Sono in genere restio a dire la mia su fatti di cronaca nera che non posso conoscere da vicino. Anche perché se mi accingo a farlo mi vengono subito in mente, a monito, le parole di una canzone di Gianfranco Manfredi che, a proposito di chi commentava le gesta di un giovane guerrigliero metropolitano degli anni ’70, cantava: “e parlavano di lui, scrivevano di lui lo psicologo, il sociologo e il cretino”. Io psicologo non sono, sociologo neppure; perciò…
Ma in questa occasione vorrei vincere la ritrosia e prendere spunto dalla vicenda dei due ragazzi di Codigoro e i commenti apparsi in questa rivista per alcune considerazioni.
Massimo Recalcati[i] mi ha evocato un’associazione con un concetto che De Vincentiis, Callieri e Castellani derivano da Kant e approfondiscono nel loro Trattato di psicopatologia e psichiatria forense, quello di “sentimento del valore dell’altro”. In un articolo pubblicato qualche anno fa con Antonio Maria Ferro e Luigi Ferrannini, che ho recentemente ripreso per POL. it[ii], partivamo da questo concetto e dalla vicenda di Raskolnikov per ipotizzare che per il compimento dell’assassinio sia necessaria la temporanea sospensione di questo sentimento in uno di quegli stati alterati di coscienza che Dostoëvskij descrive o, in alternativa, la sua agenesia nel quadro di personalità psicopatiche o antisociali.
Già, Raskolnikov. Perché un’altra associazione che la lettura dell’articolo di Recalcati ha evocato in me è con una lettera di Dostoëvskij all’editore Katkov del 1865, nella quale presenta il piano di Delitto e castigo e scrive: «Vi sono molte tracce nei nostri giornali della eccezionale instabilità di convinzioni che porta ad azioni terribili». Tempi difficili, mala tempora anche allora, insomma; tempi d’instabilità morale, e una quindicina d’anni dopo lo stesso scrittore avrebbe creato con I fratelli Karamazov un caso letterario di parricidio destinato a diventare il più celebre della letteratura mondiale dopo quello di Edipo.
Allora, via via, mi è venuto da ripensare agli episodi di parricidio nei quali mi è capitato di imbattermi in questi anni nella mia frequentazione della storia sociale. Un giovane soldato ubriaco sgozza la madre a Varese Ligure nel 1850[iii]; e ci immaginiamo il popolo genovese che si affolla a Palazzo ducale per il processo e uno che dice all’altro qualcosa che credo dovesse suonare all’incirca così: «Belandi, ma che tempi! Oua unna muè no peu manco ciu fidase de se figgiu!». Pochi anni prima in Normandia un altro giovane, Pierre Rivière, sterminava la famiglia eccetto il padre; il suo caso fu reso celebre da Esquirol, e poi da Foucault. O ancora più indietro ripenso a Elio Prisco, il folle matricida del quale ebbero ad occuparsi Marco Aurelio e Commodo nella Roma imperiale[iv]. Mala tempora currebant anche allora, forse. E chissà quanti altri se ne potrebbero trovare. Qualcuno apparentemente tranquillo dopo il fatto, qualcuno più scosso.
La storia ci dice insomma che parricidi ce ne sono stati sempre, in epoche lontane e diverse tra loro; certo sarebbe interessante sapere se si addensino particolarmente in quelle che hanno in comune un lassismo morale, sarebbe suggestivo, ma non ho dati per dirlo.
Perciò, temo che con il fatto di Codigoro e altri – ricordo tra i più noti Doretta Graneris (1975), Roberto Succo (1981), Nicola Carretta (1989), Pietro Maso (1989), Elia Del Grande (1991), Stefano Diamante (1999)[v], Erika e Omar (2001), Aral Gabriele (2002), Giuseppe La Mendola (2014), Davide Mugnos (2015), Igor Diana (2016) – c’entrino poco la società e il fatto che ci sia più o meno attenzione per i sentimenti collegati alla colpa, salvo prova statistica contraria. Tutti i ragazzi vivono nella stessa società, caratterizzata da forte o debole riferimento al senso di colpa, ma quelli che commettono un parricidio sono pochi di loro.
