ALAIN BADIOU. OLTRE IL DIRE
di Franco Lolli, doppiozero.com, 3 gennaio 2017
Nel corso dell’anno accademico 1994-1995, Alain Badiou dedicò il suo seminario allo studio dell’opera di Jacques Lacan, definito dallo stesso Badiou un ‘compagno essenziale’: di quel seminario, pubblicato in Francia nel 2013, è finalmente uscita la traduzione italiana, (A. Badiou, Lacan. Il seminario. L’antifilosofia) grazie al pregevole progetto editoriale della casa editrice Orthotes e all’accurata e rigorosa traduzione del filosofo Luigi Francesco Clemente. Come noto, questo seminario si inscrive in una più ampia operazione speculativa che vide il filosofo francese impegnato a misurarsi con le posizioni teoriche di quattro grandi pensatori – Nietzsche, Wittgenstein, San Paolo e, per l’appunto, Lacan – accomunati dalla medesima passione “antifilosofica”. La presenza di Lacan in questo elenco è giustificata da Badiou in virtù dello sforzo dello psicoanalista parigino nel promuovere un ritorno a Freud emancipato dalla deriva ermeneutica che qualificava (e, tuttora, qualifica) gran parte dell’arcipelago psicoanalitico postfreudiano, rivitalizzato, al contrario, dall’introduzione di una nuova categoria concettuale: il reale.
Questa è stata, in effetti, la vera ‘invenzione’ di Lacan, la sua autentica innovazione, il contributo più importante allo sviluppo della teoria psicoanalitica: la sistematizzazione teorica di una dimensione dell’esistenza umana che la cura psicoanalitica mette in evidenza in maniera inequivocabile, come insistenza, ostinazione, inerzia di un nocciolo di esperienza non simbolizzabile, non elaborabile, né conoscibile né inconoscibile, resistente alle lusinghe dell’interpretazione e al potere della parola. Ed è intorno a questo concetto che Badiou fa ruotare il suo intero insegnamento annuale, ponendo al centro della sua riflessione la grande questione dell’atto analitico, questione, a ragione, considerata come l’inequivocabile segnale del carattere antifilosofico del lavoro di Lacan. Laddove l’atto filosofico, infatti, è l’atto – sostiene Badiou – attraverso il quale il filosofo ‘si appaga’, raggiunge la beatitudine garantita da un guadagno di sapere, da un surplus di conoscenza, dalla ricerca di una verità che sembra finalmente rivelarsi, l’atto analitico è l’atto che il soggetto compie quando ‘non c’è che la possibilità di scelta’, l’atto al quale il soggetto è condotto per smarcarsi dalla propria (nevrotica) impotenza e assumere la condizione di impossibilità alla quale l’umano è strutturalmente condannato (elevazione dell’impotenza a impossibile che, secondo Badiou, dovrebbe contraddistinguere la filosofia in generale), l’atto che pone il soggetto di fronte all’orrore dell’assoluta assenza di garanzia.
Segue qui:
http://www.doppiozero.com/materiali/badiou
Nel corso dell’anno accademico 1994-1995, Alain Badiou dedicò il suo seminario allo studio dell’opera di Jacques Lacan, definito dallo stesso Badiou un ‘compagno essenziale’: di quel seminario, pubblicato in Francia nel 2013, è finalmente uscita la traduzione italiana, (A. Badiou, Lacan. Il seminario. L’antifilosofia) grazie al pregevole progetto editoriale della casa editrice Orthotes e all’accurata e rigorosa traduzione del filosofo Luigi Francesco Clemente. Come noto, questo seminario si inscrive in una più ampia operazione speculativa che vide il filosofo francese impegnato a misurarsi con le posizioni teoriche di quattro grandi pensatori – Nietzsche, Wittgenstein, San Paolo e, per l’appunto, Lacan – accomunati dalla medesima passione “antifilosofica”. La presenza di Lacan in questo elenco è giustificata da Badiou in virtù dello sforzo dello psicoanalista parigino nel promuovere un ritorno a Freud emancipato dalla deriva ermeneutica che qualificava (e, tuttora, qualifica) gran parte dell’arcipelago psicoanalitico postfreudiano, rivitalizzato, al contrario, dall’introduzione di una nuova categoria concettuale: il reale.
Questa è stata, in effetti, la vera ‘invenzione’ di Lacan, la sua autentica innovazione, il contributo più importante allo sviluppo della teoria psicoanalitica: la sistematizzazione teorica di una dimensione dell’esistenza umana che la cura psicoanalitica mette in evidenza in maniera inequivocabile, come insistenza, ostinazione, inerzia di un nocciolo di esperienza non simbolizzabile, non elaborabile, né conoscibile né inconoscibile, resistente alle lusinghe dell’interpretazione e al potere della parola. Ed è intorno a questo concetto che Badiou fa ruotare il suo intero insegnamento annuale, ponendo al centro della sua riflessione la grande questione dell’atto analitico, questione, a ragione, considerata come l’inequivocabile segnale del carattere antifilosofico del lavoro di Lacan. Laddove l’atto filosofico, infatti, è l’atto – sostiene Badiou – attraverso il quale il filosofo ‘si appaga’, raggiunge la beatitudine garantita da un guadagno di sapere, da un surplus di conoscenza, dalla ricerca di una verità che sembra finalmente rivelarsi, l’atto analitico è l’atto che il soggetto compie quando ‘non c’è che la possibilità di scelta’, l’atto al quale il soggetto è condotto per smarcarsi dalla propria (nevrotica) impotenza e assumere la condizione di impossibilità alla quale l’umano è strutturalmente condannato (elevazione dell’impotenza a impossibile che, secondo Badiou, dovrebbe contraddistinguere la filosofia in generale), l’atto che pone il soggetto di fronte all’orrore dell’assoluta assenza di garanzia.
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DONALD IL RUSSO. Gli americani insoddisfatti sono già pronti a divorare Trump, che medita su come difendersi
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 4 gennaio 2017
Il lettino psicoanalitico traballa, il nuovo anno si apre all’insegna della breaking news: dopo Barack Obama, il primo presidente americano eletto dagli africani, ecco Donald Trump, il primo presidente americano eletto dai russi. Metà americani ci credono e un’altra metà, composta di repubblicani, si sforza di non crederci. “Fuck it, abbiamo sputtanato quel coglioncello per otto anni dandogli del negro e adesso per presidente ci tocca il biondo Donald killer di “Dalla Russia con Amore”, ferocissimo prima che James Bond gli tiri il collo. Accidenti, il nostro presidente è della Spectre, russo ben che vada, e dobbiamo cuccarcelo se vogliamo evitare una figuraccia… peraltro inevitabile. Che fare? Finta di niente e lo difendiamo, o facciamo i repubblicani con le palle e mandiamo Trump a quel paese, la Russia, che forse è il modo di mandarci anche Obama all’altro paese, il Burundi, e la prossima volta cerchiamo di votare uno senza macchia nera o rossa, uno tosto, sicuro di sé, uno che… insomma chi? Uno immune da ogni sospetto, damn it!”. Sì, ma intanto il sospetto già sta correndo ovunque, la paranoia viaggia sui fili degli integri puritani che da un po’ di tempo hanno preso il vizio di sbirciarsi l’un l’altro: se Trump è affiliato alla Spectre, lo è magari anche il vicino di casa, “e forse un po’ anch’io”, dubita lo sceriffo di Falcon Village, “forse anch’io ho una personalità segreta che agisce a mia insaputa”. Nella sua tomba tappezzata da molteplici facce colorate di Dalton Trumbo, ghigna McCarthy.
Trump, come si difenderà da se stesso e dai suoi amici nemici? Che dovrà fare per mostrare che non è russo né spettrale, che non è il primo presidente americano eletto dai russi? Che ridere questi americani che, in particolare dopo il trionfo dei gay, passano il tempo a chiedersi se sono loro o un altro, e guardano perplessi le facce della gente, prefigurando futuri presidenti americani eletti dalla Cina e dall’Islanda. Intanto la frittata è fatta: tutti al cinema, stavolta all’Invasione dell’ultracorpo Donald, colui che, in cuor suo, pur essendo nato e vissuto americano, per antropologiche misteriose vie sa di essere un inviato russo, tanto più che a testimoniarlo c’è Rex, non il cane poliziotto ma quasi, il russissimo Tillerson, l’uomo che ha diretto le operazioni moscovizzando, e qualcos’altro ancora, Trump. A questo punto cosa scegliere, il partito o la patria?
