Così esordiva nel 1960 Patrick Suppes nel suo libro Axiomatic Set Theory, destinato a diventare un classico:
Tra le molte branche della matematica moderna la teoria degli insiemi occupa un posto unico: con poche e rare eccezioni le entità studiate e analizzate in matematica si possono considerare come certi particolari insiemi o classe di oggetti. Ciò significa che le diverse branche della matematica si possono formalmente definire all’interno della teoria degli insiemi. Di conseguenza molte questioni fondamentali sulla natura della matematica sono riducibili a questioni sulla teoria degli insiemi.[1]
L’onda lunga della riduzione della matematica all’insiemistica, scaturita in modo paradossale a inizio del secolo scorso in reazione alle clamorose antinomie della teoria degli insiemi, tra le prime il paradosso di Russell dell’insieme di tutti gli insiemi che non contengono sé stessi come elementi, si spinse fino all’alba degli anni Sessanta, come testimonia il libro di Suppes. Oggi quell’onda, che dapprima sembrò uno tsunami e toccò il vertice nel movimento inaugurato dal collettivo bourbakista, si è di molto smorzata. Nelle scienze moderne non si cerca più la verità assoluta, il fondamento ultimo, come ai tempi di Platone o della teologia medievale; anche in matematica ha attecchito l’orientamento congetturale, che presume la verità degli enunciati fino a prova contraria. È l’atteggiamento scientifico par provision del cogito cartesiano, per cui tutto il verosimile è falso in attesa di confutazione.
Il merito di aver superato il “fondamentalismo” matematico, risalente agli Elementi euclidei, va in buona parte attribuito all’approccio algebrico della teoria delle categorie, nata intorno agli anni Quaranta all’insegna del pragmatismo americano. In un certo senso agendo più in profondità degli inventori delle geometrie non-euclidee, gli americani svuotarono la semantica della teoria degli insiemi, lasciando il guscio vuoto della sintassi insiemistica a disposizione di altri contenuti. In particolare, riformularono un’insiemistica senza insiemi, prescindendo dalla relazione di appartenenza di un elemento a un insieme. Gli insiemi persero la loro posizione ontologicamente privilegiata[2] e divennero strutture “collettive” come tanti altri oggetti matematici. Gli insiemi, i gruppi, gli anelli, i campi, i corpi, gli spazi topologici, gli spazi omotopici, gli spazi vettoriali furono da allora considerati “oggetti” da studiare in un certo senso “dal di fuori”, attraverso le loro trasformazioni reciproche, che trasformano anche le operazioni interne, se ci sono: si chiamano morfismi o operatori. Sono tali le applicazioni iniettive e/o suriettive in insiemistica; gli omomorfismi, in particolare gli isomorfismi, in algebra; le applicazioni continue, in particolare gli omeomorfismi, in topologia. Oggi la matematica si sviluppa “oggettivamente”, a prescindere dagli individui elementari, su oggetti astratti. È il trionfo dell’astrazione generalizzante, quanto di più lontano dalla pratica psicoanalitica delle narrazioni di casi singolari.[3]
Se ciononostante, a rischio di suscitare incomprensioni, nei post di questa rubrica faccio ancora riferimento alla matematica, la ragione è che essa tratta un sapere collettivo sul collettivo, riguardante da vicino la psicoanalisi e i suoi soggetti sia individuali sia collettivi. Mi spiego.
In psicoanalisi, specialmente in quella freudiana, la nozione di collettivo fa problema. Sembra che nel freudismo funzioni un’inibizione intellettuale collettiva a pensare il collettivo. È per il prevalere della clinica del singolare? È per la forza di suggestione dell’insegnamento magistrale? Chissà che un approccio matematico non serva a sbloccarla. Nella biblioteca di Freud non c’erano libri di matematica. Ma nella sua Massenpsychologie Freud formulò una teoria dei collettivi sociali, definendoli con una proprietà caratteristica come Cantor definisce gli insiemi: l’identificazione degli individui allo stesso Führer o allo stesso ideale. Per intenderci, potrei dire che il sottoinsieme dei numeri pari dei numeri naturali {0, 2, 4, 6…} è una massa freudiana; la proprietà caratteristica della “massa dei pari”, l’ideale cui si conformano, che li distingue e separa il loro insieme da quello dei dispari, è che divisi per 2 danno resto 0. Come un insieme matematico è individuato dalla proprietà di cui godono tutti gli elementi che vi appartengono, così nella massa freudiana c’è qualcosa che accomuna tutti i suoi appartenenti: tutti gli individui della massa hanno la stessa identificazione. Vista con gli occhi dell’individuo, la massa è un superindividuo in estensione. Fine dei giochi.