Se quindi non mi convince molto il riferimento alla società da parte di Recalcati, neppure però mi convince fino in fondo Marco Nicastro[vi], al quale pure mi sento più vicino, quando chiama in causa l’amore dei genitori verso i figli alla luce delle teorie della Klein o di Bowlby. Né il relativo commento di Antonello Sciacchitano il quale fa riferimento, lasciando minore spazio al dubbio parrebbe, alla relazione tra sviluppo della personalità e paranoia in Lacan e il venir meno, in questi casi, di meccanismi inibitori. In queste posizioni colgo infatti due elementi di debolezza. Il primo, che nessuno di noi sa evidentemente nulla della relazione genitori-figli in quella specifica famiglia, e dello stile di attaccamento o della personalità sviluppata da quel figlio (e questo Nicastro peraltro lo ha ben presente). Il secondo, che i meccanismi disfunzionali che i due colleghi descrivono sono, credo, piuttosto diffusi e se ogni volta dovessero portare al parricidio il mestiere di genitore sarebbe più pericoloso di quello dell’artificiere; invece i parricidi riguardano, infondo, in una nazione di 56.000.000 circa di abitanti un numero che credo sia nell’ordine di qualche decina, e anche per questa ragione inquietano, colpiscono, fanno scrivere.
A proposito poi dell’articolo di Sarantis Thanopulos, credo che valgano per la parte conclusiva alcune delle considerazioni già svolte, ma mi colpisce soprattutto un passaggio, quello in cui si sostiene: «Il divieto di uccidere i genitori origina dal senso di responsabilità nei loro confronti come primi e costitutivi oggetti di passione erotica»[vii]. Ma davvero ne siamo convinti?
E se l’ipotesi freudiana dell’esistenza del complesso di Edipo, che – pur rispettabile – sempre un’ipotesi scientifica è, dovesse essere un giorno confutata? Ma è davvero necessario questo contorcimento logico, mi chiedo, per spiegare perché l’essere umano avverte un divieto di uccidere gli altri esseri umani, e in particolare i familiari? Non c’è niente di più solido a cui ancorarsi?
Francamente non credo. Credo che invece l’essere umano sia generalmente trattenuto dall’uccidere il suo simile proprio perché quest’essergli simile lo spinge a immedesimarsi con lui. O, se vogliamo proprio ricorrere a una logica utilitaristica per non apparire ingenui od ottimisti (il che sembra un peccato imperdonabile nel dibattito culturale odierno) se non altro perché l’essere umano avverte in genere la convenienza di vivere in una società nella quale ci si uccide poco, perché questo fa sì che, al costo di rinunciare a essere un assassino (che non credo sia infondo un gran piacere), abbia minori probabilità di essere assassinato (il che mi pare un bel vantaggio!). Non credo sia necessario perciò spiegare, con ragionamenti più o meno astrusi, perché di solito non si uccide; semmai il problema sarebbe spiegare perché (raramente) lo si fa.
In famiglia, poi, cioè in casa, ci si uccide vicendevolmente con frequenza ancora minore che fuori per quello che mi pare, diciamo così, un tacito accordo; e questa è la ragione per cui, entrando in casa, ci chiudiamo la porta alle spalle. Per chiudere fuori il pericolo e poterci anche addormentare tranquilli. Lo sapeva Dante, il quale sbatte nel IX cerchio, quello dei traditori infondo all’inferno, i rei di assassinio domestico. Gli assassini dei familiari nella Caina, e quelli degli ospiti che, finché sono tali, ai familiari sono assimilati da un analogo tacito vincolo di non aggressione, nella Tolomea. Ma non solo; Foucault ricorda come persino Hobbes, che certo di una visione ottimista dell'uomo non è sospettato, consideri la serratura della porta di casa lo strumento con il quale ci si difende dalla guerra che sostanzia la società, anche la più civile[viii]. Mi pare che così la questione fili più lineare.
Non mi convince, dunque, con riferimento a questo specifico evento, fino in fondo il richiamo alla società priva di valori che fa Recalcati, né mi convincono del tutto le, pur diverse, tesi più spostate sulla psicologia (sulla psicoanalisi) degli altri tre colleghi. E allora?