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2017/01/04/news/donald-trump-america-russia-113537/
Il lettino psicoanalitico traballa, il nuovo anno si apre all’insegna della breaking news: dopo Barack Obama, il primo presidente americano eletto dagli africani, ecco Donald Trump, il primo presidente americano eletto dai russi. Metà americani ci credono e un’altra metà, composta di repubblicani, si sforza di non crederci. “Fuck it, abbiamo sputtanato quel coglioncello per otto anni dandogli del negro e adesso per presidente ci tocca il biondo Donald killer di “Dalla Russia con Amore”, ferocissimo prima che James Bond gli tiri il collo. Accidenti, il nostro presidente è della Spectre, russo ben che vada, e dobbiamo cuccarcelo se vogliamo evitare una figuraccia… peraltro inevitabile. Che fare? Finta di niente e lo difendiamo, o facciamo i repubblicani con le palle e mandiamo Trump a quel paese, la Russia, che forse è il modo di mandarci anche Obama all’altro paese, il Burundi, e la prossima volta cerchiamo di votare uno senza macchia nera o rossa, uno tosto, sicuro di sé, uno che… insomma chi? Uno immune da ogni sospetto, damn it!”. Sì, ma intanto il sospetto già sta correndo ovunque, la paranoia viaggia sui fili degli integri puritani che da un po’ di tempo hanno preso il vizio di sbirciarsi l’un l’altro: se Trump è affiliato alla Spectre, lo è magari anche il vicino di casa, “e forse un po’ anch’io”, dubita lo sceriffo di Falcon Village, “forse anch’io ho una personalità segreta che agisce a mia insaputa”. Nella sua tomba tappezzata da molteplici facce colorate di Dalton Trumbo, ghigna McCarthy.
Trump, come si difenderà da se stesso e dai suoi amici nemici? Che dovrà fare per mostrare che non è russo né spettrale, che non è il primo presidente americano eletto dai russi? Che ridere questi americani che, in particolare dopo il trionfo dei gay, passano il tempo a chiedersi se sono loro o un altro, e guardano perplessi le facce della gente, prefigurando futuri presidenti americani eletti dalla Cina e dall’Islanda. Intanto la frittata è fatta: tutti al cinema, stavolta all’Invasione dell’ultracorpo Donald, colui che, in cuor suo, pur essendo nato e vissuto americano, per antropologiche misteriose vie sa di essere un inviato russo, tanto più che a testimoniarlo c’è Rex, non il cane poliziotto ma quasi, il russissimo Tillerson, l’uomo che ha diretto le operazioni moscovizzando, e qualcos’altro ancora, Trump. A questo punto cosa scegliere, il partito o la patria?
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LUIGI ZOJA: FINE DEL PATRIARCATO, L’UOMO TORNA CENTAURO?
di Simonetta Robiony, articolo21.it, 5 gennaio 2017
È possibile paragonare il maschio della nostra società occidentale a un centauro, fantastico animale della mitologia greca, mezzo uomo e mezzo cavallo? Se lo è chiesto, qualche anno fa, nel suo libro “Centauri: mito e violenza maschile”, appena ripubblicato in edizione ampliata da Bollati Boringhieri, il professor Luigi Zoja, psicoanalista junghiano, studioso del comportamento umano dei giorni nostri alla luce di antichi miti, autore di ricerche sulle dipendenze, sulla assenza del padre, sul consumismo sfrenato, sulla politica, sulla comunicazione. Secondo Zoja la violenza è il cono d’ombra della identità maschile perché per l’uomo conciliare biologia e cultura è più difficile di quanto lo sia per la donna. La personalità maschile è scissa: da un lato c’è l’animale fecondatore, figlio della natura, dall’altro il padre protettore, figlio della civiltà.
Professor Zoja, oggi si parla molto della violenza degli uomini contro le donne, specie se mogli, fidanzate, amanti, donne che dovrebbero essere oggetto di tutela e affetto e invece sono umiliate, percosse, perfino uccise: è un fenomeno in crescita oppure no?
Sono appena tornato da un giro di incontri in America Latina dove, come da noi, si parla molto di femminicidio, parola che proprio dal Messico è arrivata in Italia. Certo, è un tema d’attualità, ma nessuno sa se lo è perché, solo in questi ultimi tempi, si sono raccolti dati statistici su questo fenomeno, oppure perché l’autonomia raggiunta dalla gran parte delle donne ha scatenato negli uomini una nuova ondata di violenza. Se i dati fossero solo la conseguenza di una maggiore propensione alla denuncia da parte delle donne sarebbe una buona notizia, ma, purtroppo, non possiamo affermarlo.
Lei, però, nel suo libro fa una ipotesi…
Partiamo dalla premessa che nell’essere umano c’è tutto: razionalità e istinto, piano fisico e piano psicologico, natura e cultura. La mia idea è che il tramonto del patriarcato, che pure era necessario per i troppi abusi compiuti in suo nome, non è stato sufficiente a riequilibrare il rapporto tra l’uomo e la donna. Già da molto tempo analizzo e studio gli effetti della scomparsa della figura paterna nella nostra società ed è da questa “sparizione” che sono arrivato a esaminare la questione della violenza. Bene, il patriarcato se n’è andato e non tornerà più. Le donne sono più libere di agire e pensare, ma la società è rimasta fondata sulla centralità del maschio. Il maschio, però, senza più poter essere un padre ideale come nei secoli ha dettato la nostra civilizzazione, chi deve educare, chi deve proteggere, chi deve più tutelare se tutto ciò è diventato superfluo? Abbiamo buttato via tutti gli aspetti del paterno, anche quelli positivi e adesso ne vediamo le conseguenze. La violenza contro le donne, che è antica e primordiale, si è riaffacciata con prepotenza. È la mia ipotesi. Ma c’è anche altro.
http://www.articolo21.org/2017/01/luigi-zoja-fine-del-patriarcato-luomo-torna-centauro/
È possibile paragonare il maschio della nostra società occidentale a un centauro, fantastico animale della mitologia greca, mezzo uomo e mezzo cavallo? Se lo è chiesto, qualche anno fa, nel suo libro “Centauri: mito e violenza maschile”, appena ripubblicato in edizione ampliata da Bollati Boringhieri, il professor Luigi Zoja, psicoanalista junghiano, studioso del comportamento umano dei giorni nostri alla luce di antichi miti, autore di ricerche sulle dipendenze, sulla assenza del padre, sul consumismo sfrenato, sulla politica, sulla comunicazione. Secondo Zoja la violenza è il cono d’ombra della identità maschile perché per l’uomo conciliare biologia e cultura è più difficile di quanto lo sia per la donna. La personalità maschile è scissa: da un lato c’è l’animale fecondatore, figlio della natura, dall’altro il padre protettore, figlio della civiltà.
Professor Zoja, oggi si parla molto della violenza degli uomini contro le donne, specie se mogli, fidanzate, amanti, donne che dovrebbero essere oggetto di tutela e affetto e invece sono umiliate, percosse, perfino uccise: è un fenomeno in crescita oppure no?
Sono appena tornato da un giro di incontri in America Latina dove, come da noi, si parla molto di femminicidio, parola che proprio dal Messico è arrivata in Italia. Certo, è un tema d’attualità, ma nessuno sa se lo è perché, solo in questi ultimi tempi, si sono raccolti dati statistici su questo fenomeno, oppure perché l’autonomia raggiunta dalla gran parte delle donne ha scatenato negli uomini una nuova ondata di violenza. Se i dati fossero solo la conseguenza di una maggiore propensione alla denuncia da parte delle donne sarebbe una buona notizia, ma, purtroppo, non possiamo affermarlo.