L’approccio insiemistico, inconsapevolmente matematico, di Freud rese la massa sociale un blocco unico, privo di struttura interna e non ulteriormente analizzabile. Nell’analisi del collettivo Freud non andò oltre l’identificazione di tutti con il capo; non previde interazioni tra elementi della massa, operazioni come somme o moltiplicazioni tra di essi come nei collettivi algebrici. Freud non parlò esplicitamente di cooperazione sociale. L’unica forma di cooperazione collettiva che Freud concepì fu l’alleanza provvisoria dei fratelli per uccidere il padre nel mito dell’orda primordiale. Forse proprio per l’inibizione di Freud ad approfondire l’analisi del collettivo, la pratica freudiana della psicoanalisi rimase fissata a un setting collettivo molto ristretto: quello di poltrona e divano. Non se ne esce. I suoi allievi non si sono dimostrati meno disinibiti. Qualcosa di meglio hanno prodotto gli eretici.
Come procedere senza passare per l’eresia?
Lo dico provocatoriamente: si procede con la matematica, in particolare con la topologia. E qui preciso: non con la topologia alla Lacan, che usò le varietà bidimensionali come espediente mnemonico per trasmettere senza equivoci agli allievi le unità basiche del proprio insegnamento, i cosiddetti matemi (che non sono teoremi). Intendo la topologia come studio della coesione dello spazio topologico, essendo scontato che essa vari da spazio a spazio, per esempio per numero di buchi o cunicoli come dal granito alle spugne.
La mia provocazione matematica è rischiosa (per me stesso, non per altri). È facile fraintenderla. Fino a poco tempo fa il fraintendimento più comune era interpretare l’applicazione del discorso fisico-matematico ai fenomeni della vita come riduzionismo meccanicista. Tale evenienza oggi non mi preoccupa. La nozione di riduzionismo è il retaggio della reazione fenomenologica al positivismo, ormai obsoleta tanto quanto il positivismo stesso. Nei dizionari filosofici di cui dispongo non se ne fa più cenno. Se poi con riduzionismo (o scientismo) si intende che “la scienza non pensa”, posso continuare tranquillo per la mia strada. In pratica contro l’obiezione che la scienza sia riduzionista stanno i lavori di Maturana e Varela sui sistemi biologici autopoietici e di Luhmann sui sistemi sociali autoreferenziali. In questa ottica l’approccio matematico è giustificato, perché consente di trattare l’autoriferimento (o la riflessività) in modo rigoroso.[4]
Ricordo che ai primi del secolo scorso, al tempo delle citate antinomie, la matematica superò una feconda crisi di crescita, acquisendo la distinzione tra collettivi propri (gli insiemi) e collettivi impropri (le cosiddette classi proprie, sic; purtroppo la terminologia si è consolidata così). La distinzione è riflessiva. I primi collettivi sono membri di altri collettivi, i secondi non rientrano in alcun collettivo. Tra i primi figurano le masse freudiane, le chiese e gli eserciti, dove gli individui stanno insieme o all’insegna di qualche ideale o per identificazione con qualche Führer, posto come oggetto odioamoroso nell’ideale dell’Io di ciascun componente della massa. Tra i secondi… a tra poco.
Tuttavia le masse freudiane non esauriscono il collettivo dei collettivi propri. Esse corrispondono, sì, agli insiemi cantoriani senza struttura, definiti unicamente dalla proprietà caratteristica di cui godono tutti gli elementi appartenenti all’insieme, ma tra i collettivi propri ce ne sono molti altri, forse più interessanti; in particolare, ci sono quelli con struttura interna più ricca della comune identificazione, perché dotati o di operazioni interne o di relazioni di ordine o di vicinanza tra gli elementi del collettivo.
Freud non si sbilanciò mai a considerare insiemi più complessi di quelli cantoriani; non si riferì a collettivi dotati di struttura interna, come sono i collettivi algebrici, dove esistono operazioni tra elementi che risultano in altri elementi del collettivo, o i collettivi topologici, dove esistono relazioni che stabiliscono la coesione tra elementi. Freud non prese mai in considerazione l’interazione tra singoli individui del collettivo, come potrebbero essere in algebra le operazioni di somma e prodotto o in topologia le relazioni di vicinanza. Non esiste legame sociale interindividuale nei collettivi freudiani. Persino nel piccolo collettivo della cura analitica l’interazione tra i soggetti fu da Freud teorizzata in senso unidirezionale: dall’analizzante all’analista (transfert) ma non dall’analista all’analizzante (controtransfert). Inibizione?