Un mese fa, nel ricordare i 150 anni di Delitto e castigo, mi soffermavo su due ipotesi per il delitto di Raskolnikov. La prima, ripresa da Backès, che esso possa anche non avere una ragione, o almeno una ragione talmente forte da spiegare un assassinio, e che in molti atti umani possa avere soprattutto importanza il bisogno di fare esperienza piena della libertà, compreso il male che della libertà rappresenta, per Dostoëvskij, il limite estremo. La seconda, che al passaggio dal progetto dell’assassinio alla sua attuazione – che non è affatto un passaggio breve né disinvolto – possa aver contribuito un meccanismo analogo a quello che Binswanger chiama l’esaltazione fissata. L’accarezzare cioè tanto un’idea, un progetto, da finire per convincersene. Agevolato, in questo caso, da un meccanismo gregario analogo a quello che ancora Dostoëvskij esplora nell’assassinio di Satov da parte de I demoni, attraverso il quale ciò che a ciascuno pare impossibile, parlandone insieme può diventare più plausibile. E mi viene da immaginarli, allora, i due ragazzi, nella stanza accanto, mentre al di là del muro sentono, più o meno lieve, forse il russare di uno o entrambi i genitori, a dirsi l’un l’altro: «ma no, dai, è una cazzata, lasciamo perdere. E se poi ci beccano?». Ed abbattere, una per volta, le obiezioni fino a compiere il salto dal campo delle ipotesi alla realtà.
Ma mi rendo conto d’essermi, forse, fatto prendere la mano anch'io. In realtà, non so se c’entri nulla qui Raskolnikov, né se la scena precedente l’assassinio possa essersi svolta all’incirca così. L’unica cosa che sappiamo con certezza, infondo, è che questo evento ci turba, in primo luogo perché è un assassinio, il che non è, nella nostra pur vituperata società, un fenomeno frequente; e poi perché è avvenuto in casa, perché è avvenuto in famiglia, perché il movente, per l’uno e per l’altro ragazzo, si intuisce, qualunque esso sia, drammaticamente sproporzionato, insufficiente. Perché è un atto mostruoso, anormale di quelli che – è stato ancora Foucault ad approfondirlo in uno dei suoi testi che amo maggiormente[ix] – lasciarono sbigottiti, attoniti, muti gli uomini e le donne del XIX secolo. Madri che uccidono bambini, figli che uccidono genitori, uomini che uccidono donne, adolescenti che si uccidono tra loro senza un’apparente ragione. E continuano a lasciare attoniti oggi; in questo atteggiamento credo sia molto importante permanere resistendo all’impulso a sottrarci all’enigma.
Riconoscere, da subito, intorno all'enigma l'umanità dell'autore ed essergli accanto – ne avranno bisogno – significa, anche, lasciarci così interrogare con lui.
E, certo, chi avrà forse a che fare con i due ragazzi come clinico, come perito o giudice potrà avvicinarsi a comprendere qualcosa in più di noi; ma probabilmente – e il pensiero va ancora a Dostoëvskij – il nucleo ultimo di verità dell’atto rimarrà anche per lui inafferrabile.
E così, ritornando alla frase che mi aveva inizialmente trattenuto dal provare a buttar giù queste note, mi chiedo se ad avere l’atteggiamento più adeguato tra il sociologo, lo psicologo e il cretino non sia proprio il terzo, colui che di fronte al presentarsi dell’infinita gamma di possibilità della libertà umana nella sua variante meno frequente, più insensata e più tragica rimane spaventato e si sente di dire soltanto, umilmente: “ci sono, ma non capisco; resto attonito e non ho spiegazioni”.
Ma in questa occasione vorrei vincere la ritrosia e prendere spunto dalla vicenda dei due ragazzi di Codigoro e i commenti apparsi in questa rivista per alcune considerazioni.