Lei, però, nel suo libro fa una ipotesi…
Partiamo dalla premessa che nell’essere umano c’è tutto: razionalità e istinto, piano fisico e piano psicologico, natura e cultura. La mia idea è che il tramonto del patriarcato, che pure era necessario per i troppi abusi compiuti in suo nome, non è stato sufficiente a riequilibrare il rapporto tra l’uomo e la donna. Già da molto tempo analizzo e studio gli effetti della scomparsa della figura paterna nella nostra società ed è da questa “sparizione” che sono arrivato a esaminare la questione della violenza. Bene, il patriarcato se n’è andato e non tornerà più. Le donne sono più libere di agire e pensare, ma la società è rimasta fondata sulla centralità del maschio. Il maschio, però, senza più poter essere un padre ideale come nei secoli ha dettato la nostra civilizzazione, chi deve educare, chi deve proteggere, chi deve più tutelare se tutto ciò è diventato superfluo? Abbiamo buttato via tutti gli aspetti del paterno, anche quelli positivi e adesso ne vediamo le conseguenze. La violenza contro le donne, che è antica e primordiale, si è riaffacciata con prepotenza. È la mia ipotesi. Ma c’è anche altro.
http://www.articolo21.org/2017/01/luigi-zoja-fine-del-patriarcato-luomo-torna-centauro/
SE PER FERMARE IL MALE NON BASTA INTERPRETARE I SOGNI
di Domenico Bilotti, ilsussidiario.net, 7 gennaio 2017
L’interpretazione dei sogni è probabilmente il più noto volume di Sigmund Freud. L’opera apparve per la prima volta nel 1899 e dovrà attendere un cinquantennio per vedere luce anche in Italia. Sia chiaro: dal punto di vista metodologico, l’analisi di Freud ha davvero qualcosa di rivoluzionario. Non solo, grazie anche al successo delle tesi freudiane, la psicoanalisi da quel momento in poi verrà riguardata con maggiore rispetto e minori sospetti. Ciò non bastasse, il lavoro sulla formazione onirica rappresenta un guanto di sfida alla scienza contemporanea: la stessa scienza che aveva relegato il sogno nel limbo dell’ascientificità è ora costretta a prenderlo in carico, a farci i conti. Bisogna sapere distinguere, d’altra parte, i meriti del lavoro di Freud sul piano dei metodi e dei contenuti dalla fondatezza delle sue analisi: non necessariamente ciò che quando appare si dimostra valido e meditato regge all’usura del tempo e al contrasto di nuovi studi, sempre più tecnici e sempre meglio argomentati. In più, tra Freud e freudiani, per una singolare nemesi storica, sembra essersi instaurato lo stesso rapporto che c’è tra Marx e i marxisti. Un conto sono le idee e gli scritti dei pionieri, un conto è il dogmatismo spesso asfissiante dei loro seguaci. Le pretese di nuove metodologie scientifiche, tutte basate — in politica o in medicina — su istanze anticonvenzionali, antiborghesi, antiaccademiche… nello spazio di una generazione ecco che diventano in voga, diventano patrimonio comune degli accademici di mestiere che prima le respingevano. Le nozioni più genuine vengono manipolate, allo studio che si oppone al luogo comune si sostituisce uno studio che diventa esso stesso luogo comune.
Segue qui:
http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2017/1/7/LETTURE-Se-per-fermare-il-male-non-basta-interpretare-i-sogni/741262/
L’interpretazione dei sogni è probabilmente il più noto volume di Sigmund Freud. L’opera apparve per la prima volta nel 1899 e dovrà attendere un cinquantennio per vedere luce anche in Italia. Sia chiaro: dal punto di vista metodologico, l’analisi di Freud ha davvero qualcosa di rivoluzionario. Non solo, grazie anche al successo delle tesi freudiane, la psicoanalisi da quel momento in poi verrà riguardata con maggiore rispetto e minori sospetti. Ciò non bastasse, il lavoro sulla formazione onirica rappresenta un guanto di sfida alla scienza contemporanea: la stessa scienza che aveva relegato il sogno nel limbo dell’ascientificità è ora costretta a prenderlo in carico, a farci i conti. Bisogna sapere distinguere, d’altra parte, i meriti del lavoro di Freud sul piano dei metodi e dei contenuti dalla fondatezza delle sue analisi: non necessariamente ciò che quando appare si dimostra valido e meditato regge all’usura del tempo e al contrasto di nuovi studi, sempre più tecnici e sempre meglio argomentati. In più, tra Freud e freudiani, per una singolare nemesi storica, sembra essersi instaurato lo stesso rapporto che c’è tra Marx e i marxisti. Un conto sono le idee e gli scritti dei pionieri, un conto è il dogmatismo spesso asfissiante dei loro seguaci. Le pretese di nuove metodologie scientifiche, tutte basate — in politica o in medicina — su istanze anticonvenzionali, antiborghesi, antiaccademiche… nello spazio di una generazione ecco che diventano in voga, diventano patrimonio comune degli accademici di mestiere che prima le respingevano. Le nozioni più genuine vengono manipolate, allo studio che si oppone al luogo comune si sostituisce uno studio che diventa esso stesso luogo comune.
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2017, RESTARE SANI
di Sarantis Thanopulos, il manifesto, 7 gennaio 2017
Dal 2017 nessuno si aspetta grandi cose.
Il nostro pessimismo è, ragionevolmente, aumentato rispetto a un anno fa e, a giudicare da numerosi segnali, sono in arrivo guai seri.
Del processo patologico che ci investe è difficile distinguere le cause dai sintomi: l’iniquità mostruosa degli scambi, la concentrazione delle risorse e delle ricchezze nelle mani di oligarchi, la xenofobia galoppante diventata la fonte d’ispirazione dei movimenti (a)politici di successo, lo svuotamento dell’ordinamento democratico, laddove esiste, il connubio stabile tra lavoro precario e disoccupazione, la gioventù sempre più sfruttata e sempre più senza futuro, la ricerca scientifica umiliata come mezzo di conoscenza e ridotta a strumento di un potere tecnocratico tanto sofisticato quanto ottuso.
Quali che ne siano le cause e gli effetti, viviamo in un mondo psichicamente insano.
La sanità psichica consiste nell’essere “vivi”: capaci di sentire i propri desideri e emozioni in profondità e di godere della loro intensità e delle loro trasformazioni.
Nell’essere “svegli”: poter dormire per sognare, essere sufficientemente reattivi per distinguere tra giorno e notte. Infine, nello “stare bene”: in grado di vivere il piacere nella sua complessità e di provare dolore.
Non c’è bisogno di fini strumenti diagnostici per capire che queste tre qualità della sanità psichica versano in pessime condizioni.
Il rifiuto delle trasformazioni e della profondità dell’esperienza sono fenomeni di culto di massa. Per tenersi svegli si ricorre a eccitanti di ogni tipo che trasformano i sogni in allucinazioni. La mancanza, il lutto e il dolore sono vissuti da cui fuggire e il vivere anodino è diventato sinonimo del piacere..
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6582
Dal 2017 nessuno si aspetta grandi cose.
Il nostro pessimismo è, ragionevolmente, aumentato rispetto a un anno fa e, a giudicare da numerosi segnali, sono in arrivo guai seri.
Del processo patologico che ci investe è difficile distinguere le cause dai sintomi: l’iniquità mostruosa degli scambi, la concentrazione delle risorse e delle ricchezze nelle mani di oligarchi, la xenofobia galoppante diventata la fonte d’ispirazione dei movimenti (a)politici di successo, lo svuotamento dell’ordinamento democratico, laddove esiste, il connubio stabile tra lavoro precario e disoccupazione, la gioventù sempre più sfruttata e sempre più senza futuro, la ricerca scientifica umiliata come mezzo di conoscenza e ridotta a strumento di un potere tecnocratico tanto sofisticato quanto ottuso.
Quali che ne siano le cause e gli effetti, viviamo in un mondo psichicamente insano.
La sanità psichica consiste nell’essere “vivi”: capaci di sentire i propri desideri e emozioni in profondità e di godere della loro intensità e delle loro trasformazioni.
