelli che a suo avviso sono i tre alvei in cui vanno a concrezionarsi i personaggi della formazione presenti in ciascuno di noi: quello narcisista, quello materno e quello incentrato sulla esigenza di controllo. Da parte nostra ne abbiamo aggiunto un altro: quello paterno. Cercheremo ora dapprima di descrivere brevemente il loro profilo per poi vedere quali sono a nostro avviso gli elementi di criticità che, a partire da ciascuno di essi, è possibile ritrovare sulla scena della formazione della clinica italiana psy di oggi.
a – Il primo tipo di personaggio della formazione è quello che Käes definisce come fantasma narcisista. In questo caso la spinta alla formazione è data, secondo Käes, da un desiderio che, più che di tipo formativo, potremmo definire di tipo con-formativo. Un desiderio cioè di modulare l'oggetto libidicamente investito secondo l’immagine di sé che il formatore ha. Immagine che – potremmo dire – si impone al formatore e gli impone di conformare il discente a sé.
In questo moto ambivalente, qualora l'oggetto investito (il discente) si sottragga alla spinta con-formativa, le angosce che emergono nel formatore sono quelle tipiche che si riscontrano in tutti gli scenari narcisistici: la paura della differenza, dell'alterità, la paura della storia, cioè del fatto che le cose abbiano uno sviluppo temporale che evidenzia prima o poi la marginalità del formatore, la paura della scoperta della relatività della propria potenza, etc. Quando nel formatore predomina questo tipo di personaggio sulla scena formativa non si genera niente di nuovo, o meglio si genera una entità scarsamente differenziata dal formatore stesso: la sua copia conforme[3].
Come non riconoscere in ambito psy la presenza di simili fantasmi formativi, da una parte come dicevamo prima nel teoreticismo dell’accademia, dall’altra nella tendenza delle scuole di fidelizzare a sé i propri allievi, di aggregarli all’interno di un cursus honorum tutto autocentrato e mirante a solidificare il loro stato di dipendenza, più che esortarli a crescere e ad andare per la propria strada, o – ancora peggio – nella propensione autogenerativa ed autoreferenziale? Come non riconoscere nell’elogio esagerato per il maestro la scarsa propensione alla differenziazione e al riconoscimento del raggiungimento dell’autonomia e della individuazione?
b – Vi può essere però un formatore che prende un rapporto con i discenti simile a quello di una madre con il proprio bambino. Il formatore in questo caso diventa, come dice Käes, o seno che contiene e che nutre, o bocca che bacia, o mano che carezza, o sguardo in cui riflettersi, o voce che ammalia, o luce che rischiara, oppure (invece di questi oggetti parziali di tipo materno) madre, con tutte le accezioni che, su base culturale e personale, è possibile fare convergere su questo termine. In questo caso possiamo dire che la scena formativa si svolge sotto l'influenza di un fantasma materno, di un personaggio materno, che, come abbiamo visto, può essere un oggetto parziale introiettato o un oggetto unificato nelle vesti della "grande formatrice".
Le angosce sottostanti quando prevale in noi questo secondo tipo di fantasma sono: il fatto che l'altro (il discente) cresce e se ne va, che abbandona la grande formatrice, la quale perciò mette in atto tutta una serie di "trucchi" per negare questa separazione. Vi è in questi formatori, afferma Käes, una sorta di "fantasma del pellicano": il loro "becco sempre pieno di cibo", come quello di un pellicano, fa nascere in loro un desiderio di nutrimento permanente che preserva dai rischi di usura, di prosciugamento che ha in sé ogni seno che nutre.
E' questo, afferma sempre Käes, il terreno in cui nasce la formazione invidiosa: il formatore in questo caso diventa come una madre che non dà per timore di essere svuotata, il che solleva nell'allievo fantasie che il cibo di cui il formatore è pieno vada a qualcun altro più bravo o più meritevole; il formatore, a sua volta può alimentare simili fantasie svilendo i propri discenti (classico in proposito è il confronto con mitiche classi precedenti: loro, si, degne del cibo che dal docente proviene), etc.-
Altra angoscia che assale il docente così strutturato è quella di esser "fatto a brani" dai suoi discenti. La scena formativa in questo caso, si presenta così: da una parte cioè ci sono le tendenze epistemofiliche, cioè le spinte alla conoscenza presenti nei discenti che implicano il desiderio di penetrare l'altro, di "fare a brani" il docente, per conoscerlo, per impossessarsi del suo sapere[4]; dall'altra parte il formatore che deve sopportare il fatto di lasciarsi "spezzare", di lasciarsi "fare a brani", etc.: Cosa che non da tutte le grandi madri (che, beninteso, possono essere anche di sesso maschile), e non per tutta la durata del proprio insegnamento può essere sopportato senza danno, senza disease.
