Era il 20 marzo di cinquant’anni fa quando Franco Basaglia tenne alla Clinica neuropsichiatrica dell’Università di Genova la conferenza “Corpo e istituzione. Considerazioni antropologiche e psicopatologiche in tema di psichiatria istituzionale”, che fu pubblicata l’anno successivo su Che fare, il bollettino inquieto e curioso di “critica e azione d’avanguardia” nato nel maggio 1967 e animato da intellettuali attivi nella sinistra italiana dagli anni ’50 come Roberto Di Marco, tra i fondatori del Gruppo ’63, Francesco Leonetti e Gianni Scalia, ed è ora compreso nella raccolta degli scritti pubblicati a cura di Franca Ongaro Basaglia con Einaudi nel 1981, e dell'antologia intitolata L’utopia della realtà del 2005, quest’ultima disponibile dal 2014 anche come e-book[i].
La Clinica genovese era in quel momento diretta da Cornelio Fazio (1910-1997), un antifascista originario di Garessio (è nota in città una sua fuga rocambolesca dalla polizia fascista attraverso le corsie nel 1944) che la dirigeva dal 1955. Era essenzialmente un neurologo e come tale si era formato alla scuola torinese di Giuseppe Levi, avendo come compagni di studi personaggi del calibro di Renato Dulbecco, Salvatore Luria e Rita Levi Montalcini. Dal punto di vista della posizione accademica apparteneva a quelli che allora erano chiamati i “baroni” e quando, nel 1969, si trasferì a Roma, portò con sé un gruppo di allievi destinati ad andare in buona parte in cattedra, che nell’ambiente romano i maligni ebbero buon gioco a soprannominare “i faziosi”. Erano gli anni nei quali all’interno di una ambiente affascinato dai progressi della ricerca neurologica e dalle prospettiva della neonata psicofarmacologia, nella Clinica genovese il gruppo degli psichiatri guidato da Franco Giberti si muoveva in controtendenza e andava maturando un approccio attento alla fenomenologia e marcatamente orientato alla psicoanalisi, e preparando la separazione che avrebbe di lì a poco avuto luogo. Negli ospedali psichiatrici della città il direttore Giorgio Padovani era un estimatore della socioterapia francese che si sforzava di introdurre nella nostra realtà, ed apparteneva a quanti erano convinti della loro riformabilità. Quanto a Basaglia, si era impegnato nel decennio precedente nella psicoterapia a indirizzo fenomenologico-esistenziale e daseinsanalitico e dirigeva da sei anni l’ospedale psichiatrico di Gorizia sperimentando, tra pochi in Italia, la comunità terapeutica; dal 1964 aveva cominciato a sostenere la necessità di chiudere gli ospedali psichiatrici.
Certamente tanto gli studi fenomenologici di Basaglia che l’esperienza goriziana, che questa sua clamorosa presa di posizione erano noti all’uditorio, e di qualche contatto tra Genova e Basaglia in quegli anni abbiamo traccia. Andrea Arata in un libro recente ha ricordato la visita sua, della moglie Piera Bevilacqua e di Bruno Orsini (che sarebbe poi diventato il relatore della legge 180), tre psichiatri degli ospedali psichiatrici genovesi dunque, l’11 settembre 1966 a Gorizia, accolti da Antonio Slavich che fu il primo medico ad aver collaborato con Basaglia in quell’esperienza (ed era all’epoca, ricorda Arata, ancora sbarbato). Ne trassero una buona impressione[ii]. Negli stessi anni Questo nostro ambiente, il periodico autogestito da un gruppo di ricoverati dei manicomi genovesi, pubblicava un resoconto della visita di studio di due allieve assistenti sociali, Dolcetti e Mattia, a Gorizia, e al loro entusiasmo faceva riscontro una nota della redazione evidentemente preoccupata di minimizzare le differenze con gli esperimenti socioterapici in atto a Genova[iii].
Non sappiamo come nacque la conferenza, né quale fu l’impatto sull’uditorio, ma certo offrì al relatore l’occasione per testare in un ambiente verosimilmente scettico i passaggi teorici dai quali era maturata la sua posizione, senz’altro in quel momento dirompente e pressoché solitaria. Basaglia appare consapevole delle caratteristiche del luogo in cui si trova e apre con una evidente excusatio non petita (o forse almeno implicitamente petita, chissà?): il suo non sarà un processo alla psichiatria asilare, ma un discorso volto a una “onesta messa a fuoco”[iv], tanto dal punto di vista operativo che scientifico – antropologico e psicopatologico – della situazione in cui la psichiatria in quel momento si trova.