Nell’essere “svegli”: poter dormire per sognare, essere sufficientemente reattivi per distinguere tra giorno e notte. Infine, nello “stare bene”: in grado di vivere il piacere nella sua complessità e di provare dolore.
Non c’è bisogno di fini strumenti diagnostici per capire che queste tre qualità della sanità psichica versano in pessime condizioni.
Il rifiuto delle trasformazioni e della profondità dell’esperienza sono fenomeni di culto di massa. Per tenersi svegli si ricorre a eccitanti di ogni tipo che trasformano i sogni in allucinazioni. La mancanza, il lutto e il dolore sono vissuti da cui fuggire e il vivere anodino è diventato sinonimo del piacere..
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http://www.psychiatryonline.it/node/6582
DIECI ANNI DI SMARTPHONE. Dobbiamo chiederci quanta forza c’è dentro di noi per contenere lo strapotere di un oggetto a cui non possiamo più rinunciare
di Giuseppe Maiolo, ladigetto.it, 9 gennaio 2017
Sono dieci anni che lo smartphone è entrato nella nostra vita. Non è cambiato solo il nome del cellulare, il nuovo telefonino ha radicalmente influenzato la nostra esistenza. Una vera e propria rivoluzione della comunicazione globale e non unicamente del modo di telefonare, come pensava il suo inventore Steve Jobs. Anzi lo smartphone che ti fa fare di tutto e di più, ha ormai decisamente cambiato i rapporti tra le persone. Prolungamento digitale della nostro esistere in un mondo sempre più iperconnesso, lo smartphone ha modificato il modo di agire, muoverci, guardarci e trovarci.
Secondo alcuni sociologi siamo arrivati all’«homo smartphonensis» che torna a camminare curvo, perché impegnato a guardare continuamente il suo display, attratto dalle continue notifiche che gli segnalano messaggi, email e quant’altro. Quella posizione del corpo così comune oggi e che ricorda un po’ l’Homo sapiens che, ricurvo, stava faticosamente raggiungendo la postura eretta, potrebbe essere il completamento del cerchio nell’evoluzione di primati, oppure rappresentare una sorta di ritorno indietro, quanto meno a livello posturale. Allora: progressione o regressione? C’è da domandarsi che cosa ci ha portato quel piccolo e potente strumento, ormai feticcio nelle mani di tutti e che cosa ci offre quella connessione continua con il mondo a cui non possiamo più rinunciare. Domande aperte.
Segue qui:
http://www.ladigetto.it/permalink/61347.html
Sono dieci anni che lo smartphone è entrato nella nostra vita. Non è cambiato solo il nome del cellulare, il nuovo telefonino ha radicalmente influenzato la nostra esistenza. Una vera e propria rivoluzione della comunicazione globale e non unicamente del modo di telefonare, come pensava il suo inventore Steve Jobs. Anzi lo smartphone che ti fa fare di tutto e di più, ha ormai decisamente cambiato i rapporti tra le persone. Prolungamento digitale della nostro esistere in un mondo sempre più iperconnesso, lo smartphone ha modificato il modo di agire, muoverci, guardarci e trovarci.
Secondo alcuni sociologi siamo arrivati all’«homo smartphonensis» che torna a camminare curvo, perché impegnato a guardare continuamente il suo display, attratto dalle continue notifiche che gli segnalano messaggi, email e quant’altro. Quella posizione del corpo così comune oggi e che ricorda un po’ l’Homo sapiens che, ricurvo, stava faticosamente raggiungendo la postura eretta, potrebbe essere il completamento del cerchio nell’evoluzione di primati, oppure rappresentare una sorta di ritorno indietro, quanto meno a livello posturale. Allora: progressione o regressione? C’è da domandarsi che cosa ci ha portato quel piccolo e potente strumento, ormai feticcio nelle mani di tutti e che cosa ci offre quella connessione continua con il mondo a cui non possiamo più rinunciare. Domande aperte.
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QUANDO LA DONNA PERDONA IL CARNEFICE
di Maurizio Montanari, lettera43.it, 10 gennaio 2017
Il caso della ragazza di Messina che avrebbe ‘perdonato’ il suo carnefice introduce ad una delle frontiere più estreme e difficili della clinica. Allego il teso di un caso clinico, esposto al Congresso Europeo di psicoanalisi, che analizza casi come questo.
UN’ALTRA POSSIBILITA’
In Italia la violenza sulle donne costituisce un fenomeno crescente. Nel 2013, anno con maggior numero di vittime, sono stati 179 i casi di donne uccise. Il 68% di esse subisce violenza in famiglia. L’autore è nel 48% dei casi il marito, nel 12% il convivente nel 23% l’ex partner. Il mio centro di psicoanalisi applicata ha iniziato una collaborazione con la scuola Regionale di Polizia, a seguito di un seminario congiunto dedicato alla violenza intrafamiliare. In quest’occasione è emerso un dato che per le forze dell’ordine rappresenta un enigma capace di mandare in impasse i dispositivi di tutela previsti dalla legge per colei che subisce violenza. Nel 2% dei casi la donna abusata fisicamente che si rivolge a loro, sceglie di fare ritorno dal marito autore delle percosse e ritira la denuncia. Romy, 34 anni, rientra in quel 2%. Va alla polizia per denunciare il compagno che la picchia da tempo, presentandosi in caserma col viso tumefatto. Dopo aver descritto in dettaglio le percosse subite, firma la deposizione ma decide di fare ritorno a casa, contrariamente al consiglio di un agente che le suggeriva di trascorrere la notte da un parente. L’indomani gli agenti si recano da lei per accertare i fatti e diffidano il compagno dal continuare nelle vessazioni. Chiedono a Romy se voglia convalidare la denuncia rendendola penalmente valida. Con loro grande stupore, è lei stessa che li allontana, giungendo a scagliare contro l’auto di servizio oggetti e aggredendoli a male parole. Questo è uno di quei casi nei quali gli strumenti predisposti dalla legge italiana (allontanamento dell’uomo, domicilio protetto per la vittima) non funzionano: alcune donne, come Romy, vogliono dare al coniuge ‘un’altra possibilità’. ‘Abbiamo esagerato nella lite, ma io lo amo. Non portatelo in carcere’. Sono le parole dette ai poliziotti, che mi ripete in corso di seduta dopo che inizio a vederla, su sua richiesta, a seguito del consiglio di un agente che le suggerisce di parlare con uno psicoterapeuta. Romy accetta perché sa che io non sono organico alle forze dell’ordine, ma lavoro in un centro di psicoanalisi applicata. La sua iniziale richiesta è quella di aiutarla a ‘ricomporre la coppia’. Dunque Romy bussa al mio studio non per indagare le cause del suo disagio attuale, ma con l’apparente volontà di ricomporre quel legame che rischia di essere spezzato. Mi chiamo da subito fuori da ogni possibile posizione di collabò, affermando di non essere un terapeuta familiare e di non avere come scopo la riunificazione delle coppie. Aggiungo che sono lì per ascoltare unicamente lei, la sua storia, e cosa le stia facendo enigma. Sin dalla tenera era costretta ad assistere a scene nelle quali il padre picchiava la madre per futili motivi. Madre che, in alcuni casi, reagiva blandamente alle percosse, ma non manifestò mai l’intenzione di andarsene. I genitori erano completamente assorbiti nel mantenimento di questo rapporto perverso e non hanno mai mostrato un vero interesse per il suo andamento scolastico, le sue esperienze nella vita. La madre, quando le percosse raggiungevano il livello di sopportabilità, scaricava le sue insoddisfazioni su Romy. ‘Mi guardava piena di lividi dicendo ‘ti devi abituare, sposarsi vuol dire questo’. Vivere con un uomo significa soffrire, questo fu il primo insegnamento appreso in famiglia. Il legame che teneva uniti i genitori non obbediva alle leggi dell’amore che incontrava nelle coppie di amici.