Anche in questo caso molte sono le allusioni alla nostra storia formativa presente e passata: – tutto il percorso della società italiana di psicoanalisi, ad es., con i vari e artificiosi impedimenti all’accesso alla didattica può essere visto come un esempio di formazione invidiosa; – la disseminazione per ogni dove di percorsi formativi con docenti abitati “dal fantasma del pellicano”, oltre che indizio di scarsa serietà e di onnipotenza (il formatore che, come dio, è in cielo in terra e in ogni luogo), ora ci appare anche come un indizio di una presenza in essi di un desiderio di nutrimento permanente che allude ad angosce di prosciugamento che, paradossalmente, proprio nell’usura prodotta dalla iterazione ad libitum del loro sapere, trovano il suo più vero fondamento. Infine quale supervisore non ha trovato, prima o poi, la sensazione che nell’iterazione della supervisione nel tempo e nello spazio ci sia il rischio di essere fatto a brani dai suoi allievi, di essere ridotto a pasto totemico da parte della generazione che cresce e che si nutre famelicamente con le nostre carni.
c – Può accadere che nel formatore prevalga un desiderio di formare tutto incentrato sull'istanza che controlla, che in lui, cioè, alberghi un vero e proprio personaggio che controlla: il discente in questo caso deve crescere così come il docente lo ha predisposto. Cosicché mentre nel caso in cui nel formatore prevalga un personaggio narcisista il fatto più importante è che il "prodotto finito" sia conforme al desiderio del formatore, nel caso in cui al suo interno prevalga il personaggio che controlla, ciò che al formatore interessa è il conformarsi del discente alle procedure formative, ai protocolli e alle modalità da lui predisposte, e secondo le quali, a suo avviso, si deve imparare. E’ ciò che accade nel "Pigmalione" di G.B. Shaw nel rapporto fra Elisa ed Higgins. Le angosce sottostanti quando prevale questo tipo di desiderio di formare sono: che l'altro (il discente) non sia conforme al modo con cui viene predisposto, che emerga come mostro (proprio come avviene in Frankenstein), che l'altro infine non sia disposto a lasciarsi "sadizzare" dal docente. Abbiamo già accennato alla riflessione sulla posizione “masochista” del discente che, come afferma la Dolto, sembra dire sempre al proprio docente "fammi qualcosa sul mio corpo": pensiamo sia ora più chiaro ciò che vuol dire la psicoanalista francese con queste parole.
Nel nostro caso, assistiamo allo iato fra accademia e professione, fra Università e Servizi in cui, come dice la Manoukian Olivetti:
“realizzare comunicazioni fra Università e Servizi richiede di connettere posizioni dissimetriche attraverso processi organizzativi continuamente esposti a instabilità e fragilità. Il ponte fra due sponde che hanno altezze e conformazioni molto diverse è costruzione molto ardita! Credo che vi sia il rischi oche il disegno resti solo sulla carta, oppure che nelle attività di tirocinio e di tutorato, che ci si propone di organizzare in modo innovativo, si ripetano le modalità iscritte nel funzionamento dell’istituzione socialmente più forte, a cui si finisce con l’aderire, per potere mantenere comunque i collegamenti”[5]
Ciò significa che tutto ciò che rientra nel meccanismo teoreticista dell’accademia esiste; ciò che invece non può essere apparentato ad esso semplicemente non esiste e non può essere valutato. Esattamente come succedeva a Von Braun che al liceo era invitato dal suo prof di matematica ad uscire dall’aula perché nel risolvere i problemi usava delle procedure diverse da quelle del prof e per\ciò risultava ai suoi occhi insopportabile.
Tutto ciò significa che il nuovo non solo dall’accademia, ma anche dal nostro ordine e dai più codini ed ossessivi fra noi venga visto come possibile terreno di crescita di ciò che ai loro occhi appare mostruoso solo perché al di fuori dei protocolli e delle procedure consolidate nel tempo, in base alle istanze interpretative spesso obsolete della vecchia comunità interpretante. Tutto ciò spiega come, nel momento di valutare la qualità dei servizi erogati dallo psicologo clinico, più che i controlli di qualità e di efficacia esterna vengano ossessivamente istituite procedure di accertamento basate su verifiche di efficacia interna, che meglio sarebbe definire di mera efficienza.
d – . Questi, per sommi capi, i tre alvei di Käes. Ma, a nostro avviso, c’è almeno un altro grande alveo abitato da un personaggio della formazione di tipo paterno, i cui contorni potrebbero essere definiti così: si tratta di un fantasma paterno che dispensa il proprio sapere come questo fosse un seme capace di fecondare i suoi discenti; ed allora le angosce sottostanti saranno quelle che il seme vada disperso, che il "pene" ingravidante non sia sufficientemente in grado di fecondare, etc.