Il testo è denso e ricco di riferimenti teorici, spesso meglio chiariti in lavori precedenti, e il risultato si avvicina a costituire una teoria della deistituzionalizzazione.
E’ possibile rintracciarvi intrecciati tre filoni: quello della fenomenologia e dei suoi sviluppi applicati a temi quali il corpo, l’alterità, l’incontro e il mondo psicotico (riferimenti espliciti a Husserl, Binswanger, Max Sheler, Erwin Straus ed Erling Eng, e impliciti almeno a Sartre, Merleau-Ponty e allo psichiatra olandese Jan Hendrik Van Den Berg); quello dell’analisi delle dinamiche istituzionali (riferimenti espliciti a Russel Barton, Erving Goffman e impliciti ad altri anglosassoni e forse Foucault); quello della comunità terapeutica, conosciuta attraverso l’esperienza di Maxwell Jones. Altri riferimenti esulano da questi filoni e riguardano Eugen Bleuler, oggetto di una notazione critica, il sociologo sovietico Jurij Davydov, la dialettica servo-padrone di Hegel, André Breton e, forse, l’analisi del mondo coloniale di Frantz Fanon[v].
Quanto all’approccio psicodinamico (psicoanalitico) Basaglia vi dedica un breve riferimento per non escludere che, anche per quel tramite, condizioni idonee per la necessaria reciprocità tra curante e curato possano realizzarsi. Non sembra avere presenti, però, in quel momento le esperienze di applicazione del metodo psicodinamico all’istituzione, che già all’estero venivano tentate, e questo lo porta ad escluderlo quindi dalle proprie considerazioni. in quanto di applicazione pressoché limitata alla situazione privilegiata del setting psicoterapeutico individuale.
Un primo elemento sembra emergere comunque con chiarezza: è la ricchezza dei riferimenti teorici che, accanto ai classici della corrente fenomenologico-esistenziale e daseinsanalitica, sono costituiti da elaborazioni in quel momento in fieri di contemporanei colte con un respiro cosmopolita non così comune tra gli intellettuali italiani (tutti gli autori citati sono stranieri). La deistituzionalizzazione, quindi, non nasce dalla testa di Basaglia come Minerva da quella di Giove, ma la sua origine va rintracciata all’interno di quel fermento intellettuale, anche attraverso lo scambio di materiale inedito sulla base di relazioni personali, com’è il caso di Eng il cui contributo sembra qui fondamentale.
Un secondo elemento è che l’ipotesi di una cesura tra un Basaglia cultore della fenomenologia e uno critico dell’istituzione appare qui davvero poco sostenibile, sul che concordano peraltro – pur con accenti diversi – molti di coloro che hanno affrontato anche recentemente il problema, come Giovanna Gallio, Stefano Mistura, Eugenio Borgna, Federico Leoni, Giovanni Pizza, Colucci e Di Vittorio. E per questi ultimi: «La fenomenologia e la lotta antiistituzionale si intrecciano nell’esperienza di Basaglia, da Padova a Trieste, fino alla legge 180. Sono due dimensioni così aggrovigliate e indistricabili da proseguire l’una nell’altra in un fitto gioco di rimandi paradossali»[vi].
Quanto all’idea dell’incontro tra psichiatra e malato l’immagine che Basaglia ne trasmette è quella di un momento faticoso, impegnativo, estremamente colto e prezioso, assai distante senz’altro dalla sciatteria nella quale esso si realizzava allora nell’asilo, ma anche oggi (purtroppo) talvolta si realizza nei nostri ambulatori, luoghi della riabilitazione e reparti[vii]. La follia è un fenomeno importante e che può dare grande sofferenza a chi ne è vittima; meriterebbe un ascolto attento, e affrontarla in modo semplice, con quell’atteggiamento fondato sull’epoché che per Basaglia è necessario, è paradossalmente molto complicato e richiede molto studio e molta riflessione. E anche, naturalmente, la giusta attenzione da chi ha responsabilità delle politiche sanitarie con la messa a disposizione di risorse proporzionate all'impegno necessario.