Segue qui:
http://www.lettera43.it/it/blog/la-stanza-101-lo-sguardo-di-uno-psicoanalista-sul-contemporaneo/2017/01/10/quando-la-donna-perdona-il-carnefice/4507/
Il caso della ragazza di Messina che avrebbe ‘perdonato’ il suo carnefice introduce ad una delle frontiere più estreme e difficili della clinica. Allego il teso di un caso clinico, esposto al Congresso Europeo di psicoanalisi, che analizza casi come questo.
UN’ALTRA POSSIBILITA’
In Italia la violenza sulle donne costituisce un fenomeno crescente. Nel 2013, anno con maggior numero di vittime, sono stati 179 i casi di donne uccise. Il 68% di esse subisce violenza in famiglia. L’autore è nel 48% dei casi il marito, nel 12% il convivente nel 23% l’ex partner. Il mio centro di psicoanalisi applicata ha iniziato una collaborazione con la scuola Regionale di Polizia, a seguito di un seminario congiunto dedicato alla violenza intrafamiliare. In quest’occasione è emerso un dato che per le forze dell’ordine rappresenta un enigma capace di mandare in impasse i dispositivi di tutela previsti dalla legge per colei che subisce violenza. Nel 2% dei casi la donna abusata fisicamente che si rivolge a loro, sceglie di fare ritorno dal marito autore delle percosse e ritira la denuncia. Romy, 34 anni, rientra in quel 2%. Va alla polizia per denunciare il compagno che la picchia da tempo, presentandosi in caserma col viso tumefatto. Dopo aver descritto in dettaglio le percosse subite, firma la deposizione ma decide di fare ritorno a casa, contrariamente al consiglio di un agente che le suggeriva di trascorrere la notte da un parente. L’indomani gli agenti si recano da lei per accertare i fatti e diffidano il compagno dal continuare nelle vessazioni. Chiedono a Romy se voglia convalidare la denuncia rendendola penalmente valida. Con loro grande stupore, è lei stessa che li allontana, giungendo a scagliare contro l’auto di servizio oggetti e aggredendoli a male parole. Questo è uno di quei casi nei quali gli strumenti predisposti dalla legge italiana (allontanamento dell’uomo, domicilio protetto per la vittima) non funzionano: alcune donne, come Romy, vogliono dare al coniuge ‘un’altra possibilità’. ‘Abbiamo esagerato nella lite, ma io lo amo. Non portatelo in carcere’. Sono le parole dette ai poliziotti, che mi ripete in corso di seduta dopo che inizio a vederla, su sua richiesta, a seguito del consiglio di un agente che le suggerisce di parlare con uno psicoterapeuta. Romy accetta perché sa che io non sono organico alle forze dell’ordine, ma lavoro in un centro di psicoanalisi applicata. La sua iniziale richiesta è quella di aiutarla a ‘ricomporre la coppia’. Dunque Romy bussa al mio studio non per indagare le cause del suo disagio attuale, ma con l’apparente volontà di ricomporre quel legame che rischia di essere spezzato. Mi chiamo da subito fuori da ogni possibile posizione di collabò, affermando di non essere un terapeuta familiare e di non avere come scopo la riunificazione delle coppie. Aggiungo che sono lì per ascoltare unicamente lei, la sua storia, e cosa le stia facendo enigma. Sin dalla tenera era costretta ad assistere a scene nelle quali il padre picchiava la madre per futili motivi. Madre che, in alcuni casi, reagiva blandamente alle percosse, ma non manifestò mai l’intenzione di andarsene. I genitori erano completamente assorbiti nel mantenimento di questo rapporto perverso e non hanno mai mostrato un vero interesse per il suo andamento scolastico, le sue esperienze nella vita. La madre, quando le percosse raggiungevano il livello di sopportabilità, scaricava le sue insoddisfazioni su Romy. ‘Mi guardava piena di lividi dicendo ‘ti devi abituare, sposarsi vuol dire questo’. Vivere con un uomo significa soffrire, questo fu il primo insegnamento appreso in famiglia. Il legame che teneva uniti i genitori non obbediva alle leggi dell’amore che incontrava nelle coppie di amici.
Segue qui:
http://www.lettera43.it/it/blog/la-stanza-101-lo-sguardo-di-uno-psicoanalista-sul-contemporaneo/2017/01/10/quando-la-donna-perdona-il-carnefice/4507/
AMORE E MORTE
di Umberto Silva, ilfoglio.it, 11 gennaio 2017
Dal Bosforo insanguinato si allontana l’assassino togliendosi il manto, ha eseguito un ordine, nessun pathos in lui, tutt’altro, è più tranquillo di loro tutti, i morti. Odo i suoi passi lungo i viali, ha fatto il suo dovere, nella casa segreta lo attende un complice, o il nulla. Più desolante della morte dei ragazzi del Reina è la morte dell’anima che pervade l’assassino, una morte che condivide con tanti altri giovani in tante parti del mondo. Dei terroristi parlo, che cominciarono il loro percorso nella metà di due secoli orsono e instancabili continuano; e se un tempo la loro lotta era contro Dio, di cui negavano l’esistenza, ora si fingono suoi seguaci. Siamo sempre lì, in quella storia di cui il genio di Dostoevskij colse fin da subito la macabra essenza, che fin dalle origini costoro cercarono di spacciare per oscura bellezza. E’ il volto di chi superbo pensa di pensare, di chi vanitoso pensa di essere pensato e si sforza di pensarsi, eleggendo a esistente quel che pensa. Non ci riesce, impossibile che il nulla vinca, qualcosa sempre lo smaschera. Chi non nasce uccide, chi non nasce alla gioia di esistere con l’altro da sé… inesorabilmente dispensa morte e solo morte.
L’assassino fuma una sigaretta. Impassibile, neppure vede lo squallore che lo circonda, niente a che fare con gli accoglienti salotti dove negli anni di piombo si chiacchierava dei massimi sistemi, come toccò al povero Moro, che oltre le pallottole dovette subire un mucchio di saccenti stronzate. Nessun glorioso affanno per gli assassini del Bataclan e del Reina: per quanto invochino Allah Akbar nessun piacere, in questo assai lontani dal godimento perverso delle Br, che volevano vivere pienamente per pienamente pavoneggiarsi. I kamikaze crepano e basta, nessuno come loro è senza Dio, e tanta miseria umana suscita orrore ma anche una preghiera al Signore, che altri chiamano Amore, e altri ancora Dolore, quel benedetto Dolore che scaccia la nuvolaglia d’una presuntuosa sofferenza e illumina i cuori.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2017/01/11/news/amore-e-morte-114330/
Dal Bosforo insanguinato si allontana l’assassino togliendosi il manto, ha eseguito un ordine, nessun pathos in lui, tutt’altro, è più tranquillo di loro tutti, i morti. Odo i suoi passi lungo i viali, ha fatto il suo dovere, nella casa segreta lo attende un complice, o il nulla. Più desolante della morte dei ragazzi del Reina è la morte dell’anima che pervade l’assassino, una morte che condivide con tanti altri giovani in tante parti del mondo. Dei terroristi parlo, che cominciarono il loro percorso nella metà di due secoli orsono e instancabili continuano; e se un tempo la loro lotta era contro Dio, di cui negavano l’esistenza, ora si fingono suoi seguaci. Siamo sempre lì, in quella storia di cui il genio di Dostoevskij colse fin da subito la macabra essenza, che fin dalle origini costoro cercarono di spacciare per oscura bellezza. E’ il volto di chi superbo pensa di pensare, di chi vanitoso pensa di essere pensato e si sforza di pensarsi, eleggendo a esistente quel che pensa. Non ci riesce, impossibile che il nulla vinca, qualcosa sempre lo smaschera. Chi non nasce uccide, chi non nasce alla gioia di esistere con l’altro da sé… inesorabilmente dispensa morte e solo morte.