Ed anche in questo caso, venendo a noi, non c’è chi non veda come, ad es., preoccupazioni ed angosce di questo tipo siano riscontrabili in quei formatori psicologi che rifiutano di prendere atto dei limiti della nostra formazione rispetto al mercato, dei limiti del loro sapere rispetto alla psicologia e alla clinica, dei limiti della potenza curativa dei propri approcci nei confronti della pluralità delle patologie e dei bisogni di cura dei pazienti.
È chiaro che in ciascuno di questi alvei poi a livello personale si sedimenta un insieme di possibili combinazioni, anche con le altre parti interne dello psicologo e dello psicoterapeuta, che rendono praticamente infinite le possibilità di “gioco” che questi personaggi della formazione hanno nel mondo interno di ciascuno di noi: cosicché può accadere che il personaggio interno del formatore possa essere più o meno severo, più o meno esigente, etc. Insomma le indicazioni di Käes vanno prese non come un catalogo in sé compiuto, ma come uno spunto, un suggerimento di lettura del mondo interno del formatore.
3. Le declinazioni possibili: formare, de\formare, in\formare, con\formare, ri\formare, distruggere, in psicologia clinica e in psicoterapia
L’area della formazione all’interno del lungo iter dello psicologo clinico e dello psicoterapeuta ha un posto di tutto rispetto. Più volte abbiamo ascoltato e ci siamo detti, ad es., che non c’è possibilità di crescere e di rimanere nell’ambito della psicoterapia senza una buona formazione iniziale e senza una formazione continua, una supervisione del nostro lavoro da parte di colleghi più anziani e preparati. Ciò a nostro avviso dovrebbe valere per tutto l’ambito della clinica psicologica e ci pare un segno di superficialità intollerabile il fatto che non esista in Italia alcun luogo preposto alla formazione teorico-pratica dello psicologo clinico.
D’altro canto l’area della formazione, come abbiamo visto, è in generale un luogo in cui la asimmetria di saperi e di poteri fra docente e discente spinge agli abusi ed alle distorsioni più varie.
Ciò vale ancora di più nell’ambito della psicologia clinica poiché l’assenza di statuti sufficientemente condivisi sul piano teoretico, e l’apprendimento in luoghi “intimi” quali il tirocinio spingono da una parte i docenti ad accentuare l’asimmetria abusando del loro sapere e del loro potere (vedi i tutor che spingono i loro tirocinanti a fare da segretari o da sguatteri), dall’altra i discenti a conformarsi, a confluire in percorsi spesso inautentici, oppure a definire autarchicamente una specie di passe in base alla quale, a un certo punto, stanchi di angherie e di spese ma impreparati e arruffoni, decidono che il loro processo formativo è terminato e, magari, passano dalla discenza alla docenza (vedi la facilità con cui gli ordini regionali tendono ad abbassare gli anni in base ai quali si può diventare tutor!).
Abbiamo visto che distruzione e de\formazione sono strette parenti della formazione e che tutto dipende dai fantasmi formativi che ci abitano e da come queste nostre parti interne si dispongono non tanto e non solo di fronte all’insuccesso, che anzi spesso tende ad essere sottoposto da esse a forme di difesa basate sul diniego, ma anche e soprattutto di fronte a ciò che i progressi del discente rappresentano per esse.
Lo stesso ragionamento pensiamo si possa fare in generale per ogni luogo formativo, ma non può non farci pensare ciò che per noi significa la mancanza di autoconsapevolezza di ciò che avviene sulla nostra scena formativa di psicologi e di psicoterapeuti, le tendenze distruttive ed autodistruttive evidenti nel nostro processo formativo e la nostra connivenza e complicità nel mantenere in piedi e promuovere come luoghi di crescita istanze di tipo formativo in cui imperano non solo sadismo e masochismo, ma una pluralità di tentazioni e di azioni di tipo perverso e psicotico.
Il tutto inizia con l’apertura indiscriminata dei percorsi di laurea e con la moltiplicazione autoreferenziale dei corsi, che addirittura per qualche anno è consistita nella masochistica chiusura dei corsi quinquennali e riduzione dell’insegnamento alla laurea breve. Il che denota non solo la lontananza dell’accademia dalla professione, la sua prosopopea – come dice la Manoukian Olivetti -, ma anche il disprezzo dei nostri formatori di base per il mercato e per l’avvenire dei giovani. Un percorso così approntato è frutto a nostro avviso di una enorme manipolazione perpetrata sulle spalle dei giovani e risulta funzionale solo agli interessi dell’accademia stessa.