Massimo Recalcati[i] mi ha evocato un’associazione con un concetto che De Vincentiis, Callieri e Castellani derivano da Kant e approfondiscono nel loro Trattato di psicopatologia e psichiatria forense, quello di “sentimento del valore dell’altro”. In un articolo pubblicato qualche anno fa con Antonio Maria Ferro e Luigi Ferrannini, che ho recentemente ripreso per POL. it[ii], partivamo da questo concetto e dalla vicenda di Raskolnikov per ipotizzare che per il compimento dell’assassinio sia necessaria la temporanea sospensione di questo sentimento in uno di quegli stati alterati di coscienza che Dostoëvskij descrive o, in alternativa, la sua agenesia nel quadro di personalità psicopatiche o antisociali.
Già, Raskolnikov. Perché un’altra associazione che la lettura dell’articolo di Recalcati ha evocato in me è con una lettera di Dostoëvskij all’editore Katkov del 1865, nella quale presenta il piano di Delitto e castigo e scrive: «Vi sono molte tracce nei nostri giornali della eccezionale instabilità di convinzioni che porta ad azioni terribili». Tempi difficili, mala tempora anche allora, insomma; tempi d’instabilità morale, e una quindicina d’anni dopo lo stesso scrittore avrebbe creato con I fratelli Karamazov un caso letterario di parricidio destinato a diventare il più celebre della letteratura mondiale dopo quello di Edipo.
Allora, via via, mi è venuto da ripensare agli episodi di parricidio nei quali mi è capitato di imbattermi in questi anni nella mia frequentazione della storia sociale. Un giovane soldato ubriaco sgozza la madre a Varese Ligure nel 1850[iii]; e ci immaginiamo il popolo genovese che si affolla a Palazzo ducale per il processo e uno che dice all’altro qualcosa che credo dovesse suonare all’incirca così: «Belandi, ma che tempi! Oua unna muè no peu manco ciu fidase de se figgiu!». Pochi anni prima in Normandia un altro giovane, Pierre Rivière, sterminava la famiglia eccetto il padre; il suo caso fu reso celebre da Esquirol, e poi da Foucault. O ancora più indietro ripenso a Elio Prisco, il folle matricida del quale ebbero ad occuparsi Marco Aurelio e Commodo nella Roma imperiale[iv]. Mala tempora currebant anche allora, forse. E chissà quanti altri se ne potrebbero trovare. Qualcuno apparentemente tranquillo dopo il fatto, qualcuno più scosso.
La storia ci dice insomma che parricidi ce ne sono stati sempre, in epoche lontane e diverse tra loro; certo sarebbe interessante sapere se si addensino particolarmente in quelle che hanno in comune un lassismo morale, sarebbe suggestivo, ma non ho dati per dirlo.
Perciò, temo che con il fatto di Codigoro e altri – ricordo tra i più noti Doretta Graneris (1975), Roberto Succo (1981), Nicola Carretta (1989), Pietro Maso (1989), Elia Del Grande (1991), Stefano Diamante (1999)[v], Erika e Omar (2001), Aral Gabriele (2002), Giuseppe La Mendola (2014), Davide Mugnos (2015), Igor Diana (2016) – c’entrino poco la società e il fatto che ci sia più o meno attenzione per i sentimenti collegati alla colpa, salvo prova statistica contraria. Tutti i ragazzi vivono nella stessa società, caratterizzata da forte o debole riferimento al senso di colpa, ma quelli che commettono un parricidio sono pochi di loro.
Se quindi non mi convince molto il riferimento alla società da parte di Recalcati, neppure però mi convince fino in fondo Marco Nicastro[vi], al quale pure mi sento più vicino, quando chiama in causa l’amore dei genitori verso i figli alla luce delle teorie della Klein o di Bowlby. Né il relativo commento di Antonello Sciacchitano il quale fa riferimento, lasciando minore spazio al dubbio parrebbe, alla relazione tra sviluppo della personalità e paranoia in Lacan e il venir meno, in questi casi, di meccanismi inibitori. In queste posizioni colgo infatti due elementi di debolezza. Il primo, che nessuno di noi sa evidentemente nulla della relazione genitori-figli in quella specifica famiglia, e dello stile di attaccamento o della personalità sviluppata da quel figlio (e questo Nicastro peraltro lo ha ben presente). Il secondo, che i meccanismi disfunzionali che i due colleghi descrivono sono, credo, piuttosto diffusi e se ogni volta dovessero portare al parricidio il mestiere di genitore sarebbe più pericoloso di quello dell’artificiere; invece i parricidi riguardano, infondo, in una nazione di 56.000.000 circa di abitanti un numero che credo sia nell’ordine di qualche decina, e anche per questa ragione inquietano, colpiscono, fanno scrivere.
