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Salvatore Misdea, Cesare Lombroso e il misdeismo (1)

1 Feb 17

A cura di Luigi Benevelli

 

Salvatore  Misdea nacque a Girifalco nelle Serre Catanzaresi nel 1862, l’anno dopo l’unificazione del Regno d’Italia .  Militare  di leva, il 25 gennaio 1883 fu  destinato al 19° Fanteria “Brescia” a Napoli, nella caserma di Pizzo Falcone. Qui il 13 aprile 1884, intorno alle 20, scoppiò un alterco tra alcuni soldati calabresi e graduati di altre regioni, in contrapposizione fra di loro per ragioni di orgoglio di campanile e appartenenza regionale. Riportata parzialmente la calma, durante la notte, in camerata, il Misdea, con il suo fucile iniziò a fare fuoco. Fece in tempo a sparare una cinquantina di colpi prima di essere  immobilizzato. I soldati presenti nella camerata si diedero alla fuga o si nascosero, ma per quelli che si trovarono sotto tiro non ci fu scampo: 4 furono i morti e 7 i feriti. Misdea non sparò solo sui soldati calabresi.
 
Di seguito la ricostruzione dei fatti da parte di Cesare Lombroso, che con Leonardo Bianchi redasse la perizia di parte:
 
“Era il 13 aprile, il 1° giorno di Pasqua, e i soldati del 19°, dopo averlo salutato con liete libazioni continuavano in quella caserma alla sera i discorsi della giornata. Alcuni appartenenti all’Alta Italia, Codara, Storti e Zanoletti, bisticciavansi con due calabresi, Colistri e Trovato, pretendendo che le sue fossero tutte terre arsicce. Un buon caporale, Roncoroni, impose loro il silenzio e al Trovato ordinò di tornare alla sua Compagnia.
Il soldato Misdea di Girifalco, di 22 anni che a 17 e 19 era già stato condannato per ferimento, per porto d’armi, sospettato di furto, ed infine ammonito, che s’era fatto notare e nel paese e nel reggimento per insolita violenza e per minacce feroci, come di tagliar la gola, di non voler adoperare i pugni ma l’arme, tanto che alcuni non volevano più dormirgli vicino, ritornava in quella camerata, dopo parecchie libazioni, dopo avere al suo solito, poco prima di entrare in caserma, minacciato sguainando la sciabola un cocchiere, e colpitone invece un compaesano (Iorio) che l’aveva generosamente poco prima ospitato.
Costui entrato in quel momento, chiesto al caporale Codara, con cui aveva altercato  pochi dì innanzi, perché litigassero n’ebbe una risposta insultante «Che c’entri tu? se vuoi qualche cosa te la do io» poi se la prende col Roncoroni per l’ordine impartito come d’un oltraggio scagliato in viso a lui, calabrese, – Ecco, egli gridò con mal piglio, perché è calabrese, lo mandate via.- e lo squassò per la giubba.
Però, essendoglisi quella buona pasta di caporale offerto ad una sfida, mostrandogli come non avesse le insegne del grado, egli non fiatò.
Poco dopo al soldato Codara che ne lo redarguiva, disse:
–          Lasciami stare. Ho per capo certi brutti capricci, e non so come finirà!
–          Ma tu l’hai sempre coi piemontesi e coi lombardi- che t’abbiamo fatto?
–          Sì, rispondeva il Misdea, l’ho coi piemontesi. E qui gli picchiò nel petto gridando: E guarda, così come ho fatto a te, sono capace di dare soddisfazione ad uno ad uno, ché mi rido di tutti voialtri!
Il Codara gli dié un ceffone ed egli fece per sguainare la sciabola, ma ghermito per le braccia, non poté muoversi. Allora profferiva queste parole:- Guarda Codara, che stanotte ti taglio la testa!- intanto il caporale Morzillo gli infliggeva allora la prigione.
Il Codara, presago di quanto poteva avvenire, andò a riferirne al sergente Cane, che, venuto là, rimproverò tutti, minacciandoli che se continuavano avrebbe mandato tutti in cella, ma intanto la sua minaccia, a parole, tolse la condanna effettiva e il Misdea, che aveva cominciato ad allestirsi per la cella, smise subito, andò a bere e lo si sentì borbottare rabbiosamente con un compagno:
–          M’hanno dato uno schiaffo!
Tornò al suo letto, tirò fuori le cartucce sue e d’altri compagni.
Si fece silenzio. Codara, Zanoletti, Storti e Vincenzi si sdraiarono un’altra volta sopra il letto d’un soldato e tornarono a parlare quando s’ode un’esplosione. Zanoletti cade a terra ferito!
Tre erano a letto e furono feriti tutti e tre gravemente; altri tre fuggirono cercando uno scampo nella latrina. Il Misdea li inseguì e, contro la porta della latrina esplose altri colpi e ne feriva alcuni. La strage non era finita. Il Misdea rincorreva i fuggitivi, molti dei quali si gettavano a terra per evitare i colpi; altri li fece sfilare fuori dal cesso e li colpì ad uno ad uno. Quando non ne vide più negli stanzoni, s’affacciò ad una finestra  e cominciò a sparare nel cortile, ove erano soldati di linea e bersaglieri”.
 Salvatore  Misdea venne accusato di “insubordinazione con vie di fatto, mediante omicidio consumato in persona di caporale, ed omicidio mancato sulla persona di sottufficiali e caporali,commessa per motivi non estranei alla milizia ed aggravata da omicidi consumati e mancati di altri militari di grado uguale”.
Dopo circa un mese, presso il Tribunale Militare di Napoli, iniziò il processo a suo carico che si concluse con la condanna a morte con degradazione. La domanda di grazia fu respinta e fu fucilato alla schiena a Bagnoli all’alba del 20 giugno 1884. Si racconta che affrontò la morte con coraggio e dignità ed al soldato che si apprestava a bendargli gli occhi prima dell’esecuzione, disse “Ora vedrai come muore un calabrese” [1].
Alla sentenza di condanna a morte contribuì la perizia psichiatrica di Lombroso che  sostenne la tesi di una correlazione tra epilessia (quella “psichica” di cui Misdea sarebbe stato  sofferente) e devianza criminale. La follia morale, l’epilessia, l’ereditarietà, la barbarie del paese d’origine e della famiglia, i traumi e l’alcoolismo, sarebbero stati erano alla base del comportamento criminoso. Nel processo, Girifalco venne definita  tana di briganti, vennero individuati  parenti e collaterali del Misdea malati di mente ed etilisti; vennero rimarcate anche le tare ereditarie di un padre etilista e una  madre isterica, nonché la presenza a Girifalco del manicomio provinciale .
 