L’assassino fuma una sigaretta. Impassibile, neppure vede lo squallore che lo circonda, niente a che fare con gli accoglienti salotti dove negli anni di piombo si chiacchierava dei massimi sistemi, come toccò al povero Moro, che oltre le pallottole dovette subire un mucchio di saccenti stronzate. Nessun glorioso affanno per gli assassini del Bataclan e del Reina: per quanto invochino Allah Akbar nessun piacere, in questo assai lontani dal godimento perverso delle Br, che volevano vivere pienamente per pienamente pavoneggiarsi. I kamikaze crepano e basta, nessuno come loro è senza Dio, e tanta miseria umana suscita orrore ma anche una preghiera al Signore, che altri chiamano Amore, e altri ancora Dolore, quel benedetto Dolore che scaccia la nuvolaglia d’una presuntuosa sofferenza e illumina i cuori.
Segue qui:
http://www.ilfoglio.it/la-politica-sul-lettino/2017/01/11/news/amore-e-morte-114330/
EFFEMINATO TOLTO ALLA MADRE. È COLPA DEL NOSTRO MONDO ORFANO DI PADRI. È colpa del nostro mondo orfano di padri
di Claudio Risè, ilgiornale.it, 11 gennaio 2017
Se tutti i ragazzini che tendono ad affermare la propria diversità e ostentano «atteggiamenti effeminati in modo provocatorio» venissero tolti alle madri tribunali e comunità sarebbero ancora più intasati di quanto oggi già siano. Questa sentenza sarà dunque duramente accusata un po’ di tutto, dall’incompetenza psicologica al bigottismo, all’arretratezza. Eppure quelle scritte in quell’atto non sono parole del tutto prive di senso, anche se potrebbero non servire a nulla, o quasi.
La prevalenza dei contenuti femminili e materni (il cosiddetto «codice materno»), nello sviluppo e nell’educazione dei giovani maschi, non più sostenuti da un’autorevole presenza paterna, soprattutto dallo sviluppo in poi, è uno dei maggiori problemi culturali, sociali e politici dell’Occidente contemporaneo, ed uno dei suoi maggiori fattori di indebolimento. Questo fenomeno, di certo non riducibile né risolvibile nella storia di un ragazzino con un padre separato e madre e sorelle ingombranti, è il grande problema dietro questa decisione apparentemente stravagante, che una sentenza comunque difficilmente può sanare. Non sono infatti le sentenze giudiziarie che possono proteggere i ragazzi nel delicatissimo passaggio dall’infanzia alla giovinezza, ma una società attenta all’interesse dell’adolescente a realizzare la propria personalità, e non impegnata a predeterminarne l’esito in un senso o nell’altro. Ciò è tanto più difficile quando il padre non c’è – come in Occidente oggi – perché si è allontanato o è stato espulso da casa dalle separazioni e divorzi, richiesti in ormai due terzi dei casi dalle mogli/madri.
Segue qui:
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/effeminato-tolto-madre-viviamo-unepoca-senza-padri-1350215.html
di Claudio Risè, ilgiornale.it, 11 gennaio 2017
Se tutti i ragazzini che tendono ad affermare la propria diversità e ostentano «atteggiamenti effeminati in modo provocatorio» venissero tolti alle madri tribunali e comunità sarebbero ancora più intasati di quanto oggi già siano. Questa sentenza sarà dunque duramente accusata un po’ di tutto, dall’incompetenza psicologica al bigottismo, all’arretratezza. Eppure quelle scritte in quell’atto non sono parole del tutto prive di senso, anche se potrebbero non servire a nulla, o quasi.
La prevalenza dei contenuti femminili e materni (il cosiddetto «codice materno»), nello sviluppo e nell’educazione dei giovani maschi, non più sostenuti da un’autorevole presenza paterna, soprattutto dallo sviluppo in poi, è uno dei maggiori problemi culturali, sociali e politici dell’Occidente contemporaneo, ed uno dei suoi maggiori fattori di indebolimento. Questo fenomeno, di certo non riducibile né risolvibile nella storia di un ragazzino con un padre separato e madre e sorelle ingombranti, è il grande problema dietro questa decisione apparentemente stravagante, che una sentenza comunque difficilmente può sanare. Non sono infatti le sentenze giudiziarie che possono proteggere i ragazzi nel delicatissimo passaggio dall’infanzia alla giovinezza, ma una società attenta all’interesse dell’adolescente a realizzare la propria personalità, e non impegnata a predeterminarne l’esito in un senso o nell’altro. Ciò è tanto più difficile quando il padre non c’è – come in Occidente oggi – perché si è allontanato o è stato espulso da casa dalle separazioni e divorzi, richiesti in ormai due terzi dei casi dalle mogli/madri.
Segue qui:
http://www.ilgiornale.it/news/cronache/effeminato-tolto-madre-viviamo-unepoca-senza-padri-1350215.html
COSA CHIEDE A GENITORI (E PROF) UN 13ENNE “TROPPO EFFEMINATO”?
di Luigi Campagner, ilsussidiario.net, 12 gennaio 2017
“Troppo effeminato, tredicenne tolto alla madre. E a Padova scoppia la polemica”, o almeno così auspicherebbe il titolista di Repubblica che rilancia la notizia che il Mattino di Padova ha messo in prima pagina martedì 10 gennaio. Senza il contorno di un po’ di polemica, si sa, i lettori sono meno motivati a seguire i commenti. Anche l’Ansa rilancia la notizia con un titolo fotocopia: Minore allontanato da madre perché “effeminato”. Se solo l’articolista avesse pensato a un punto di domanda in fondo a quella frase, il titolo sarebbe anche buono. L’effetto del supplemento di punteggiatura sarebbe evidente: il colore della cronaca virerebbe immediatamente e con esso anche il senso dell’articolo. Tutto meno enfatico, e molto probabilmente più aderente alla complessa “realtà dei fatti”. La cronaca non è mai banale, così come non lo sono i registri scelti per presentarla e commentarla. La vicenda del giovane tredicenne oggetto in questi giorni di molte attenzioni mette alla prova l’approccio del mondo della comunicazione su alcuni importanti snodi della vita di ciascuno, dalla differenza sessuale (nel suo manifestarsi nella pubertà) alle relazioni (partendo da quelle in famiglia), alla vita dei singoli nel contesto delle leggi e delle istituzioni, che rappresentano lo specifico della vita umana, la quale non è mai puramente biologica, ma sempre giuridica.
Entrambi gli articoli fanno leva sulla tesi dell’avvocato difensore della famiglia, che fa ottimamente il proprio dovere cercando negli atti della controparte i punti deboli e le crepe dove infilarsi per demolire la tesi avversa: “scandalizza, ha dichiarato il legale, la decisione di allontanare un ragazzino solo per l’atteggiamento effemminato. Mi sembra un provvedimento di pura discriminazione”. E se così fosse l’avvocato avrà anche vita facile nel far valere nelle sedi deputate i diritti dei genitori suoi assistiti. Mentre le difese dei diritti del figlio sono prese d’ufficio dal Tribunale per i minori.
Segue qui:
http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2017/1/12/SCUOLA-Cosa-chiede-a-genitori-e-prof-un-13enne-troppo-effeminato-/742006/
“Troppo effeminato, tredicenne tolto alla madre. E a Padova scoppia la polemica”, o almeno così auspicherebbe il titolista di Repubblica che rilancia la notizia che il Mattino di Padova ha messo in prima pagina martedì 10 gennaio. Senza il contorno di un po’ di polemica, si sa, i lettori sono meno motivati a seguire i commenti. Anche l’Ansa rilancia la notizia con un titolo fotocopia: Minore allontanato da madre perché “effeminato”. Se solo l’articolista avesse pensato a un punto di domanda in fondo a quella frase, il titolo sarebbe anche buono. L’effetto del supplemento di punteggiatura sarebbe evidente: il colore della cronaca virerebbe immediatamente e con esso anche il senso dell’articolo. Tutto meno enfatico, e molto probabilmente più aderente alla complessa “realtà dei fatti”. La cronaca non è mai banale, così come non lo sono i registri scelti per presentarla e commentarla. La vicenda del giovane tredicenne oggetto in questi giorni di molte attenzioni mette alla prova l’approccio del mondo della comunicazione su alcuni importanti snodi della vita di ciascuno, dalla differenza sessuale (nel suo manifestarsi nella pubertà) alle relazioni (partendo da quelle in famiglia), alla vita dei singoli nel contesto delle leggi e delle istituzioni, che rappresentano lo specifico della vita umana, la quale non è mai puramente biologica, ma sempre giuridica.