Il massimo che Freud riuscì a concepire come relazione interindividuale fu o l’aggressività reciproca o l’ostilità verso l’ideale collettivo (il padre edipico morto), da trasformare in auto-aggressività per mantenere integro il collettivo. Non c’è traccia di “giochi cooperativi” in Freud, come ho già detto. La sua è una sociologia per scimpanzé, non per umani. In Freud l’altro fu sempre l’aggressore potenziale da cui difendersi. Tutti i meccanismi di difesa della metapsicologia freudiana si reggono sulla base paranoica dell’inconscio che perseguita il conscio con le sue pulsioni. Con conseguenze nella cura analitica. Vista la relazione analitica a rovescio, dal versante del terapeuta, l’analista freudiano non ha gli strumenti teorici per maneggiare, eventualmente per piegare a fini di cura, il proprio controtransfert che interagisce con il transfert dell’analizzante, vissuto come aggressivo.
Orbene, la matematica, in particolare la topologia, può aiutare lo psicoanalista a uscire dalle strettoie teoriche freudiane, insegnandogli, prima ancora che a praticare, a pensare possibili interazioni locali tra soggetti, nel caso della cura dell’analizzante con l’analista e dell’analista con l’analizzante. Per trattare la particolare interazione tra soggetto e oggetto del desiderio, la matematica può risultare utile soprattutto nel caso non raro in cui la cosiddetta relazione oggettuale metta il soggetto di fronte a uno dei tanti oggetti infiniti.
Freud inventò la prima mossa clinica giusta, scomparendo alla vista del paziente e ponendosi alle sue spalle, quasi per dire: “Non sono io, povero oggetto finito, l’oggetto che tu desideri”; così uscì dalle secche del rapporto sadomasochista tra medico e paziente. Ma non bastò. In fondo Freud non seppe mai assumere nella cura la giusta posizione passiva dell’oggetto “freddo” del desiderio, perché non aveva una teoria dell’infinito. Nella cura Freud rimase sempre attivo, in posizione up, e il suo paziente sempre passivo, in posizione down; il paziente rimase figé nel ruolo dell’Analysierte, l’analizzato. Il risultato, oltre che improbabilmente terapeutico, modellato com’era su un’idea di cura estranea alla psicoanalisi come la medica, fu che la psicoanalisi non divenne mai un fatto primariamente collettivo, anche se inizialmente ebbe un certo successo di moda. Lo testimoniano le associazioni psicoanalitiche che rimangono collettivi “piatti”, definiti staticamente dal comune riconoscimento della dottrina ortodossa, ulteriormente non modificabile.
Segnalo en passant in Freud una curiosa simmetria tra transfert e controtransfert, pertinente alla vicenda collettiva di Freud e del movimento psicoanalitico. In Dinamica del transfert (1912) Freud prima definì il transfert del paziente come “ristampa” (Klischee) del suo passato e poi lo trattò esclusivamente come resistenza al progresso dell’analisi. Tutto giusto, ma c’è una simmetria. Da medico qual era, Freud cercava lo stato premorboso della nevrosi, per esempio lo stato precedente ai traumi sessuali infantili; tentava poi la restitutio ad statum quo ante cui riportare il paziente per guarirlo. Tuttavia, ostacolando la cura, il paziente soddisfaceva istericamente il desiderio di Freud, restituendogli una ristampa, einen Neudruck, una riedizione, eine Neuauflage,[5] della propria storia passata. Freud non si accorse di essere stato giocato da Dora, perché lui stesso controtrasferiva su Dora il proprio passato di medico. Da allora nella teoria e nel movimento freudiani il controtransfert rimase tabù.
La mia proposta di metaanalisi, che passi dall’analisi individuale alla collettiva, presuppone che gli analisti, ivi compresi gli analizzanti in formazione, imparino a parlare insieme della propria esperienza clinica dell’infinito, mettendola in comune fuori dal setting freudiano (ammesso che lì se ne faccia esperienza), al di là del velo del controtransfert. Ma a tale scopo occorre un minimo di attrezzatura matematica, almeno quel tanto che basta a distinguere tra collettivi propri e impropri, in prima battuta, e in seconda battuta per distinguere i vari infiniti, da quello numerabile della ripetizione a quello più che numerabile della prospettiva delle rappresentazioni ottiche o delle combinazioni sonore.