Se volessimo operare una sintesi che privilegi la successione dei passaggi logici del ragionamento, mi pare che si potrebbe procedere così:
La Clinica genovese era in quel momento diretta da Cornelio Fazio (1910-1997), un antifascista originario di Garessio (è nota in città una sua fuga rocambolesca dalla polizia fascista attraverso le corsie nel 1944) che la dirigeva dal 1955. Era essenzialmente un neurologo e come tale si era formato alla scuola torinese di Giuseppe Levi, avendo come compagni di studi personaggi del calibro di Renato Dulbecco, Salvatore Luria e Rita Levi Montalcini. Dal punto di vista della posizione accademica apparteneva a quelli che allora erano chiamati i “baroni” e quando, nel 1969, si trasferì a Roma, portò con sé un gruppo di allievi destinati ad andare in buona parte in cattedra, che nell’ambiente romano i maligni ebbero buon gioco a soprannominare “i faziosi”. Erano gli anni nei quali all’interno di una ambiente affascinato dai progressi della ricerca neurologica e dalle prospettiva della neonata psicofarmacologia, nella Clinica genovese il gruppo degli psichiatri guidato da Franco Giberti si muoveva in controtendenza e andava maturando un approccio attento alla fenomenologia e marcatamente orientato alla psicoanalisi, e preparando la separazione che avrebbe di lì a poco avuto luogo. Negli ospedali psichiatrici della città il direttore Giorgio Padovani era un estimatore della socioterapia francese che si sforzava di introdurre nella nostra realtà, ed apparteneva a quanti erano convinti della loro riformabilità. Quanto a Basaglia, si era impegnato nel decennio precedente nella psicoterapia a indirizzo fenomenologico-esistenziale e daseinsanalitico e dirigeva da sei anni l’ospedale psichiatrico di Gorizia sperimentando, tra pochi in Italia, la comunità terapeutica; dal 1964 aveva cominciato a sostenere la necessità di chiudere gli ospedali psichiatrici.
Certamente tanto gli studi fenomenologici di Basaglia che l’esperienza goriziana, che questa sua clamorosa presa di posizione erano noti all’uditorio, e di qualche contatto tra Genova e Basaglia in quegli anni abbiamo traccia. Andrea Arata in un libro recente ha ricordato la visita sua, della moglie Piera Bevilacqua e di Bruno Orsini (che sarebbe poi diventato il relatore della legge 180), tre psichiatri degli ospedali psichiatrici genovesi dunque, l’11 settembre 1966 a Gorizia, accolti da Antonio Slavich che fu il primo medico ad aver collaborato con Basaglia in quell’esperienza (ed era all’epoca, ricorda Arata, ancora sbarbato). Ne trassero una buona impressione[ii]. Negli stessi anni Questo nostro ambiente, il periodico autogestito da un gruppo di ricoverati dei manicomi genovesi, pubblicava un resoconto della visita di studio di due allieve assistenti sociali, Dolcetti e Mattia, a Gorizia, e al loro entusiasmo faceva riscontro una nota della redazione evidentemente preoccupata di minimizzare le differenze con gli esperimenti socioterapici in atto a Genova[iii].
Non sappiamo come nacque la conferenza, né quale fu l’impatto sull’uditorio, ma certo offrì al relatore l’occasione per testare in un ambiente verosimilmente scettico i passaggi teorici dai quali era maturata la sua posizione, senz’altro in quel momento dirompente e pressoché solitaria. Basaglia appare consapevole delle caratteristiche del luogo in cui si trova e apre con una evidente excusatio non petita (o forse almeno implicitamente petita, chissà?): il suo non sarà un processo alla psichiatria asilare, ma un discorso volto a una “onesta messa a fuoco”[iv], tanto dal punto di vista operativo che scientifico – antropologico e psicopatologico – della situazione in cui la psichiatria in quel momento si trova.
Il testo è denso e ricco di riferimenti teorici, spesso meglio chiariti in lavori precedenti, e il risultato si avvicina a costituire una teoria della deistituzionalizzazione.