Il dibattito pubblico fu grande e a Lombroso si contrappose Edoardo Scarfoglio che pubblicò a puntate Il romanzo di Misdea  per controbattere alle tesi antimeridionaliste. Nel 1978 la Rai ha trasmesso uno sceneggiato dal titolo “Il povero soldato” sulle tragiche vicende di Napoli.
 
Da quella vicenda nel lessico della psichiatria militare italiana è stato introdotto il termine  “misdeismo”,  a denotare i comportamenti psicologici e le devianze causate dallo stress e dalle tensioni presenti negli ambienti militari e dalla mancata assuefazione alla vita militare.
Così Placido Consiglio, il più importante psichiatra militare  del suo tempo:  “Come il fatto di Misdea diede al Lombroso la chiave per intendere gli intimi rapporti fra pazzia, epilessia e follia morale criminosa,  ed al Bianchi e Penta per studiare la primitività psichica di alcune categorie di delinquenti, così esso fu il punto di partenza di lavori ed immagini innumerevoli per la constatazione della natura morbosa di molti delinquenti militari gravi, aggruppati tutti nella specifica categoria del misdeismo”[2]
Negli ultimi anni  la vicenda di Salvatore Misdea è stata rivisitata e riproposta come emblematica del pregiudizio anti-meridionalista dagli studiosi neo-borbonici.



[1] Cesare Lombroso, Misdea e la nuova scuola penale, 1884, cit. in (a cura di D. Frigessi, F. Giacanelli, L. Mangoni, Bollati Boringhieri) C. Lombroso, Delitto, genio, follia. Scritti scelti, , Torino, 2000, pp. 560-61.
[2] Placido Consiglio, Studii di psichiatria militare,  parte IV, Rivista Sperimentale di freniatria, 1915, pp. 35-80, p. 68.
 

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