A proposito poi dell’articolo di Sarantis Thanopulos, credo che valgano per la parte conclusiva alcune delle considerazioni già svolte, ma mi colpisce soprattutto un passaggio, quello in cui si sostiene: «Il divieto di uccidere i genitori origina dal senso di responsabilità nei loro confronti come primi e costitutivi oggetti di passione erotica»[vii]. Ma davvero ne siamo convinti?
E se l’ipotesi freudiana dell’esistenza del complesso di Edipo, che – pur rispettabile – sempre un’ipotesi scientifica è, dovesse essere un giorno confutata? Ma è davvero necessario questo contorcimento logico, mi chiedo, per spiegare perché l’essere umano avverte un divieto di uccidere gli altri esseri umani, e in particolare i familiari? Non c’è niente di più solido a cui ancorarsi?
Francamente non credo. Credo che invece l’essere umano sia generalmente trattenuto dall’uccidere il suo simile proprio perché quest’essergli simile lo spinge a immedesimarsi con lui. O, se vogliamo proprio ricorrere a una logica utilitaristica per non apparire ingenui od ottimisti (il che sembra un peccato imperdonabile nel dibattito culturale odierno) se non altro perché l’essere umano avverte in genere la convenienza di vivere in una società nella quale ci si uccide poco, perché questo fa sì che, al costo di rinunciare a essere un assassino (che non credo sia infondo un gran piacere), abbia minori probabilità di essere assassinato (il che mi pare un bel vantaggio!). Non credo sia necessario perciò spiegare, con ragionamenti più o meno astrusi, perché di solito non si uccide; semmai il problema sarebbe spiegare perché (raramente) lo si fa.
In famiglia, poi, cioè in casa, ci si uccide vicendevolmente con frequenza ancora minore che fuori per quello che mi pare, diciamo così, un tacito accordo; e questa è la ragione per cui, entrando in casa, ci chiudiamo la porta alle spalle. Per chiudere fuori il pericolo e poterci anche addormentare tranquilli. Lo sapeva Dante, il quale sbatte nel IX cerchio, quello dei traditori infondo all’inferno, i rei di assassinio domestico. Gli assassini dei familiari nella Caina, e quelli degli ospiti che, finché sono tali, ai familiari sono assimilati da un analogo tacito vincolo di non aggressione, nella Tolomea. Ma non solo; Foucault ricorda come persino Hobbes, che certo di una visione ottimista dell'uomo non è sospettato, consideri la serratura della porta di casa lo strumento con il quale ci si difende dalla guerra che sostanzia la società, anche la più civile[viii]. Mi pare che così la questione fili più lineare.
Non mi convince, dunque, con riferimento a questo specifico evento, fino in fondo il richiamo alla società priva di valori che fa Recalcati, né mi convincono del tutto le, pur diverse, tesi più spostate sulla psicologia (sulla psicoanalisi) degli altri tre colleghi. E allora?
Un mese fa, nel ricordare i 150 anni di Delitto e castigo, mi soffermavo su due ipotesi per il delitto di Raskolnikov. La prima, ripresa da Backès, che esso possa anche non avere una ragione, o almeno una ragione talmente forte da spiegare un assassinio, e che in molti atti umani possa avere soprattutto importanza il bisogno di fare esperienza piena della libertà, compreso il male che della libertà rappresenta, per Dostoëvskij, il limite estremo. La seconda, che al passaggio dal progetto dell’assassinio alla sua attuazione – che non è affatto un passaggio breve né disinvolto – possa aver contribuito un meccanismo analogo a quello che Binswanger chiama l’esaltazione fissata. L’accarezzare cioè tanto un’idea, un progetto, da finire per convincersene. Agevolato, in questo caso, da un meccanismo gregario analogo a quello che ancora Dostoëvskij esplora nell’assassinio di Satov da parte de I demoni, attraverso il quale ciò che a ciascuno pare impossibile, parlandone insieme può diventare più plausibile. E mi viene da immaginarli, allora, i due ragazzi, nella stanza accanto, mentre al di là del muro sentono, più o meno lieve, forse il russare di uno o entrambi i genitori, a dirsi l’un l’altro: «ma no, dai, è una cazzata, lasciamo perdere. E se poi ci beccano?». Ed abbattere, una per volta, le obiezioni fino a compiere il salto dal campo delle ipotesi alla realtà.