E’ possibile rintracciarvi intrecciati tre filoni: quello della fenomenologia e dei suoi sviluppi applicati a temi quali il corpo, l’alterità, l’incontro e il mondo psicotico (riferimenti espliciti a Husserl, Binswanger, Max Sheler, Erwin Straus ed Erling Eng, e impliciti almeno a Sartre, Merleau-Ponty e allo psichiatra olandese Jan Hendrik Van Den Berg); quello dell’analisi delle dinamiche istituzionali (riferimenti espliciti a Russel Barton, Erving Goffman e impliciti ad altri anglosassoni e forse Foucault); quello della comunità terapeutica, conosciuta attraverso l’esperienza di Maxwell Jones. Altri riferimenti esulano da questi filoni e riguardano Eugen Bleuler, oggetto di una notazione critica, il sociologo sovietico Jurij Davydov, la dialettica servo-padrone di Hegel, André Breton e, forse, l’analisi del mondo coloniale di Frantz Fanon[v].
Quanto all’approccio psicodinamico (psicoanalitico) Basaglia vi dedica un breve riferimento per non escludere che, anche per quel tramite, condizioni idonee per la necessaria reciprocità tra curante e curato possano realizzarsi. Non sembra avere presenti, però, in quel momento le esperienze di applicazione del metodo psicodinamico all’istituzione, che già all’estero venivano tentate, e questo lo porta ad escluderlo quindi dalle proprie considerazioni. in quanto di applicazione pressoché limitata alla situazione privilegiata del setting psicoterapeutico individuale.
Un primo elemento sembra emergere comunque con chiarezza: è la ricchezza dei riferimenti teorici che, accanto ai classici della corrente fenomenologico-esistenziale e daseinsanalitica, sono costituiti da elaborazioni in quel momento in fieri di contemporanei colte con un respiro cosmopolita non così comune tra gli intellettuali italiani (tutti gli autori citati sono stranieri). La deistituzionalizzazione, quindi, non nasce dalla testa di Basaglia come Minerva da quella di Giove, ma la sua origine va rintracciata all’interno di quel fermento intellettuale, anche attraverso lo scambio di materiale inedito sulla base di relazioni personali, com’è il caso di Eng il cui contributo sembra qui fondamentale.
Un secondo elemento è che l’ipotesi di una cesura tra un Basaglia cultore della fenomenologia e uno critico dell’istituzione appare qui davvero poco sostenibile, sul che concordano peraltro – pur con accenti diversi – molti di coloro che hanno affrontato anche recentemente il problema, come Giovanna Gallio, Stefano Mistura, Eugenio Borgna, Federico Leoni, Giovanni Pizza, Colucci e Di Vittorio. E per questi ultimi: «La fenomenologia e la lotta antiistituzionale si intrecciano nell’esperienza di Basaglia, da Padova a Trieste, fino alla legge 180. Sono due dimensioni così aggrovigliate e indistricabili da proseguire l’una nell’altra in un fitto gioco di rimandi paradossali»[vi].
Quanto all’idea dell’incontro tra psichiatra e malato l’immagine che Basaglia ne trasmette è quella di un momento faticoso, impegnativo, estremamente colto e prezioso, assai distante senz’altro dalla sciatteria nella quale esso si realizzava allora nell’asilo, ma anche oggi (purtroppo) talvolta si realizza nei nostri ambulatori, luoghi della riabilitazione e reparti[vii]. La follia è un fenomeno importante e che può dare grande sofferenza a chi ne è vittima; meriterebbe un ascolto attento, e affrontarla in modo semplice, con quell’atteggiamento fondato sull’epoché che per Basaglia è necessario, è paradossalmente molto complicato e richiede molto studio e molta riflessione. E anche, naturalmente, la giusta attenzione da chi ha responsabilità delle politiche sanitarie con la messa a disposizione di risorse proporzionate all'impegno necessario.