Aggiungo un’osservazione suggeritami dagli echi dei miei post. Sembra che la nozione di soggetto collettivo, che sto cercando di configurare, sia in rete percepita, se non come contraddittoria, come qualcosa di idealistico, qualcosa che opprime l’individuale e in particolare sarebbe sorda alla sua singolare sofferenza. Non è una preoccupazione insensata; è giustificata tra i freudiani dalla stessa povertà della concezione di collettivo ridotto a super-singolo. A chi la nutre faccio presente che la matematica può costituire un efficace vaccino anti-idealistico; può prevenire la malattia dell’idealizzazione del collettivo di appartenenza. La tentazione idealistica del pensiero è onnipresente e pervasiva. È facile cascarci perché pensare con l’ideale è più facile che pensare senza ideali, attraverso semplici congetture. Ma forse proprio per questo si resiste alla matematica. Intendo a quella moderna, che ha cessato di essere idealista. L’ultimo grande platonico fu Kurt Gödel, che con il proprio teorema di indecidibilità minò le basi del platonismo stesso. Ora tocca a noi proseguire la sua opera.
Mi tocca, come dicevo, accennare ai collettivi impropri. Non è difficile perché non c’è bisogno di definirli, non essendo qualificabili in termini di “essenze”. Sono essenzialmente antifilosofici. Il femminile, per esempio, è un collettivo improprio in cui sono quotidianamente immerse tutte le nostre vicende di famiglia. Mentre il maschile è definibile attraverso la castrazione, il femminile sfugge alla simmetria della castrazione, come Freud aveva correttamente visto, perché nella donna non c’è nulla da castrare.
La soluzione proposta da Lacan al problema della sessuazione ha un suo non piccolo interesse per il particolare riferimento alla logica del collettivo e al legame sociale che essa comporta. Tutti i maschi sono castrati perché esattamente uno non lo è, il Padre. Prima che contraddittoria, si tratta di logica teologica. Fonda la teologia politica del dittatore che ha diritto (divino) di legiferare in assenza di ogni diritto (umano). È la ben nota logica dello stato d’eccezione, che in Occidente ha imperversato dai tempi della dissoluzione del potere temporale della Chiesa e della faticosa emergenza delle moderne democrazie.
Nulla di tutto ciò si riscontra nell’altra metà del cielo, proprio perché il femminile forma un collettivo improprio, privo di essenze ideali che lo fondino. Neppure la castrazione definisce il femminile. Non tutte le donne sono castrate, allora? Sì, ma attenzione! L’enunciato non garantisce che esista una donna non castrata. Nella sessuazione non vale la logica classica di Aristotele ma l’intuizionista di Brouwer; in mancanza del principio del terzo escluso – o sei castrato o non lo sei – dalla negazione dell’universale non si deduce l’esistenziale negativa. Se una singola donna non è castrata, il fatto certamente rilevante va accertato con l’analisi accurata del caso particolare, addirittura singolare, a prescindere da ciò che vale in generale per tutte le altre donne. L’analisi, come la matematica intuizionista, “procede sempre dal particolare al particolare”.[6]
Termino qui per non passare per prolisso. Casi di collettivi impropri andrebbero presentati in ambito pubblico metaanalitico, non per confermare le dottrine vigenti – nel caso freudiano i miti di Edipo e della castrazione – ma per aprire nuove e inconsuete vie di ricerca sul rapporto d’oggetto. Allora la castrazione non sarebbe trattata più come mito individuale ma come realtà costitutiva (matematica) dei soggetti individuale e collettivo.
In verità, ammettiamolo: della castrazione collettiva sappiamo ancora troppo poco. Quello di cui disponiamo si riduce al mito freudiano dell’orda primitiva del padre castrante, cui i fratelli, castrati e votati all’omosessualità, si identificano dopo averlo ucciso. Sinceramente è un po’ poco e poco utilizzabile in pratica in collettivi non identificatori. Per passare dall’attuale diffusa inibizione collettiva all’azione politica, una buona psicoanalisi richiede di abbandonare la mitologia e di fare i conti con la matematica, promuovendo il formarsi di collettivi impropri, più femminili che maschili. Anche rischiando che siano meno governabili degli attuali, perché non identificatori. In compenso saranno più vivibili per la vita del pensiero.
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