Entrambi gli articoli fanno leva sulla tesi dell’avvocato difensore della famiglia, che fa ottimamente il proprio dovere cercando negli atti della controparte i punti deboli e le crepe dove infilarsi per demolire la tesi avversa: “scandalizza, ha dichiarato il legale, la decisione di allontanare un ragazzino solo per l’atteggiamento effemminato. Mi sembra un provvedimento di pura discriminazione”. E se così fosse l’avvocato avrà anche vita facile nel far valere nelle sedi deputate i diritti dei genitori suoi assistiti. Mentre le difese dei diritti del figlio sono prese d’ufficio dal Tribunale per i minori.
Segue qui:
http://www.ilsussidiario.net/News/Educazione/2017/1/12/SCUOLA-Cosa-chiede-a-genitori-e-prof-un-13enne-troppo-effeminato-/742006/
QUEI FIGLI SENZA SENSO DI COLPA. Una fredda frivolezza dietro l’omicidio di Codigoro
di Massimo Recalcati, repubblica.it, 13 gennaio 2017
Quello che più colpisce dell’atroce delitto di Codigoro è l’assenza di senso di colpa nei due giovanissimi assassini. Del figlio innanzitutto, ancora più del suo sanguinario complice. La motivazione del suo gesto appare sconcertante nella sua semplicità: «Non sopportavo più le loro prediche», «volevo liberarmene». La grande tragedia di Edipo re di Sofocle, riletta da Freud, ha elevato la ferocia del figlio Edipo che assassina il padre a paradigma di una scena universale: ogni figlio vuole liberarsi di suo padre e dei suoi genitori per realizzare il proprio desiderio. Il conflitto tra le generazioni, lo sappiamo, è un passaggio fondamentale nel processo di umanizzazione della vita. Necessariamente l’esistenza di una Legge implica anche la tendenza alla sua violazione trasgressiva. Ma Edipo, che realizza la più estrema della trasgressioni, porta anche su di sé le marche dei terribili crimini del parricidio e dell’incesto. Per questo al termine della tragedia si cava gli occhi con i fermagli dei capelli di sua moglie e madre Giocasta. A dimostrazione che la Legge si è iscritta nel suo corpo nella forma del senso di colpa per ciò che ha commesso.
Segue qui:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2017/01/13/quei-figli-senza-senso-di-colpa31.html?ref=search
Quello che più colpisce dell’atroce delitto di Codigoro è l’assenza di senso di colpa nei due giovanissimi assassini. Del figlio innanzitutto, ancora più del suo sanguinario complice. La motivazione del suo gesto appare sconcertante nella sua semplicità: «Non sopportavo più le loro prediche», «volevo liberarmene». La grande tragedia di Edipo re di Sofocle, riletta da Freud, ha elevato la ferocia del figlio Edipo che assassina il padre a paradigma di una scena universale: ogni figlio vuole liberarsi di suo padre e dei suoi genitori per realizzare il proprio desiderio. Il conflitto tra le generazioni, lo sappiamo, è un passaggio fondamentale nel processo di umanizzazione della vita. Necessariamente l’esistenza di una Legge implica anche la tendenza alla sua violazione trasgressiva. Ma Edipo, che realizza la più estrema della trasgressioni, porta anche su di sé le marche dei terribili crimini del parricidio e dell’incesto. Per questo al termine della tragedia si cava gli occhi con i fermagli dei capelli di sua moglie e madre Giocasta. A dimostrazione che la Legge si è iscritta nel suo corpo nella forma del senso di colpa per ciò che ha commesso.
Segue qui:
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2017/01/13/quei-figli-senza-senso-di-colpa31.html?ref=search
LA SPONDA DEI CRIMINI DELL’ODIO
di Sarantis Thanopulos, il manifesto, 14 gennaio 2017
Secondo dati della Polizia di Londra e dell’Fbi, i crimini dell’odio (legati al pregiudizio nei confronti della diversità) hanno avuto una forte impennata dopo il referendum sulla Brexit e l’elezione di Trump. Sembra che, almeno in Gran Bretagna, questi crimini siano poi tornati ai livelli precedenti. Resta il fatto di una loro correlazione innegabile con due vittorie elettorali della xenofobia.
Indubbiamente sentirsi dalla parte dei più agisce come una legittimazione dell’aggressività nei confronti dei diversi (sul piano del colore della pelle, della religione, dei costumi, delle preferenze sessuali) e dei marginali. Pure come autorizzazione della sua estrinsecazione. Freud ha spiegato la trasmissione dei sintomi isterici (i fenomeni di “isteria” di gruppo) mediante un meccanismo di identificazione: tra più individui si stabilisce un legame per analogia su un punto (un’affinità psichica) e quando in uno di loro l’elemento comune estrinseca il suo potenziale patologico, la stessa cosa accade anche negli altri. La patologia si propaga come il fuoco tra oggetti infiammabili contigui.
Nel caso delle manifestazioni emotive morbose di massa della nostra epoca, la contiguità si stabilisce attraverso il processo di omogeneizzazione, indifferenziazione delle reazioni psicologiche che è tipico di un assetto psichico collettivo difensivo (come quello che sfocia nel rigetto della diversità). L’esplosione di un comportamento distruttivo in questo o in quell’altro individuo si trasmette facilmente ad altri individui parimenti vulnerabili, a condizione che questo comportamento, che agisce come detonatore di ulteriori e più violente esplosioni, abbia la risonanza necessaria. I mezzi di comunicazione agiscono da amplificatori in misura che va ben oltre il diritto all’informazione.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6584
Secondo dati della Polizia di Londra e dell’Fbi, i crimini dell’odio (legati al pregiudizio nei confronti della diversità) hanno avuto una forte impennata dopo il referendum sulla Brexit e l’elezione di Trump. Sembra che, almeno in Gran Bretagna, questi crimini siano poi tornati ai livelli precedenti. Resta il fatto di una loro correlazione innegabile con due vittorie elettorali della xenofobia.
Indubbiamente sentirsi dalla parte dei più agisce come una legittimazione dell’aggressività nei confronti dei diversi (sul piano del colore della pelle, della religione, dei costumi, delle preferenze sessuali) e dei marginali. Pure come autorizzazione della sua estrinsecazione. Freud ha spiegato la trasmissione dei sintomi isterici (i fenomeni di “isteria” di gruppo) mediante un meccanismo di identificazione: tra più individui si stabilisce un legame per analogia su un punto (un’affinità psichica) e quando in uno di loro l’elemento comune estrinseca il suo potenziale patologico, la stessa cosa accade anche negli altri. La patologia si propaga come il fuoco tra oggetti infiammabili contigui.
Nel caso delle manifestazioni emotive morbose di massa della nostra epoca, la contiguità si stabilisce attraverso il processo di omogeneizzazione, indifferenziazione delle reazioni psicologiche che è tipico di un assetto psichico collettivo difensivo (come quello che sfocia nel rigetto della diversità). L’esplosione di un comportamento distruttivo in questo o in quell’altro individuo si trasmette facilmente ad altri individui parimenti vulnerabili, a condizione che questo comportamento, che agisce come detonatore di ulteriori e più violente esplosioni, abbia la risonanza necessaria. I mezzi di comunicazione agiscono da amplificatori in misura che va ben oltre il diritto all’informazione.