Si continua con una differenziazione nel biennio finale che in effetti non lo è, e non contribuisce certo a parametrare, dare un senso del limite alla formazione erogata ai giovani, che peraltro vivono ancora in compagnia dei loro 'personaggi eroici' senza un reale confronto con la pratica lavorativa, unico parametro certo in base al quale potere ri\dimensionarsi ed accettare il senso del limite. Anzi: si dispone il tirocinio alla fine del percorso di laurea, dopo la laurea e senza un serio confronto in sede di esame di stato sul senso dell’esperienza fatta. Il che, come dice la Manoukian, significa che l’unico sapere apprezzato è il teoreticismo dell’istituzione più forte (in questo modo l’università e la scuola diventano un mostro che si morde la coda, che cioè è in grado di individuare solo coloro che sono in grado di perpetuare la vocazione teoreticista di queste istituzioni).
Il fatto che praticamente tutti, dopo appena uno o due anni di iscrizione all’albo degli psicologi, possano fare i tutor e che non ci si prenda cura di formare attentamente queste figure importantissime sul piano della trasmissione del sapere pratico, destinate sulla carta a perpetuare questo sapere attraverso l’esempio ed il precettorato, dimostra forse in maniera esemplarmente negativa la presenza di istanze di tipo de\formativo e distruttivo sia nell’accademia che nell’Ordine.
L’iterazione sul piano della specializzazione post lauream in psicoterapia di tutte le pecche di cui abbiamo parlato a proposito dell’università sul rapporto fra teoria e prassi, il fatto che queste scuole spesso non abbiano propri tutor e si affianchino a tutor forniti delle istituzioni deboli (Manoukian), spesso per nulla coerenti sul piano scientifico con gli indirizzi delle singole scuole, significa che anche in questo caso, come in quello dei tirocini post lauream, il vero significato del percorso è duplicemente manipolatorio e deformativo: – per le scuole che – come avviene per le università – senza alcun rapporto con i reali spazi di tipo occupativo – da questa vera e propria vendita delle indulgenze ottengono le risorse per sopravvivere; per le istituzioni che in questo modo ottengono manodopera gratuita: manodopera che anzi, in alcune circostanze, si vede costretta a pagare per poter svolgere il proprio lavoro, senza alcuna contropartita sul piano del tutoring[6].
In più, nel caso delle scuole di specializzazione in psicoterapia, il criterio usato dal MIUR per consentire il rilascio o meno di titoli ufficiali è risultato a maglie troppo larghe: anche qui hanno prevalso criteri basati sulla manipolazione che alla lunga noi temiamo risultino distruttivi per la professione, poiché fondano il processo formativo su un falso percorso, che avviene in sedi spesso non qualificate che finiscono col compromettere il buon nome anche di quei luoghi decenti o eccellenti, già penalizzati dal MIUR nel momento in cui – almeno all’inizio – è stato imposto alle scuole che ambivano ad essere riconosciute un piano didattico centrato ancora una volta sulle esigenze (occupazionali) della istituzione più forte.
La rinuncia poi in questo momento a compiere indagini di mercato volte ad evidenziare il bisogno attuale e futuro di psicologia in Italia implica una rinuncia ad ulteriori specializzazioni che sfebbrerebbero la clinica psicologica, e spingerebbero i giovani neo-psicologi a differenziarsi lungo quest’ultimo percorso obbligatorio, a qualificarsi e a competere o concorrere insieme alle professioni limitrofe (es. psicologo del lavoro e ingegnere gestionale) per un ingresso ottimale nel mercato del lavoro.
Cosa può fare il giovane neofita della professione di fronte a queste storture? È molto probabile che, come avviene in ogni luogo della perversione, l’altro risulti assente e ridotto al ruolo di complice che, sulla scena della deformazione, della conformazione, della deformazione etc. è chiamato a colludere.
Sappiamo – ce lo ha insegnato Masud Khan – che la collusione allude alla presenza di un complice che nella testa del perverso esiste solo in quanto parte della propria messa in scena. È trasportabile tutto ciò nel luogo sociale della formazione degli psicologi clinici e degli psicoterapeuti italiani? Noi pensiamo di si, e questo contributo va nel senso di mettere in parola il nostro disappunto per il permanere di una situazione di questo genere, così come la nostra speranza è che alla fine la scena sadomaso sia infranta, che la storia perversa si concluda attraverso il defilarsi dei giovani ed il loro rifiuto a piegarsi ancora nella posizione di complici.
post scriptum: l’insieme di slide che accludiamo a questo nostro scritto riassumono l’intervento alla presentazione del testo Inter-nos presso l’Ordine degli psicologi della Toscana (nel frattempo le scuole di specializzazione in psicoterapia italiane accreditate dal Miur hanno raggiunto la 'ragguardevole' cifra di 350)
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