Se volessimo operare una sintesi che privilegi la successione dei passaggi logici del ragionamento, mi pare che si potrebbe procedere così:
- la malattia mentale ci è pressoché ignota ma può, in se stessa, essere immaginata come il venir meno dell’intervallo dove il soggetto può appropriarsi del proprio corpo, abbandonato così “in una promiscuità in cui l’altro lo urge senza tregua da tutti i lati e lo invade”[viii], e come la conseguente perdita, per proteggersi, del rapporto con la realtà
- lo psichiatra prova turbamento e imbarazzo di fronte alla difficoltà di comprendere il malato ed è spinto da questo a oggettivarne, attraverso un’operazione ideologica, il corpo-proprio – cioè colto nella complessità e ricchezza del rapporto con il suo mondo – in un corpo anatomico nel quale cercare cause e segni della malattia e trovare conferma alla sua rassicurante identità di medico (è un’ipotesi congruente con la storia della psichiatria dell’Ottocento che, nata medico-filosofica, è andata via via definendosi come disciplina quasi esclusivamente medica)
- l’internamento ha l’effetto di esercitare sul corpo del malato un’azione plasmatrice essenzialmente autoritaria, qui paragonata a quella coloniale, che non solo non favorisce la ricostruzione del corpo-proprio, ma comprime le residue possibilità che questa avvenga
- sul versante del malato questo ha l’effetto di un’appropriazione del suo corpo da parte dell’istituzione come accade nella favola orientale, citata in altro contesto da Davydov, del serpente che penetra nel corpo e ne assume la signoria lasciandolo, quando decide di abbandonarlo, vuoto (è difficile non pensare a questo proposito alle difficoltà che molti malati incontrarono nel lasciare il manicomio, o incontrano anche oggi nel lasciare certe strutture residenziali dopo lunghe permanenze)
- sul versante del medico e dell’infermiere, questo fa sì che, nell’impossibilità di un incontro autentico con l’altro, anch’essi perdano specularmente il loro corpo-proprio, l’intenzionalità e la libertà, sacrificati al ruolo istituzionale nel quale sono costretti
- l’esperienza psicoterapeutica nel setting duale condotta negli anni ’50 ha convinto Basaglia che solo un incontro autentico[ix] – a monte del pregiudizio diagnostico e dei ruoli precostituiti che vanno “messi tra parentesi” – permette l’interazione preriflessiva, cioè fondata su un noi che precede le individualità, all’interno della quale è possibile perseguire il recupero del corpo-proprio
- l’ospedale psichiatrico rende questo incontro impossibile, e anzi opera in senso opposto; la necessità della sua distruzione nasce dunque da un’istanza di equità, che apra anche agli internati, questa volta in un setting comunitario, la possibilità di questa esperienza.
La necessità, per l’esercizio della psichiatria, di poter contare su un incontro di qualità – un incontro prezioso e libero da incrostazioni e pregiudizi – non è, evidentemente, l’unico elemento dal quale scaturisce per Basaglia la necessità della chiusura dell’ospedale psichiatrico. Accanto ad esso, esiste una necessità di ordine etico-politico che si fonda nel profondo e sofferto sentimento di ingiustizia e mira a garantire all’internato la possibilità di non essere oggetto di violenza arbitraria, poter vivere in luoghi decorosi e puliti ecc. Condizioni per la cura e per una dignitosa qualità della vita sono perseguite quindi in modo sinergico ed evidentemente inscindibile nella lotta al manicomio. Poi, il fatto che il manicomio debba essere distrutto perché antiterapeutico si dimostrerà più complesso da spiegare di quello che esso debba essere distrutto in quanto luogo disumano, e saranno quindi soprattutto gli “scandali manicomiali” a sfondare nel discorso pubblico.
Ma qui Basaglia si trova tra colleghi: denunciare le condizioni di vita nei manicomi avrebbe significato sfondare un porta aperta; sul fatto che l’internato dovesse essere trattato in modo dignitoso nessuno poteva, almeno a livello teorico, non essere d’accordo. Gli interessa invece, evidentemente, misurarsi con loro sull’altra questione, quella che in genere rimane più in ombra: l’impossibilità di realizzare, nel manicomio, condizioni tali da rendere possibile l’incontro terapeutico.
Ci sono altri scritti di quel periodo – e penso ad esempio a Corpo, sguardo, silenzio, pubblicato due anni prima sulla prestigiosa rivista L’évolution psychiatrique – che sono forse più belli e più ricchi di questo. Ma in nessuno di essi mi pare che la relazione tra riduzione fenomenologica e pratica antiistituzionale emerga in modo così chiaro; e non è un caso, credo, se alcuni passaggi centrali di questo saggio sono ripresi alla lettera da Basaglia l'anno successivo in Le istituzioni della violenza, che costituisce un capitolo particolarmente importante de L'istituzione negata.