Segue qui:
http://www.psychiatryonline.it/node/6584
MEMORIALE DI UNA NEVROSI IN FORMA DI AFFABULAZIONE. Uscito nel ’64, «Il male oscuro» viene ora riproposto da Neri Pozza e introdotto da Emanuele Trevi: in uno stile mimato a oltranza sul sentire patologico di un uomo che parla sempre di sé, Giuseppe Berto reagisce alle ossessioni di un’intera società
di Nicolò Scaffai, ilmanifesto – Alias, 15 gennaio 2017
Se Zeno avesse voluto e potuto raccontare la verità, avrebbe scritto qualcosa di simile al Male oscuro. Il capolavoro di Giuseppe Berto uscì nel 1964, quasi diciotto anni dopo il fortunato Il cielo è rosso, cui seguirono tra gli altri Il brigante (accolto assai peggio dalla critica, in particolare da Emilio Cecchi) e Guerra in camicia nera. Già volontario in Abissinia (e fresco di laurea a Padova), Berto si era arruolato nella Milizia fascista. Catturato in Nord Africa nel ’43, era stato internato negli Stati Uniti, dove in un campo di prigionia nel Texas conobbe, tra gli altri, Alberto Burri. Tornò in Italia nel ’46, a trentadue anni (era nato a Mogliano Veneto nel 1914); con sé aveva i manoscritti di alcuni racconti e il testo di Il cielo è rosso, che Longanesi avrebbe pubblicato di lì a poco.
Il successo arrivò subito, ma quando più tardi Berto scrisse Il male oscuro – in circa due mesi, nel ritiro di Capo Vaticano – il clima letterario e civile era ormai profondamente mutato rispetto agli esordi. Dopo i suoi primi romanzi, Berto era considerato un neorealista – lo ricorda lui stesso in uno scritto di commento al Male oscuro. Ma già nel 1950 «il neorealismo era finito perché era finita anche l’ultima illusione che uno scrittore potesse essere tra i protagonisti della vita d’un paese». D’altra parte, la crisi del neorealismo «portava lo scrittore alla libertà»; occorrevano «una maggiore penetrazione psicologica» e «un linguaggio più curato e complesso» – commenta Berto – e fu allora che «venne la nevrosi».
Il male oscuro è appunto il memoriale di quella nevrosi (non di una generica depressione, sebbene oggi l’espressione male oscuro sia usata indistintamente per definire la sofferenza psicologica), della sua radice nel rapporto con l’autorità super-egotica del Padre (il narratore definisce il racconto come storia di una «lunga lotta col padre»), del suo alimento nella fatica inappagata della scrittura (il protagonista è uno sceneggiatore malpagato, che non riuscirà mai a finire un suo romanzo, il capolavoro), della sua causa scatenante nel male fisico, delle sue conseguenze nella crisi coniugale e nel distacco dalla famiglia. L’aver abbandonato, per disgusto, il padre sul letto di morte ha generato nel figlio un senso di colpa che lo porterà ad attribuire alla postuma vendetta paterna ogni caduta e malessere patito; e guarigione non vi sarà, se non accogliendo quella vendetta e finendo per assomigliare al padre e ripeterne i gesti.
Molto di ciò che Berto racconta corrisponde alla sua biografia, eppure non è questa la più importante verità del Male oscuro. La verità non è quella che il libro dice, bensì quella di cui è fatto; la sua sostanza, cioè, non consiste in una fedeltà, ma in una forma narrativa. Per questo, l’antenato del personaggio che scrive «io» nel romanzo di Berto, pur così direttamente autobiografico, è il narratore Zeno, non l’autore Svevo. Così come il suo fratello maggiore è Gonzalo: proprio dalla Cognizione è prelevata, del resto, l’espressione «male oscuro». (Ma nel carattere del personaggio entrano pure certi connotati pratici della macchietta satirica, di cui si nutre all’epoca anche la commedia all’italiana).
Non sono pochi i contatti e le somiglianze tra i romanzi di Svevo e quello di Berto, a cominciare dal tema della morte del padre; più in generale, comune ai due libri è lo scenario enunciativo, cioè la psicoanalisi come istigazione alla scrittura di un memoriale. Non mancano altri specifici segnali allusivi (è un caso che il protagonista del Male oscuro insista per chiamare la figlia Augusta, come la moglie di Zeno?) e le immediate citazioni: «pare che la psicoanalisi non danneggi la capacità creativa di un artista, anzi si potrebbe dire che la esalti come dimostrato ad abundantiam dal caso di Italo Svevo».
Se Zeno avesse voluto e potuto raccontare la verità, avrebbe scritto qualcosa di simile al Male oscuro. Il capolavoro di Giuseppe Berto uscì nel 1964, quasi diciotto anni dopo il fortunato Il cielo è rosso, cui seguirono tra gli altri Il brigante (accolto assai peggio dalla critica, in particolare da Emilio Cecchi) e Guerra in camicia nera. Già volontario in Abissinia (e fresco di laurea a Padova), Berto si era arruolato nella Milizia fascista. Catturato in Nord Africa nel ’43, era stato internato negli Stati Uniti, dove in un campo di prigionia nel Texas conobbe, tra gli altri, Alberto Burri. Tornò in Italia nel ’46, a trentadue anni (era nato a Mogliano Veneto nel 1914); con sé aveva i manoscritti di alcuni racconti e il testo di Il cielo è rosso, che Longanesi avrebbe pubblicato di lì a poco.
Il successo arrivò subito, ma quando più tardi Berto scrisse Il male oscuro – in circa due mesi, nel ritiro di Capo Vaticano – il clima letterario e civile era ormai profondamente mutato rispetto agli esordi. Dopo i suoi primi romanzi, Berto era considerato un neorealista – lo ricorda lui stesso in uno scritto di commento al Male oscuro. Ma già nel 1950 «il neorealismo era finito perché era finita anche l’ultima illusione che uno scrittore potesse essere tra i protagonisti della vita d’un paese». D’altra parte, la crisi del neorealismo «portava lo scrittore alla libertà»; occorrevano «una maggiore penetrazione psicologica» e «un linguaggio più curato e complesso» – commenta Berto – e fu allora che «venne la nevrosi».
Il male oscuro è appunto il memoriale di quella nevrosi (non di una generica depressione, sebbene oggi l’espressione male oscuro sia usata indistintamente per definire la sofferenza psicologica), della sua radice nel rapporto con l’autorità super-egotica del Padre (il narratore definisce il racconto come storia di una «lunga lotta col padre»), del suo alimento nella fatica inappagata della scrittura (il protagonista è uno sceneggiatore malpagato, che non riuscirà mai a finire un suo romanzo, il capolavoro), della sua causa scatenante nel male fisico, delle sue conseguenze nella crisi coniugale e nel distacco dalla famiglia. L’aver abbandonato, per disgusto, il padre sul letto di morte ha generato nel figlio un senso di colpa che lo porterà ad attribuire alla postuma vendetta paterna ogni caduta e malessere patito; e guarigione non vi sarà, se non accogliendo quella vendetta e finendo per assomigliare al padre e ripeterne i gesti.
Molto di ciò che Berto racconta corrisponde alla sua biografia, eppure non è questa la più importante verità del Male oscuro. La verità non è quella che il libro dice, bensì quella di cui è fatto; la sua sostanza, cioè, non consiste in una fedeltà, ma in una forma narrativa. Per questo, l’antenato del personaggio che scrive «io» nel romanzo di Berto, pur così direttamente autobiografico, è il narratore Zeno, non l’autore Svevo. Così come il suo fratello maggiore è Gonzalo: proprio dalla Cognizione è prelevata, del resto, l’espressione «male oscuro». (Ma nel carattere del personaggio entrano pure certi connotati pratici della macchietta satirica, di cui si nutre all’epoca anche la commedia all’italiana).
Non sono pochi i contatti e le somiglianze tra i romanzi di Svevo e quello di Berto, a cominciare dal tema della morte del padre; più in generale, comune ai due libri è lo scenario enunciativo, cioè la psicoanalisi come istigazione alla scrittura di un memoriale. Non mancano altri specifici segnali allusivi (è un caso che il protagonista del Male oscuro insista per chiamare la figlia Augusta, come la moglie di Zeno?) e le immediate citazioni: «pare che la psicoanalisi non danneggi la capacità creativa di un artista, anzi si potrebbe dire che la esalti come dimostrato ad abundantiam dal caso di Italo Svevo».
Segue qui, previa registrazione:
http://ilmanifesto.info/meoriale-di-una-nevrosi-in-forma-di-affabulazione/
(Fonte dei pezzi della rubrica: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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