Ma mi rendo conto d’essermi, forse, fatto prendere la mano anch'io. In realtà, non so se c’entri nulla qui Raskolnikov, né se la scena precedente l’assassinio possa essersi svolta all’incirca così. L’unica cosa che sappiamo con certezza, infondo, è che questo evento ci turba, in primo luogo perché è un assassinio, il che non è, nella nostra pur vituperata società, un fenomeno frequente; e poi perché è avvenuto in casa, perché è avvenuto in famiglia, perché il movente, per l’uno e per l’altro ragazzo, si intuisce, qualunque esso sia, drammaticamente sproporzionato, insufficiente. Perché è un atto mostruoso, anormale di quelli che – è stato ancora Foucault ad approfondirlo in uno dei suoi testi che amo maggiormente[ix] – lasciarono sbigottiti, attoniti, muti gli uomini e le donne del XIX secolo. Madri che uccidono bambini, figli che uccidono genitori, uomini che uccidono donne, adolescenti che si uccidono tra loro senza un’apparente ragione. E continuano a lasciare attoniti oggi; in questo atteggiamento credo sia molto importante permanere resistendo all’impulso a sottrarci all’enigma.
Riconoscere, da subito, intorno all'enigma l'umanità dell'autore ed essergli accanto – ne avranno bisogno – significa, anche, lasciarci così interrogare con lui.
E, certo, chi avrà forse a che fare con i due ragazzi come clinico, come perito o giudice potrà avvicinarsi a comprendere qualcosa in più di noi; ma probabilmente – e il pensiero va ancora a Dostoëvskij – il nucleo ultimo di verità dell’atto rimarrà anche per lui inafferrabile.
E così, ritornando alla frase che mi aveva inizialmente trattenuto dal provare a buttar giù queste note, mi chiedo se ad avere l’atteggiamento più adeguato tra il sociologo, lo psicologo e il cretino non sia proprio il terzo, colui che di fronte al presentarsi dell’infinita gamma di possibilità della libertà umana nella sua variante meno frequente, più insensata e più tragica rimane spaventato e si sente di dire soltanto, umilmente: “ci sono, ma non capisco; resto attonito e non ho spiegazioni”.
[i] M. Recalcati, Rivalutare il senso di colpa? (clicca qui per il link).
[ii] Vedi in questa rubrica: 150 anni con Raskolnikov (clicca qui per il link).
[iii] Ho ricostruito il caso in: L’ordito e la trama, Genova, Brigati, 2012, vol. I.
[iv] Il caso è riportato in: Aa. Vv., Il policlinico della delinquenza. Storia degli ospedali psichiatrici giudiziari italiani, Milano, Franco Angeli, 2016.
[v] Ricordo che sul caso Pol. it ha pubblicato una perizia ad opera di R. Rossi, U. Gatti, G. Rocco (clicca qui per il link) e l’articolo di R. Rossi In margine al caso Diamante (clicca qui per il link).
[vi] M. Nicastro, Figli che uccidono i genitori. Considerazioni al di là del bene e del male (clicca qui per il link)
[vii] S. Thanopulos, Responsabilità e colpa dei figli (clicca qui per il link)
[viii] M. Foucault, Difendere la società. Dalla guerra delle razze al razzismo di stato (1976), Firenze, Ponte alle Grazie, 1990, p. 66.
[ix] M. Foucault, Gli anormali. Corso al Collège de France (1974-75), Milano, Feltrinelli, 2000.
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