E’ evidente, peraltro, che almeno sui primi sei punti nei quali ho cercato qui di sintetizzare i passaggi del ragionamento, posti in buona parte sotto l’autorità morale di Husserl e di Binswanger, il linguaggio e la sensibilità di Basaglia potevano formare una base di partenza comune almeno con una parte di quello che immaginiamo fosse l’uditorio: il gruppo di giovani psichiatri intorno a Giberti e i più colti tra gli psichiatri ospedalieri. Su questa base si poteva affrontare l’ineludibile passaggio logico ulteriore, la chiusura dell’ospedale psichiatrico che doveva suonare allora ai più un’ipotesi sorprendente, forse velleitaria e irrealistica e, paradossalmente, antiscientifica.
Nell’immagine: La clinica neuropsichiatrica di Genova negli anni ’60[x].
N.B. Prosegue con la II parte (Il corpo e il serpente): clicca qui per il link. La III parte (Deistituzionalizzazione) sarà online dal 3 aprile.
[i] Per le citazioni si è fatto qui riferimento a: F. Basaglia (1967): Corpo e istituzione. Considerazioni antropologiche e psicopatologiche in tema di psichiatria istituzionale, in: Scritti (a cura di F. Ongaro Basaglia), vol. I Dalla psichiatria fenomenologica all’esperienza di Gorizia, Torino, Einaudi, 1981, pp. 428-441.
[ii] A. Arata, Cento… ottanta. La psichiatria tra storia e memoria di un ottuagenario (1956-2015), Boves, Araba Fenice, 2015, p. 77.
[iii] Cfr.: P.F. Peloso, Il primo esperimento italiano di periodico socioterapico (1961-74) redatto dai degenti degli ospedali psichiatrici genovesi, Atti dell'Accademia Ligure di Scienze e Lettere, L, 1993, pp. 231-250.
[iv] Ibidem, p. 428.
[v] Non possiamo qui argomentare, ma mi limito a segnalare il fatto che anche l’antropologia politica del fenomeno coloniale da parte di Fanon, come quella dell’internamento asilare da parte di Basaglia, è in larga parte basata sul destino del corpo esaminato con gli strumenti dell’approccio fenomenologico-esistenziale, rimandando a un contributo che ho recentemente pubblicato: P.F. Peloso, La maschera e il velo. Esperienza vissuta, politica del corpo e identità, in Aa. Vv., Noi e altri. Identità e differenze al confine tra scienze diverse (a cura di E. Di Maria), Genova, De Ferrari, 2017, pp. 74-84.
[vi] M. Colucci, P. Di Vittorio, Franco Basaglia, Milano, Bruno Mondadori, 2001, p. 76. Sull’importanza dell’epoché fenomenologica in Basaglia rimando anche, per la particolare chiarezza, al capitolo Mario Colucci parla di fenomenologia, in: P.A. Rovatti, Restituire la soggettività. Lezioni sul pensiero di Franco Basaglia, Merano, AB Alphabeta Verlag, 2013, pp. 59-69, e soprattutto pp. 61-63.
[vii] Dove, come scrivono ancora Colucci e Di Vittorio, «Gli psichiatri italiani [dopo Basaglia] sono fenomenologi che, a volte, hanno dimenticato di esserlo» (Ibidem, p. 76).
[viii] F. Basaglia (1967): Corpo e istituzione… cit., p. 438.
[ix] «Grazie alla fenomenologia, Basaglia scopre che se si resta confinati in una visione positivistica della malattia mentale non è possibile l’”incontro” con il malato di mente» (Colucci e Di Vittorio, cit., p. 83).
[x] Da: G. Mancardi, L. Cocito, A. Seitun, La Clinica Neurologica dell’Università di Genova. La storia e il presente, Genova, De Ferrari, 2015, p. 29 (appare emblematico che nell’iscrizione in alto al centro si legga Clinica delle malattie nervose e quindi, manchi rispetto a ciò che è possibile leggere oggi sull’edificio, il seguito “e mentali”, non sappiamo se perché in quegli anni fosse effettivamente assente, o più probabilmente per un ritocco dell’epoca alla cartolina dalla quale l’illustrazione è tratta).
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